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L’autobiografia di Alexander Dubček

Nel documento Biblioteca di Studi Slavistici (pagine 188-193)

Luciano Antonetti

Quasi un instant book: a pochi mesi dalla morte dello statista cecoslovacco, nel maggio 1993, in una quindicina di paesi e altrettante lingue, uscì l’autobio-grafia di Alexander Dubček. Più che una vera e propria autobiol’autobio-grafia, si trattava della raccolta di una serie di conversazioni che Dubček stava conducendo da qualche tempo con il giornalista ceco Jiří Hochman, emigrato negli Stati Uniti al tempo della ‘normalizzazione’. Prima dell’incidente automobilistico, che ne provocò la morte, Dubček era riuscito a rileggerne i due terzi (i primi venti capi-toli), mentre l’ultima lettura è dovuta al compianto Oldřich Jaroš, storico e suo stretto collaboratore da un trentennio, e al figlio minore di Dubček, Milan. Quel libro, tradotto dall’originale inglese, ebbe una larga eco, per diverse ragioni.

Mi limito qui a una di esse, decisiva a mio parere: in molti erano ancora vive le speranze suscitate dal generoso tentativo di coniugare, di arricchire il socialismo con la democrazia e la libertà, attuato in Cecoslovacchia.

In Italia, invece, il libro vide la luce dopo numerosi tentativi solamente nel 1996, tre anni dopo che altrove. Sempre a mio modesto parere anche qui hanno influito motivi diversi: la scarsa propensione del pubblico italiano al genere au-tobiografico, ma, soprattutto, gli avvenimenti della politica interna che nei primi anni Novanta segnarono la fine della prima repubblica e del sistema dei partiti che l’avevano tenuta a battesimo. Può sembrare un paradosso, ma è un fatto che in Italia, dove il più forte partito comunista occidentale era stato tra i primi, se non il primo, a seguire con attenzione e partecipazione la genesi e l’affermarsi della Primavera cecoslovacca, l’autobiografia di Dubček è uscita tre anni dopo che negli altri paesi. Vero è, peraltro, che stando alle mie conoscenze, l’Italia è anche l’unico paese nel quale nell’agosto 2008, insieme alla rievocazione de-gli avvenimenti di quaranta anni or sono, il quotidiano «l’Unità» ha curato la ristampa (purtroppo senza indice dei nomi) de Il socialismo dal volto umano.

Autobiografia di un rivoluzionario.

Proprio il fatto che il grande numero di rievocazioni e iniziative per ricor-dare il quarantesimo anniversario del 1968 cecoslovacco si sia avuto in agosto o da agosto abbia avuto inizio impone una prima riflessione critica. Per molti anni la Primavera dei cechi e degli slovacchi è stata ricordata in particolare per l’invasione del paese attuata da cinque stati del Patto di Varsavia: Unione So-vietica, Polonia, Germania est, Bulgaria e Ungheria, oltre che per il ventennio di ‘normalizzazione’ seguito al suo soffocamento. Le voci di quanti si

sforza-Francesco Caccamo, Pavel Helan e Massimo Tria (a cura di), Primavera di Praga, risveglio eu-ropeo, ISBN 6453-269-1 (print), ISBN 6453-271-4 (online PDF), ISBN 978-88-6453-279-0 (online EPUB), © 2011 Firenze University Press

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vano di mettere in luce altri momenti, non certo di poco conto, che avevano preceduto e preparato quello che io definii in più di un’occasione «un assalto al cielo», destinato alla sconfitta ma che andava tentato per non uccidere la spe-ranza sempre viva di vivere in un mondo migliore, restavano inascoltate. Oggi sembra cominciare ad affermarsi una tendenza che, più giustamente, cerca di collocare il fenomeno della Primavera cecoslovacca in un contesto non limita-to a quel paese e cerca di scavare nella sua nascita, nella sua crescita. I segnali sono diversi, mi limito qui a citarne alcuni. Intanto la già menzionata riedizione dell’autobiografia di Dubček, che si sofferma su tutto l’arco degli anni Sessanta del secolo scorso. A Liblice, vicino alla capitale ceca, nello stesso luogo dove nel 1963 si tenne la famosa conferenza internazionale che segnò la riscoperta e la riappropriazione di Kafka e un momento rilevante del risveglio intellettuale cecoslovacco, si è svolto un convegno tra cechi e tedeschi, per riflettere sulla portata di quell’iniziativa. La recente uscita a Praga di un libro dello storico Michal Reiman nel quale si mette in luce l’apporto degli storici alla Primavera.

Il convegno organizzato dalla Fondazione Camera dei deputati sull’eredità e l’attualità del fenomeno, e altri in diversi paesi, come quello indetto dall’Istituto di storia dell’Accademia slovacca delle scienze tenutosi a Smolenice. E ancora libri di memorie già usciti o in corso di pubblicazione in parecchi paesi. E si potrebbe continuare ancora. Tutto ciò lascia ben sperare per il futuro della rifles-sione storica su quell’evento.

Non spetta a me, curatore della versione italiana dell’autobiografia dubčekiana, pronunciarmi sulle qualità letterarie dell’opera. Ritengo doveroso, invece, indicare alcune differenze, sebbene non sostanziali, rispetto alle versio-ni pubblicate in altre lingue. Anche io, come tutti gli altri traduttori, ho dovuto fondarmi sul testo inglese. Laddove mi è stato possibile, tuttavia, le citazioni da documenti – cechi e russi in particolare – sono state confrontate con gli origina-li. Ho ritenuto di dover inserire, poi, le note stese da Oldřich Jaroš per la versio-ne ceca del libro e aggiungerversio-ne di mie, per comodità del lettore non specialista italiano. Infine ho scritto una postfazione. Mi risulta che Dubček e Hochman pensavano a un ultimo capitolo dedicato agli avvenimenti successivi alla fine del 1989. Dal canto mio, senza pretese di completezza, ho inteso richiamare alla memoria fatti che mi sembrano importanti per la comprensione della personalità dell’autore e della storia del paese. Soprattutto, mi stava a cuore parlare del par-ticolare rapporto che si era stabilito tra lo statista scomparso e il nostro paese, da lui stesso tante volte ricordato con molto piacere.

Ecco, in conclusione credo che la lettura di un libro come questo aiuti a comprendere il coro di rimpianti che si levò nel novembre 1992, alla notizia della morte e nel giorno dei funerali di Dubček. E non intendo riferirmi, qui, ai necrologi pronunciati da personalità politiche di tanti paesi, ma a giudizi espres-si, tra i molti, da scrittori e politologi per esaltare la Primavera cecoslovacca e la

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figura dello scomparso. Comincio dal politologo Ralf Dahrendorf, che nel 1998, ricordando il 30° anniversario, scrisse: «Fossi ceco o slovacco sarei orgoglioso di quell’anno. Sebbene l’opportunità di un successo fosse minima, si affermò la libertà. […] I cechi e gli slovacchi dovrebbero festeggiare il 1968. Molti di noi, negli altri paesi europei, ci uniremo lieti alla celebrazione».

Dal canto suo, lo scrittore Claudio Magris ha parlato, nei giorni del ritor-no dello statista cecoslovacco alla politica attiva, di realismo dei sogni, e Max Weber è tra chi ha sostenuto: «È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».

Il filosofo Karel Kosík ha affermato che la Primavera cecoslovacca del 1968 fu un ‘evento’, perché ha negato la validità del paradigma allora imperan-te, nell’occidente capitalistico e nei paesi del cosiddetto socialismo realizzato.

Chiudo con l’iperbolica rievocazione di Bohumil Hrabal, il quale di Alexander Dubček ha fatto, in un bellissimo necrologio, «san Sašenka... natus in Slovac-chia e denatus a Praga» che, lanciato da un razzo Apollo, orbita nei cieli, anche cristiani, come un Titano.

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Nel documento Biblioteca di Studi Slavistici (pagine 188-193)