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Autobiografia sull’avvenire come letteratura performativa

3. La finzione nell’opera di Tawada Yōko

3.5 La finzione in Memorie di un’orsa polare

3.5.3 Autobiografia sull’avvenire come letteratura performativa

C’è però da sottolineare ancora una questione riguardo al primo capitolo del romanzo, ovvero quella del percorso autobiografico che la matriarca fa alla ricerca dell’ispirazione letteraria. Dalla conversazione con la signora proprietaria dell’appartamento, infatti, le viene in mente di voler scrivere di cose passate per farsele tornare alla mente e così inizia a scrivere la sua autobiografia (Tawada 2011, 23). Mentre scrive della sua infanzia e del suo addestratore Ivan, che è stato per lei la mamma che non ha mai conosciuto, succede qualcosa che le fa capire la potenza della parola scritta:

Dopo aver scritto fin qui, mi accorgo della presenza di Ivan in piede accanto a me che fissa i caratteri. «Te la sei passata bene?», vorrei chiedergli, ma la voce non mi esce. Mentre inspiro ed espiro per un po’ di volte, lui sparisce, ma al suo posto un nostalgico tepore e un bruciore mi assalgono il petto e il mio respiro si fa affannoso. Per il fatto di aver scritto di lui, che doveva essere morto nei miei pensieri, è tornato a vivere. (Ivi, 21)

La scrittura del passato ne permette una nuova vita nel presente e così Ivan, di cui l’orsa non aveva avuto più notizie dopo il suo trasferimento in Germania, rinasce dentro di lei attraverso i suoi ricordi messi per iscritto. Proprio per il discorso a cui accennavamo prima sulla parzialità e

53 soggettività del processo mnemonico, ne deriva che il nostro cervello possa modellare il ricordo a suo piacimento: «nel processo di scrittura quindi la memoria non è soltanto richiamata e nutrita, ma è generata e creata», scrive Takeuchi Slutsky nel suo saggio ‘Rappresentare il sé, performance di vita’ (2020, 237). Questa forza vitale sprigionata dalla scrittura è qualcosa di straordinario, tanto da far sentire alla protagonista il desiderio di pubblicare i suoi scritti e mostrarli al mondo:

Scrivere la propria autobiografia mi fa una strana impressione. Il fatto di utilizzare un linguaggio, che prima usavo solo durante le riunioni, per toccare il punto più morbido del mio corpo, mi fa sentire in imbarazzo e come se stessi facendo qualcosa di proibito. Perciò, anche se prima credevo di non voler far vedere a nessuno ciò che scrivevo, guardando i caratteri in fila uno accanto all’altro, mi viene voglia di mostrarli a qualcuno a tutti i costi. Forse è proprio come quando un bambino piccolo si vanta delle proprie feci. (Tawada 2011, 26)

L’atto dello scrivere è indubbiamente un gesto intimo, che qui assume anche una funzione naturale e immediata, quasi fisiologica, dato che Tawada la eguaglia all’espulsione delle feci per un bambino. Ma la stessa esposizione dell’intimità e del proibito, non ne impedisce la divulgazione, che anzi viene favorita proprio dalla sensazione euforica della scoperta. In queste parole è

condensata anche la personale teoria letteraria dell’autrice, o quantomeno dell’orsa, che si discosta da una letteratura fine a sé stessa per portare avanti una brama di comunicazione che per gran parte del novecento era stata sotterrata.

Come dicevamo prima però, in questa prima parte non c’è una mente cosciente ben definita che scrive, non c’è ancora la formazione del soggetto che si completerà solo dopo, con

l’immaginazione del futuro, e l’autrice orsa compare e scompare proprio in virtù dello scrivere, perché ‘entra’ nei ricordi che sta riesumando e ricreando. A un certo punto però, si rende conto che questi ricordi che lei ritiene autentici e che tenta di far riaffiorare con la scrittura, sono in realtà in balìa della naturale distorsione mnemonica e si rivelano essere di natura parziale.

Scrivere un’autobiografia probabilmente significa supporre e costruire le cose che non si riesce a ricordare. Pensavo di aver già scritto dettagliatamente riguardo a Ivan nell’autobiografia, però

sinceramente non riesco per nulla a ricordare il suo viso. Più che non riuscire a ricordarlo, se lo riporto troppo chiaramente alla memoria finisco per capire che si tratta di menzogna. (Ivi, 82)

Da quel momento ha un blocco e non riesce più a scrivere, poiché questi dubbi sull’autenticità o meno della sua scrittura l’hanno fatta smarrire. Riguardo alla presenza di finzione nelle

autobiografie e nei testi che cercano di annullare la dualità di scrittore/narratore, Matsumoto Kazuya, commentando il testo di Furui Yoshikichi ‘Watashi’ to iu hakudō, scrive:

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I romanzi dell’io [shishōsetsu] e le autobiografie abusano del «margine che c’è tra lo ‘scrivere’ e la ‘realtà’», margine che in queste forme letterarie è infinitamente vicino a zero, e in più queste opere vengono addirittura accolte in questo senso [come veritiere]. Oppure, sulla via di questa tendenza, si chiude un occhio sullo scarto che c’è tra l’io che scrive e l’io raccontato, sull’inseparabilità tra gli elementi fittizi e la ‘scrittura’. Eppure, è proprio l’autenticità di autobiografie e romanzi dell’io che ne fa delle fiction. (Matsumoto 2014, 53-54)

Quello che ci dicono questi studiosi è che non importa quanto un testo, romanzo più o meno dichiarato fittizio, contenga in sé degli elementi poco associabili al concetto che abbiamo di ‘realistico’, quello che importa è come questi stessi testi riescono a modellare la realtà e

trasformarla in qualcosa che abbia un effetto sul nostro modo di vedere le cose. Ciò che abbiamo detto per Kentōshi, il cui richiamo alla realtà del post Fukushima è lampante, deve essere valido anche per tutti gli altri romanzi e racconti di Tawada, compreso Memorie di un’orsa polare. Lo stesso porsi delle domande da parte della prima protagonista del romanzo, che è un’orsa parlante e scrittrice di autobiografie, è qualcosa che indaga sulla nostra identità più profonda, sui limiti del dualismo tra l’‘io’ e l’altro, tra finzione e realtà, tra uomo e animale, e per questo è in qualche modo ‘reale’.

Il blocco dell’orsa è dovuto anche a un’angoscia riguardo al fatto di poter scrivere solo dei ricordi con la sua autobiografia, e non del futuro, che così rimane ignoto e non modificabile: «posso stare tranquilla per le cose passate, perché più o meno le ho raccolte nella mia autobiografia, ma per ciò che avverrà non ho certezze» (Tawada 2011, 87). Allora si accorge che, se comunque non esiste ricordo che sia interamente ‘veritiero’ e completamente sovrapponibile con la realtà, tanto vale lasciar perdere le cose passate e iniziare a scrivere invece sul futuro.

Mi venne in mente la parola ‘completa libertà’ e da lì pensai ‘ma certo! Anche io voglio manovrare il mio destino in completa libertà ed è per quello che ho voluto scrivere un’autobiografia. La mia bicicletta è la lingua. Devo scrivere del futuro, non del passato. Così la mia vita diventerà proprio come l’avrò scritta. (Ivi, 89-90)

Da questo punto in poi scrive della partenza per Toronto, in Canada, e il lettore non sa se effettivamente alla fine la protagonista vi si sia trasferita o meno. Ma il punto è che non è

importante saperlo. Non è importante che il suo sogno di andare in un paese più fresco rispetto alla Germania si sia avverato oppure no, perché soltanto il fatto di averne scritto a riguardo lo rende reale. Matsumoto sostiene ad esempio che: «Lo ‘scrivere’ va a coincidere con il vivere stesso e per di più sono proprio le cose scritte – cioè lo ‘scrivere’ in stile di diario futuristico – a creare la realtà e a muoverla» (2014, 54). In ogni caso il lettore ha la garanzia che ciò che è scritto in questa

55 biografia del futuro sia vero, almeno nella realtà letteraria, perché vengono presentati, tra l’altro, i figli e i nipoti dell’orsa, che saranno protagonisti rispettivamente della seconda e della terza parte del romanzo. Grazie allo scrivere sul futuro e non più sul passato, la matriarca acquisisce piena coscienza di sé e di ciò che sta scrivendo, che diviene in tutto e per tutto un prodotto che si sente suo (Tawada 2011, 93).

Nel secondo capitolo, sebbene le parti metaletterarie siano presenti in misura minore rispetto al primo, questa sorta di visione salvifica del testo letterario continua a farsi spazio. Qui Ursula, il cui nome nella versione italiana è Barbara, decide di scrivere la biografia di Tosca, l’orsa figlia della matriarca protagonista nel primo capitolo del romanzo. Nei confronti della partner di performance Barbara prova un forte sentimento affettivo e ogni volta che Tosca viene in qualche modo discriminata in quanto animale e in quanto analfabeta, si sente rammaricata con tutta se stessa:

Mi duole il petto se penso alle sofferenze di Tosca. Ah, quanto sono miserabili gli artisti! Qualunque sia la carriera che inseguono, non potranno che essere valutati per quello che sono oggi. Quelli che acquisiscono abbastanza fama potrebbero farsi scrivere una biografia una volta anziani e quelli che non possono farlo possono comunque risparmiare visto che sono esseri umani, e pubblicarne una a proprie spese. Però la via di sofferenze che un’orsa ha percorso in veste di donna verrà cancellata via con la sua morte. Tu sì che sei compassionevole, oh orsa! (Ivi, 140)

Essendo Tosca nient’altro che un animale, non può scrivere di se stessa in un’autobiografia e poi pubblicarla, e neppure farsene scrivere una da qualcun altro. Ma Barbara, che riesce a

comunicare con lei attraverso l’espediente del sogno, dove tutto è possibile, perfino che un animale parli la lingua degli uomini, può salvarla da questo dolore, che è poi il dolore della morte. Il ruolo della letteratura assurge qui addirittura a quello di fonte di salvezza in grado di sconfiggere la morte e la dimenticanza che essa si porterebbe dietro (Matsumoto 2014, 57). Perciò è vero quanto

sostengono Valtolina22 (2017) e Matsumoto (2014) su questo romanzo riguardo al suo essere

metaletteriario, ma è mataletterario non in quanto riferito alla letteratura come mera disciplina fine a se stessa, bensì in quanto romanzo che parla di letteratura come corpo e vita, perché la letteratura, almeno nella visione innovativa che Tawada ne dà, è inscindibile da tutto il resto, dal pensiero e

22 «L’elusività dell’Io nel romanzo appare ancora più radicale quando si confrontino tutte queste metamorfosi con la

riflessione sulla scrittura [...] la scrittura nomade attinge quel più vasto e indifferenziato ‘fuori’ di cui Knut nonché la madre e la nonna non hanno mai cessato di sentire il richiamo: la bianca soglia e il bianco foglio al di là della scrittura dove non c’è più Io» (Valtolina 2017, 185-186).

56 dalla vita. È una letteratura che tiene insieme la mente e il corpo, il pensiero e le viscere23, senza

porre queste facoltà in gerarchia tra loro, ma inglobandole e moltiplicandole in modo da farle comunicare in una cosa sola.