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Il conflitto che porta alla nascita

4. La parola come corpo nell’opera di Tawada Yōko

4.5 La parola e il pieno

4.5.1 Il conflitto che porta alla nascita

Come già affrontato, Tawada riesce con la sua letteratura a decostruire continuamente quel linguaggio che sembrava fino al momento prima una delle facoltà umane più naturali e spontanee, e a ricostruirlo, mostrandone l’artificialità. Reiko Tachibana affianca Tawada a scrittori come Hideo Levy e Mizumura Minea, denominando il loro tipo di letteratura ‘exofonica’, in quanto:

Il linguaggio scelto da scrittori simili è decostruito e ricostruito in esperimenti avventurosi che

abbracciano l’exofonia piuttosto che cercare di raggiungere l’eufonia, il flusso normalizzato e morbido, dato da toni armoniosi. In senso lato, scrivere letteratura exofonica implica ciò che Deleuze e Guattari descrivono come ‘essere uno straniero ma nella propria lingua, non solo quando si parla una lingua che non sia la propria42’ [...] (Tachibana 2007, 153)

42 Il passo contiene una citazione da A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizofrenia di Gilles Deleuze e Félix

80 La lingua che Tawada reinventa è tutt’altro che naturale e pacata, perché è una lingua che, esattamente come la letteratura, deve portare conflitto. Senza il conflitto (la ‘decostruzione’) non può nascere nulla di nuovo. «Quando Tawada scrive in giapponese esce dal giapponese e grazie a ciò crea una nuova lingua, quando scrive in tedesco esce dal tedesco e ne crea uno nuovo»

(Matsuda 2004, 67). E questo ‘uscire’ dalla lingua, per poi ricrearla, è un movimento di espansione e compressione che da solo può portare alla nascita e alla vita, che è poi lo scopo della creazione letteraria.

Ma il movimento al di fuori della lingua madre – bogo no soto – ci insegna che è sempre possibile, in una lingua straniera, in questo esilio linguistico, fare qualcosa. Questo è, dopotutto, il cuore stesso della poesia. [...] È per questo che la morte della lingua madre non libera dagli effetti del concetto, e non è in alcun modo il pianto vittorioso di un plurilinguismo che ha superato il monolinguismo come paradigma dominante. Piuttosto è la rinascita del linguaggio stesso, il rinnovo della promessa del linguaggio di fare qualcosa (etwas machen). E questo oltre i confini genealogici interni al dominio della lingua madre che hanno regolato le nostre lingue e i nostri pensieri fino ad oggi. (McQuade 2020, 115-116)

Lo scambio interlinguistico è visto in maniera positiva, non come un momento di

smarrimento, che pure è riconosciuto dalla stessa autrice e descritto più volte anche con sofferenza e lacerazione, che sono i punti di partenza per la ricerca di significato, nella traduzione così come nella letteratura. Perché nonostante l’incomunicabilità, nonostante l’eventualità del fraintendimento e della traduzione ‘sbagliata’, la letteratura ha ancora in sé tutta quella forza che deriva dal suo sogno di comunicazione. E ciò per Tawada è possibile attraverso la ricreazione e la riapertura di possibilità all’interno della traduzione: «l’atto di scrivere e di leggere sotto il segno della traduzione produce continue ri-traduzioni, ri-creazioni e ri-letture che mettono in primo piano lo stato della traduzione non come prodotto finito ma come possibilità che può condurre in qualsiasi direzione» (Arslan 2019, 342). Lungi dall’essere un’attività passiva, dove ogni segno è automaticamente estrapolato dalla lingua di partenza per essere trapiantato nel sistema linguistico d’arrivo in una forma diversa, ma deducibile dalla prima attraverso semplici meccanismi razionali, la traduzione acquisisce creatività, alla pari della stessa scrittura artistica. A proposito del discordo sulla

traduzione come trasformazione materiale, Hiltrud Arens sostiene che: «Nell’ottica di Tawada una traduzione non è soltanto una copia, ma, attraverso di essa, i significati che sono trasmessi

nell’originale ricevono nuovi corpi, non solo fatti di suoni differenti, ma anche fatti di differenti corpi di segni (e pensieri): un altro scritto» (Arens 2007, 60-61). Sarebbe quindi sbagliato presupporre che due testi, con lo stesso titolo e lo stesso autore ma tradotti in altre due lingue

81 diverse, possano trasmettere lo stesso significato all’audience verso cui sono diretti, ma la stessa cosa non vale solo per le traduzioni, vale anche per l’originale stesso, che letto da due persone diverse può trasmettere loro significati diversi. Nonostante possa sembrare una perdita di

significato, perché quello presunto pensato inizialmente dall’autore dell’opera non arriva in maniera ‘diretta’ al destinatario di un altro paese, se vogliamo ragionare come Tawada, dovremmo pensare a tutti quei possibili significati che idealmente possono nascere inaspettatamente dall’opera, anche a quelli che l’autore stesso non aveva in mente. Riprendendo il discorso fatto nel paragrafo

precedente sul tema della traduzione impossibile, ribadiamo ancora una volta quanto Tawada non neghi la probabilità che da un’opera tradotta venga fuori un romanzo totalmente diverso

dall’originale, anzi, piuttosto lo afferma con rigore. Ma questa ‘mal interpretazione’ del presunto significato univoco dell’opera non può che essere qualcosa di positivo per l’autrice. Riguardo alla relazione tra la lingua appartenente all’originale e quella della traduzione, sulla base degli scritti di Tawada, lo studioso Ōtsuka Tadashi afferma:

La concezione del mondo che deriva dalla struttura e dall’articolazione delle due lingue differisce l’una dall’altra, e quindi si pensa che sia improbabile uno scambio di valore precisissimo delle parole. Tuttavia, proprio perché all’interno di un campo magnetico che include anche una natura altra

asimmetrica e non equilibrata, in realtà c’è un’evoluzione emergente, ovvero la possibilità che possano nascere interpretazioni e idee innovative che contribuiscono allo sconfinamento culturale e linguistico. (2014, 3)

La vita della traduzione diventa la vita stessa dell’originale, che può avere un respiro ancora più ampio proprio grazie al lavoro del traduttore. Così come la pluralità delle interpretazioni che si possono dare a un romanzo o a una poesia non fa che arricchire il loro significato, anche la

traduzione, e a loro volta le interpretazioni che si ricavano da quella traduzione, che variano da persona a persona e da momento a momento, accrescono la vita dell’opera e la propagano in senso spaziale e temporale. «Una volta morto l’autore, i capolavori letterari richiedono inevitabilmente la presenza di un traduttore, maturano e crescono sostituendosi a vicenda e venendo continuamente reinterpretate all’interno di realtà linguistiche, culturali (o anche temporali) differenti» (Ivi, 8).

È così che la letteratura diventa qualcosa di vivo e che dà vita, perché non rilega il significato di una frase a una singola interpreazione, a una regola fissa in grado solo di lobotomizzare le menti e di asfissiare le idee inibendo ogni capacità critica. La teoria che Tawada porta avanti è importante proprio per il ruolo creativo dato alla traduzione, come interpretazione e invenzione, al pari della scrittura. Ciò che teneva saldamente in posizione subalterna le due versioni, una originale e una

82 tradotta, viene ora a mancare e viene dato potenzialmente uguale valore a entrambe queste versioni. «La traduzione non è semplicemente la brutta copia dell’originale, ma possiamo dire che sia

l’originale stesso che ogni volta viene ricostruito, mentre viene reinterpretato il divario culturale e linguistico delle due realtà da una prospettiva più attuale» (Ibidem). Quindi, non soltanto la traduzione amplia il respiro di un’opera in termini della sua concreta diffusione in altri paesi e in altre epoche, ma la rende anche più ‘universale’, a detta di Ōtsuka (Ibidem), donandole la vita anche in altre realtà, che l’originale magari non presupponeva. E attraverso questa nuova vita ricevuta, nasceranno idee che in quel preciso punto spazio-temporale non dovevano nascere. Insomma, se non ci fosse la traduzione, lo scambio di idee e la crescita in termini di ampliamento delle strutture interpretative della realtà sarebbero molto più limitati.