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Un’azione musicalmente incarnata

«I teorici della conoscenza come enazione parlano di “azione incarnata”, cioè di qualcosa che non è semplice rappresentazione né pura capacità di risolvere i problemi posti dall’ambiente per mezzo di rappresentazioni bensì presenza intera in un universo di senso che con-cresce con la conoscenza» (Minichiello, 1995, p. 161). È plausibile che una dinamica analoga si verifichi in musica, nell’esecuzione pianistica, e precisamente in quel particolare tipo di esecuzione che coincide con il momento dell’improvvisazione. Una chiave di lettura del processo improvvisativo è stata fornita, a un livello di concettualizzazione filosofica, da Vladimir Jankélévitch (Jankélévitch, 1998; Cogliani, 2009).

4.1 La fusionalità ritrovata

Posta tra il riflesso e la riflessione, l’improvvisazione è ciò che ci consente di affrontare il provvisorio, l’imprevisto, l’inedito, e di agire prontamente. In musica, il talento improvvisatore emerge normalmente nel primo incontro del compositore con il foglio bianco; in seguito, «il lavoro di creazione sembra procedere all’improvviso, in un modo esitante ed esploratore; il tema e le sue variazioni si disegnano secondo le suggestioni dei suoni e degli accordi» (Csepregi, 2001, p. 108). L’espressione di Jankélévitch per designare questo processo è «il bell’e fatto cede il posto al facentesi» (1955/1998, p. 121).

L’improvvisazione, in ambito occidentale, trova la sua sede d’elezione nella musica organistica per motivi originariamente liturgici; tuttavia, essa può praticarsi agevolmente su qualsiasi tipo di tastiera (il dipanarsi delle esperienze musicali a questo livello tra Sei e Settecento sul clavicembalo e tra Otto e Novecento sul pianoforte lo dimostra ampiamente) e in generale su qualunque strumento: il jazz, in particolare, mette l’improvvisazione al servizio di una grande costruzione di senso musicale. Nella sua opera sull’improvvisazione, Jankélévitch vuole evidenziare soprattutto come le qualità necessarie al pianista per improvvisare risiedano nell’adattamento istantaneo a “situazioni lampo”, e ad impressioni che “si fanno e si disfano senza riposo”.

La musica creata dalla “mano errante” sulla tastiera è il prodotto del contatto delle dita con i tasti, della trazione di alcuni muscoli, dell’esercizio delle terminazioni nervose, del funzionamento delle reti di neuroni. Eppure tutti questi processi motorî non bastano a spiegare il formarsi dell’evento sonoro, a cui concorrono le abitudini acquisite e stratificate nel tempo, le

reminiscenze digitali, i ricordi conservati dal corpo34. E non bastano neanche a spiegare come il corpo, la pelle, costituiscano un’estensione dell’Io che si protende verso la tastiera del pianoforte alla ricerca di un rapporto fusionale che è ri-creazione dell’originale bagno di suoni materno, pre-natale. Jankélévitch ricorda come le note e gli aggregati armonici siano dettati dalle conoscenze latenti o sedimentate della mano, una mano che conserva dentro di sé le direzioni, le distanze e le particolarità sonore e tattili del pianoforte, e per questo adopera il termine verve: «C’è verve quando le energie creatrici operano da sé e girano per così dire da sole senza potersi fermare, in modo che l’inventore diventi spettatore delle proprie invenzioni e perda tutto il primo controllo di questa crescita elementare» (Jankélévitch, 1955/1998, pp. 164-165).

Il problema è che il pianista è l’unico tra gli strumentisti a non essere in contatto con la sorgente sonora da cui sgorga la musica che egli esegue: un complesso meccanismo di avorio, ebano, legno, feltro, acciaio lo separa dalla fonte del suono. Come può superare, il pianista, questo muro? Solo, appunto, nel tentativo di creare un rapporto fusionale tra lui e il suo strumento: in questo rapporto, allora, i tasti, i martelletti e le corde sono a pieno titolo componenti emozionali dell’esecuzione, poiché, come i fonemi e le parole suggeriscono una qualità affettiva di un testo, anche i suoni, originariamente entità parcellizzate di per sé insignificanti, nell’organizzazione di senso conferitigli dal pianista attraverso il mezzo meccanico danno luogo ad un’alterità che è la musica stessa. «Una sorta di spiritualità letargica sonnecchia così nei segni del linguaggio; e allo stesso modo che le parole sono dei ricordi compressi e consumati nei fonemi, dei ricordi in scatola che si attivano quando li si pronunzia, così lo spirito addormentato nei suoni si risveglia per l’emozione e per la musica appena il suonare dello strumentista gli dà un’esistenza carnale» (Jankélévitch, 1955/1998, p. 125).

La musica «risveglia nel pianista, uno stato d’incantamento che attraverso una sorta d’induzione affettiva determina l’invenzione e la sperimentazione. Questa disposizione risvegliata può essere paragonata a una specie d’atmosfera onirica con la quale il pianista comunica in modo

34 Diversi filosofi contemporanei si sono assegnati il compito di analizzare e di descrivere il

rapporto tra la formazione delle abitudini e la creatività corporale. Anche Paul Ricoeur (1967, p. 273) ha analizzato il rapporto tra formazione delle abitudini e creatività a livello corporeo: «Tutte le monografie sulle acquisizioni delle abitudini segnalano questo rapporto curioso tra l’intenzione che lancia l’appello in un senso determinato e la risposta che proviene dal corpo e dall’intelligenza e ha sempre l’apparenza d’improvvisazione. Questo è ben noto ai pattinatori, ai pianisti e anche a quelli che si accingono a scrivere. L’abitudine non progredirebbe senza questa specie di germinazione, di creatività che essa nasconde.

immediato e nella quale trova la sua ispirazione» (Csepregi, 2001, p. 110). La “verve improvvisatrice” dell’esecutore trae origine dunque da un vero e proprio stato di grazia che trova la sua spiegazione nella capacità del corpo di essere coinvolto dalla peculiarità del contatto delle dita con i tasti e dalle configurazioni sonore prodotte da questo meccanismo tattile (Jankélévitch, 1955/1998, p. 161; 1961, p. 38). È precisamente in questo ineffabile stato di grazia che l’improvvisatore sperimenta, esplora, vaga tra le linee orizzontali dei suoni che si organizzano in sequenze melodiche, e i conglomerati verticali degli accordi che formano armonie; e ancora, tra i puri giochi logici degli artifici contrappuntistici e le infinite sfumature della dinamica. Non si tratta solamente di variare un tema dato, ma di tentare o sollecitare «una suggestione simbolica per provocarne le proprietà suggestive: egli cerca a tentoni diverse e successive direzioni prima di trovare quella che gli permetterà di avventurarsi il più lontano possibile e di conseguenza di attuare il più grande numero di potenzialità» (Jankélévitch, 1955/1998, p. 133).

«Quest’acrobazia compiuta dal corpo sui tasti bianchi e neri e che conduce ad uno straordinario pullulare di note, rende evidente la quintessenza stessa della musica, almeno quella di Liszt, Albeniz e altri compositori considerati “romantici”. Questa musica, “circonvoluzione senza fine”, esercita, tramite un effetto retroattivo, un’influenza benefica sul pianista: la generosità e la gratuita spontaneità delle melodie alimentano in lui la disposizione favorevole all’improvvisazione» (Csepre gi, 2001, p. 110).

4.2 L’approdo

L’ascolto genera dunque, a una lettura filosofica, uno stato di grazia, che si sviluppa in quella che appare una sorta di ‘costellazione triadica’ composta da esecutore, musica e strumento; ed è esattamente il ristretto campo d’indagine della riflessione di Jankélévitch sul pianismo: significativamente, il filosofo in questo è molto più vicino al pianista di quanto si potrebbe pensare. È infatti il grande didatta Heinrich Neuhaus, a parlare di questi tre elementi come componenti dell’esecuzione pianistica, risparmiando nella sua disamina ciò che “l’inserimento nel mondo” comporta rispetto a quanto viene eseguito, e specificando come egli abbia in mente un fare musica disinteressato e non un’esecuzione in pubblico (Neuhaus, 1985, pp. 14-15).

D’altronde, la medesima dinamica, ridispiegata nell’ambito più vasto di

ripercussioni anche nel più generale contesto delle scienze umane, Matte Blanco, viene ad instaurarsi, come si è già accennato, all’interno di una triade costituita questa volta da creatore, opera e fruitore. Matte Blanco concentra la sua attenzione di studioso dei processi emozionali sull’azione che le strutture da lui definite “bi-logiche” – nel nostro caso, la musica – esercitano sul fruitore.

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Riepilogando: ciò che si è voluto delineare in queste pagine è la possibilità di un apprendimento emozionalmente orientato attraverso una pedagogia costruttivistica e un conseguente intervento formativo fondato sull’ascolto musicale inteso come modello interpretativo della realtà – a cominciare dalla realtà interna a noi stessi. Le emozioni, in quest’ambito, non sono sovrapponibili ai sentimenti: come si è specificato all’inzio di questo lavoro, questi ultimi costituiscono un fenomenologia individuale del soggetto, mentre l’emozione è, in questa prospettiva, un fenomeno primordiale strettamente biologico (Damasio, 1999; Denton, 2005) che con linguaggio freudiano potremmo ridefinire come “via aurea” che conduce al

sentimento e, progressivamente, attraverso un’opera di selezione (Edelman,

1992), al riconoscimento di un mondo, alla risonanza con esso, alla finale

condivisione.

In definitiva, l’operazione che si è postulata in queste pagine implica il mettere da parte prevenzioni e pregiudizi che possono coglierci all’ascolto di una musica apparentemente così lontana da noi, ma che nasconde una pluralità di significati: ascolto che, attraverso il dare un senso ai sensi, ci conduce alla scoperta di quel mondo postoci innanzi: ciò che costituisce opera di disvelamento/enazione. Difficile, forse impossibile, ma proprio per questo da tentare, da vivere:

1) porre innanzi a noi un mondo;

2) selezionare: operare con la mente una selezione preliminare al

riconoscimento;

3) riconoscere: innestare quel mondo su ciò che si conosce;

IV. Cauda

- «D. (…) Mi pare che per prima cosa convenga chiarire cosa intenda tu per musica.

R. (…) Temo che mi sia impossibile risponderti. (…). Cercare di definire la musica è un po’ come cercare di definire la poesia: si tratta cioè di un’operazione felicemente impossibile, considerando la futilità di voler sancire ove sia il confine fra quello che è musica e quello che musica non è, fra la poesia e la non-poesia. Con la differenza, però, che nella poesia la distinzione, implicita, fra lingua e letteratura, fra lingua parlata e lingua scritta, rende più agevole la definizione di quel confine. Forse la musica è proprio questo: la ricerca di un confine che viene continuamente rimosso. Nei secoli scorsi, per esempio, il “confine” tonale delimitava territori precisi e profondi. Oggi i territori sono vastissimi, i confini quanto mai mobili e di natura diversa. Anzi, l’oggetto della ricerca musicale e della creazione, spesso, non è neppure la definizione di un confine percettivo, espressivo e concettuale ma, piuttosto, la rimozione di se stessa: cioè l’azione “avanguardistica” del rimuovere. E in questo caso, paradossalmente, diventa facile rispondere alla tua domanda: la musica è tutto quello che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica».

Luciano Berio, Intervista sulla musica, a cura di Rossana Dalmonte (1981).