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Quando l’ha detto mi ha fatto veramente arrabbiare, non ima-gino come è riuscito a dire questa cosa, lui era più grande di tutti secondo me. Quando siamo rientrati in campo per il secon-do tempo sono andato da lui a chiederlo: “perché hai detto che loro sono cani?” mi ha risposto è un modo di dire che loro non sono più forte di me per vincere questa partita. Volevo chiede-re un’altra domanda ma ero arrabiato, poi l’ho lasciato andachiede-re, non volevo creare un’altro scenario come quello di un mese fa quando un compagno della mia squadra mi ha detto: “Il pallone è bianco come me, devi giocare come me!”. Ma la mia domanda era: “non hai un altro modo di dire che loro sono deboli senza dire la parola CANE?”. Io so che lui non accetta che ha sbagliato, mai. Le persone più ignoranti sono solamente brave a difendere loro stesse. La partita è continuata, durante la partita guarda-vo questi ragazzi che correvano come noi, parlavano come noi, se facevamo fallo a loro urlavano del dolore come noi e chiedo come mai loro sono cani e noi no? ”

La partita è finita 5:1. I cani hanno vinto contro di noi. Come ho detto prima, di solito sono sempre triste a perdere una partita, ma quella no, non ero triste, alla fine della partita parlavo con due gambiani che parlavano di me e mi dicevano “ma parli bene la lingua pensiamo che sei nato qua!”. Dentro di me ho detto:

“No, non sono nato qui, sono cane come voi”. Ho risposto a loro che no, sono venuto con la barca dalla Libia due anni fa. Poi ab-biamo parlato del solito chat fra i profughi che parlano fra di loro per la prima volta: il permesso di soggiorno e come stiamo vi-vendo nel campo di accoglienza, come è il livello di razzismo a Follonica e Livorno.

La frase che mi è rimasta in testa di uno di loro era “Speriamo che se moriamo, Dio ci farà entrare in paradiso senza guardare il colo-re della pelle”. Ho provato a cambiacolo-re discorso perché non avevo voglia di parlare di razzismo, non si può cambiare nulla.

I ragazzi mi hanno detto come stanno vivendo con gli italiani a

Follonica ma non mi hanno detto che i bianchi sono cani. Ho let-to nei loro occhi quel dolore è più doloroso del dolore di perdere una partita di calcio, ma invece di chiamare i bianchi cani hanno pregato che Dio li farà entrare in paradiso, forse lì avrano la pace.

Se fino a oggi gioco a calcio vuol dire che non è che tutti i giorni qualcuno chiama gente di colore come me, cani. Ma ci sono tanti altri bei motivi. Bei motivi che mi fanno credere che siamo tutti umani, non siamo cani.

Tratto da: A. Triulzi, a cura di, Se il mare finisce. Racconti multimediali migranti, Terre di mezzo, Milano 2019 (Antologia dei racconti finalisti del concorso DiMMi, Diari Multimediali Migranti 2018).

Melanny nasce in Venezuela il 1° agosto 1981. Nel 2012 si trasfe-risce a Dublino per completare gli studi ed arriva In Italia per un breve periodo di vacanza nell’aprile del 2014, prima di partire per il Venezuela e tornare poi in Irlanda; nel maggio dello stesso anno le relazioni diplomatiche tra il Venezuela e l’Irlanda si inasprisco-no e l’Irlanda impone l’obbligo del visto ai cittadini venezuelani che vogliono rientrare nel Paese. Melanny si trova tra questi, ma ottenere i documenti è difficile e costoso e decide di rimanere in Italia, dove inizia la sua avventura tra diversi lavori in varie città, presa nei meccanismi delle leggi sull’emigrazione che le impedi-scono di muoversi liberamente. Presenta richiesta per ottenere l’asilo, che le viene rifiutato, poi nel dicembre 2015 - dopo un ri-corso – le viene concessa la protezione internazionale.

Le esperienze di Melanny sono molteplici, alcune positive, altre più difficili. Nel suo racconto, tra le persone che hanno maggior-mente compreso le difficoltà che stava affrontando, ricorda una ragazza italo-statunitense il cui nonno, un giornalista polacco, era fuggito dall’Europa ed aveva trovato asilo politico negli Stati Uniti. Melanny ha la capacità di istaurare relazioni con le persone, ma anche con i luoghi in cui vive e termina la propria narrazione dialogando con la città di Roma.

MELANNY J.

HERNANDEZ R.

“C

hiudete gli occhi. Ora andiamo a Fiumicino e pren-diamo un aereo per andare a un paese molto lontano, fuori dall’Europa. All’arrivare lì tutto ci piace. É prima-vera. C’è un bel sole e le giornate sono lunghe. Poi il cibo è delizio-so. La gente è molto amichevole e carina. Si sta da Dio...e ci fac-ciamo un sacco di selfies...e certo che le mettiamo su Facebook!

Stiamo così di bene che ci chiediamo come mai non siamo venuti prima? Ma oh-oh!! Pare che qualcosa è successo e non possia-mo tornare in Italia...Siapossia-mo lì, in quel paese lontano, senza soldi, senza famiglia, senza amici e senza documenti...E non sappiamo proprio cosa fare...Aprite gli occhi...Cosa avete provato?”

Paura, solitudine, tristezza, confusione, angoscia, tanta ansia.

Tutto quello che avete provato, l’ho provato anch’io. Questo il punto di partenza della mia storia, perché io – almeno consa-pevolmente – non ho scelto l’Italia. L’Italia ha scelto me. In Italia sono venuta come turista, anche io preferisco la parola ‘viaggia-trice’, nel 2014. Il 14 di aprile, arrivai all’aeroporto Guglielmo Mar-coni di Bologna su un volo di Ryair, proveniente di Dublino.

Il 20 maggio di 2014, più meno, l’incubo cominciava senza che io lo potessi intuire. Tramite FB, ho saputo che il governo irlandese aveva cambiato le regole per noi, cittadini venezuelani. Ora ave-vamo bisogno di un visto per entrare nella isola... Prima bastava arrivare col passaporto e prendere il visto là, in loco.

E io ero qua, nel mezzo di due mari, – quello che mi univa (o mi separava) dall’Irlanda; e quello che mi univa (o separava) dal Ve-nezuela – senza sapere cosa fare.

Ero comunque arrivata a un punto di non ritorno, la richiesta di asilo politico. Ora non avevo piú il mio passaporto (mi era stato tolto), se non un foglio con un timbro e la data per tornare a pren-dere il permesso di soggiorno provvisorio. Ufficialmente avevo già iniziato il vero (e insolito) viaggio: quello del richiedente di asi-lo politico in Italia. Da quell’agosto, ogni sei mesi dovevo andare in questura per rinnovare il documento. Ogni volta continuavo a