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tra basso medioevo ed età moderna: doti ed eredità (secoli XV-XVIII)

Nel documento nordest nuova serie, 111 (pagine 104-178)

Nella realtà di antico regime della penisola italiana, in particolare nelle grandi città della pianura padana e dell’area toscana, l’esercizio di una attività lavorativa liberava per un verso la donna dalla stringente soggezione alla figura maschile. In questo senso non deve stupire se un’ottica più economica che socio-politica di approccio al tema della dote ha permesso di individuare circuiti di beni al femminile, di cui le donne stesse erano protagoniste.

Gli studi condotti sulla società marciana, pur nella specificità del ca-so legato all’essere Venezia una metropoli, la cui ricchezza si è costruita sul commercio internazionale e retta da un patriziato formato da mer-canti o in una fase più tarda della sua storia, quella del ritiro dai mari, da proprietari fondiari con una cultura da mercanti hanno evidenziato forme di significativa autonomia delle donne, e non solo ai livelli alti della società.

Pur forse mancando analoghi puntelli archivistici, almeno fino ad oggi, non pare fuori luogo ritenere che anche la città di Verona, che – dopo l’esperienza della signoria scaligera e un breve intermezzo viscon-teo, a partire dal 1405 entra nell’orbita veneziana – abbia condiviso una medesima cultura sociale o meglio socio-economica anche nella sua de-clinazione al femminile. In particolare nel gioco ambiguo della dote, pur con riferimento a valori scarsamente paragonabili a quelli veneziani – le ricchezze delle famiglie marciane non trovano riscontro nella società veronese – la pratica sembra sottoscrivere una condivisione di atteggia-mento e di comportaatteggia-mento. Certo il diverso peso della ricchezza am-plifica nel caso veneziano le pratiche, ma sulla stessa linea si muovono anche i veronesi. Una volta entrati nella sfera veneziana, pur con alcune differenze, i comportamenti tendono ad omologarsi, anche forzatamen-te. Sembra forse costituire eccezione il fatto che, a differenza di quanto praticato a Venezia, laddove non ci fossero sufficienti beni “liberi”, in terraferma si poteva rompere il vincolo fedecommissario (che rendeva i beni inalienabili) al momento della costituzione di una dote, anche se tale opportunità non sembra essere stata chiaramente percorsa.

La dote era necessaria per sposarsi e quindi non solo negli strati me-dio-alti della società, ma anche negli strati più bassi era dovere del padre di famiglia o dei fratelli dotare la figlia o la sorella. Alla dote veniva asse-gnato il ruolo di difesa dell’onore della fanciulla. È per questo che anche i luoghi pii o le stesse corporazioni intervenivano a costruire le doti di quelle ragazze rimaste orfane o il cui padre poteva temporaneamente trovarsi in difficoltà. La società si faceva quindi carico nel suo insieme di trovare i mezzi per dotare le giovani e difenderne il buon nome.

L’assegnazione di una dote, dovere del padre di famiglia o dei fra-telli e come tale riconosciuto dalle stesse leggi anche nel caso della monacazione, tendeva ad escludere le donne dall’eredità famigliare (exclusio propter dotem). In questo senso gli statuti cittadini veronesi di età veneta avevano parole chiare e precise. Così nel libro 2 al capitolo LXXXII: «Quod prima caussa successionis parentum sit liberorum ma-sculorum per lineam masculinam descendentium pro conservatione agnationis... & bona parentum in filiis masculos, e caeteros per lineam masculinam descendentis conserventur, pro conservandis domibus, & oneribus communis Veronae sustinendis... sic modo dictae filie, neptes, & aliae descendentes personae dotatae fuerint ab aliquo ex parentibus antedictis, de quibus dotibus contentae sint...». L’accettazione della do-te escludeva quindi la donna dal diritto di pardo-tecipazione a eventuali e future eredità.

Va da sé che il padre poteva specificare nel suo testamento che in-tendeva lasciare determinati beni alla figlia. Inoltre questo non esclu-deva che, in assenza di eredi maschi, i beni potessero andare alle figlie, se non si trattava di beni sotto fedecommesso normalmente vincolati nella linea maschile. Prima che l’istituto del fedecommesso prendesse piede nello stato veneto, e quindi grosso modo nel secolo sedicesimo (anche se le indicazioni della sua diffusione sono più sicure ed estese per la capitale, e più labili per la terraferma, e in particolare per la città di Verona), non era raro trovare donne che ereditavano grandi patri-moni, anche beni immobili, proprio grazie alla mancanza di un erede maschio nella famiglia e quindi non mancavano donne nella società del tempo anche straordinariamente ricche.

D’altra parte per tutta l’età moderna non si registrano casi di passag-gi di beni cospicui nelle mani di donne, laddove queste erano appunto le sole eredi. In alcuni casi anche le madri condividevano questo dirit-to. Emblematico nel caso veronese l’esempio dei Pindemonte. Con atto testamentario del 1618, poi rinnovato nel 1622 Giovanni Pindemonte, erede dei beni del padre Francesco e destinato a morire poco più che ventenne, istituiva eredi la madre Aquilina Raimondi e le proprie so-relle Lavinia e Susanna, con la clausola che, se queste non avessero avuto discendenti maschi, i beni sarebbero passati ai nipoti maschi figli di Gianbattista Campagna che aveva impalmato la sorella Susanna. La morte per la peste di tutti questi familiari spinse poi Giovan Battista sulla soglia della morte a istituire eredi universali i figli maschi sotto vincolo fedecommissario, forse quale risposta alle incertezze causate dalla pandemia.

Per valutare comunque in tutta la sua complessità il principio dell’esclusione per dote, va tenuto presente che alle donne veniva as-segnata una parte dei beni in un determinato momento del ciclo della famiglia che si andava a costituire. I maschi ereditavano e diventavano autonomi economicamente di norma solo alla morte del padre, quindi per un verso in età sovente matura. Inoltre dal secolo sedicesimo – ma il fenomeno lo si coglie già a partire dal Trecento anche se il linguaggio non appare ancora codificato, come lo diventerà due secoli dopo – mol-ti beni ereditamol-ti erano soggetmol-ti al vincolo del fideicommissum e quindi gli eredi ne godevano solo il possesso e non la proprietà.

Proprio la crescente quota di beni immobilizzati è ipotizzabile ab-bia contribuito alla crescita del valore delle doti, che già a partire dal Trecento tende a muoversi verso l’alto in una corsa che prosegue senza arresto per tutta l’età moderna. Questo processo, studiato attentamen-te da Antony Molho per la realtà fiorentina, coinvolge anche la città di Verona, dove spigolature d’archivio ci permettono di registrare un aumento dei valori in sintonia con quanto avveniva nel resto della pe-nisola, anche se in media si tratta di cifre molto più modeste di quelle manovrate dai veneziani o dai fiorentini, data la minore ricchezza delle famiglie veronesi. Resta il dubbio che forse nelle logiche matrimoniali, comunque, i veronesi non volessero impegnarsi con somme di valore straordinario, ma piuttosto frequentassero con basso profilo il gioco della dote. Quanto le dinamiche economiche giocassero in queste scel-te è tutto da verificare. I dati per ora in nostro possesso – frammentari e con riferimento particolare all’élite – non permettono di capire se la scelta di contenere il valore delle doti derivi, quantomeno nella prima età moderna, dal ripiegamento verso l’investimento fondiario – e in questo andrebbe valutato il ruolo della pratica del fedecommesso – e/o dalla difficoltà di reperire quel capitale liquido o in generale quei “beni mobili” (contante, titoli di stato, uffici, gioielli, ma anche materie prime o attrezzature per attività artigianali) che rappresentavano la parte più sostanziosa di una dote, dal momento che i beni immobili di preferen-za non uscivano dalla linea maschile.

Nella città scaligera, come ovunque, la strategia matrimoniale era una delle vie più frequentate per stringere più forti rapporti parentali e inserirsi nel gruppo dirigente che nella seconda metà del Cinquecento informalmente tende a chiudersi. La dote quindi diventava in questa dimensione il “prezzo” non tanto della sposa quanto dello sposo. In par-ticolare all’interno dell’élite, le ambizioni della famiglia della sposa di imparentarsi con le famiglie di status più elevato e di maggiore

ricchez-za imponevano doti, di norma elevate, in sintonia con il ruolo occupato dalla famiglia con cui si voleva stringere più saldi e duraturi legami.

Medesime logiche animavano le scelte delle famiglie dei mercan-ti: le reti si rinsaldavano alla luce proprio dei contratti matrimoniali. La frequenza dell’endogamia, in seno al ceto mercantile, si spiega pro-prio con il gioco dei capitali apportati in dote che potevano permettere l’espansione dell’impresa e con la necessità di allargare i network sulla base di forti rapporti di fiducia come potevano essere quelli parentali.

La crescita del valore dei beni dati in dote andava di pari passo con la monacazione forzata delle figlie non destinate al matrimonio, alle quali si assegnavano doti di molto inferiori rispetto a quelle erogate alle nu-bende. Verona non costituiva eccezione nel panorama generale che ve-deva praticare dalle famiglie nobili la chiusura nei monasteri delle figlie femmine in soprannumero rispetto alle strategie patrimoniali. E questo – a Verona come altrove – si manifesta in termini visibili proprio nel corso del secolo sedicesimo, in concomitanza con l’aumento della consistenza delle doti. Alcuni membri della famiglia Verità, sia maschi come Michele (c. 1552-1592) sia femmine, con parole esplicite dichiarano nei loro testa-menti che alcune delle loro figlie dovevano rinunciare al matrimonio e prendere i voti, accontentandosi quindi di una dote di molto inferiore.

In particolare poi i veronesi non si peritavano, come denuncia il ret-tore Girolamo Corner nella sua relazione del 1612, di monacare le loro figlie nei monasteri mantovani, dove si richiedevano doti più contenu-te rispetto a quanto praticato a Verona. Nonostancontenu-te i divieti in merito, il duca di Mantova nella sua politica di coinvolgimento e assorbimento dell’élite scaligera, lo permetteva ai veronesi, i quali se ne servivano con frequenza poiché «il che era grato a veronesi, perché supplivano con cinquecento scudi dove in Verona a pena sarebbero bastati 2 mille et io molte volte dicevo a quei gentilhuomini che se la spesa era grande haverebbono potuto ricorrere a piedi di Vostra Serenità per la mode-ratione senza privarsi del loro sangue col mandar le figliole lontane et fuori della patria loro». In realtà fonti veronesi ci dicono che nel primo Seicento il costo per piazzare una figlia in un convento cittadino accet-tabile come poteva essere quello di San Giovanni in Beverara si aggi-rava intorno ai 1.000 ducati, registrando anche le doti per monache il medesimo processo di crescita che colpiva le doti per le nubende.

L’archivio della famiglia Verità e in particolare il Repertorio di Mi-chele Verità offrono elementi interessanti per comprendere le strategie inerenti dare dote e il processo di crescita degli ammontari nella città di Verona.

All’inizio del Quattrocento molte delle doti assegnate o ricevute da membri della famiglia si aggiravano tra i 200 e i 500 ducati, ma già tra gli anni Venti del secolo le doti erano salite con riferimento ai quat-tro più prestigiosi matrimoni a ducati 600 circa (così anche la dote di Franceschina Priuli, figlia del rettore, moglie di Bartolomeo del ramo di Santa Maria della Fratta). A partire dal primo Cinquecento le doti tendono tuttavia ad innalzarsi visibilmente e questo sembra essere in particolare il caso del matrimonio di un Verità con la figlia del mar-chese Malaspina, un’antica famiglia di origine feudale, giovane dotata con 2.300 ducati. Ma a metà secolo una dote rispettabile era già salita a ducati 3.000, costringendo talora il padre a vendere beni immobili – laddove fosse possibile – al fine di raggiungere tale somma. Michele Verità a sua volta dota le sue due figlie con circa ducati 6.000 nel 1573 e nel 1583, ma alla fine del secolo le doti erano cresciute in modo stra-ordinario: una Verità Poeta nel 1599 venne dotata con 8.350 ducati e quando Marco Verità si risposò dopo la morte di Vittoria Serego, la sua seconda moglie gli portò in dote ducati 10.000. Nel 1637 infine Veronica della Torre portò in dote al marito Gabriele Verità circa ducati 16.000, caso questo comunque eccezionale, in quanto mediamente nel Seicento le doti della famiglia si aggiravano tra i 6.000 e 8.000 ducati.

Somme così alte erano raggiunte con notevoli sforzi dalle famiglie, soprattutto perché si privilegiava nella dote la parte in beni mobili e spesso questa imponeva scelte non facili all’interno delle famiglie il cui patrimonio andava vieppiù congelandosi con il ricorso al fede-commesso. D’altra parte proprio per questo le famiglie auspicavano l’ingresso nel patrimonio familiare di quei beni mobili che avrebbe-ro vivificato le finanze e i bilanci delle famiglie, sempre drammatica-mente indebitate. In realtà fonti non quantitative ci dicono che non sempre la somma concordata veniva poi realmente data allo sposo e soprattutto sembra che i tempi di dilazione fossero molto lunghi, e proprio per questo a volte anche fonte di conflittualità. Basti come esempio, tra i tanti, il contratto nuziale del 1695 di Emilia Caliari con Bernardino Salerno, dove si specifica che solo una quota viene data al momento, mentre il restante verrà dato in futuro: proprio questo accordo sarà all’origine del conflitto tra la famiglia Caliari e quella del Salerno che sfocerà in un processo tormentato, i cui effetti ricadranno sugli stessi figli.

In un certo qual modo, proprio una dote costituita in gran parte da capitali liquidi o beni collocabili sul mercato era alla base delle stra-tegie matrimoniali del ceto dei mercanti o dei mercanti imprenditori

che, come anticipato, spesso stringevano legami endogamici al fine di rinsaldare le imprese con nuovi capitali vivificatori.

Gli esempi in questa direzione sono numerosi. Basti per tutti il ca-so degli Stoppa, famiglia di mercanti-imprenditori operanti nel settore tessile. Alvise, l’esponente di maggiore forza della famiglia nel corso del Quattrocento, persegue una chiara politica matrimoniale, volta a creare legami parentali con l’obiettivo di inserire la famiglia nella socie-tà mercantile veronese. Nel 1481 Alvise sposa con una dote di 1.100 du-cati d’oro la figlia Chiara di soli dieci anni con il mantovano Alessandro di Uberti, figlio del suo socio nel commercio della lana in Provenza. Nel giugno del 1494 il suo primogenito Gerolamo sposa Pantasilea sorella di Battista Fracastoro, il proprietario della bottega che Alvise gestisce in società con Leone de Chiovato. Pantasilea porta una dote di 500 du-cati, di per se stessa non rilevante, ma il legame risulta fondamentale per l’attività commerciale della famiglia.

A tutti i livelli della società, la dote nel suo ammontare definitivo veniva costruita anche con l’apporto dei beni stanziati a tale fine dalle stesse donne della famiglia paterna, ma talora anche di quella materna e questo potrebbe avere contribuito allo stesso processo di crescita dei valori delle doti. Numerosi dati archivistici confermano che anche a Verona le doti si rimpinguavano con lasciti a tale fine assegnati dalle donne della famiglia d’origine sia di quella acquisita e non solo quelle assegnate in vista di un matrimonio, ma anche quelle fornite alle donne che si monacavano. La dote stimata nel 1695 in 3.000 ducati di Emi-lia CaEmi-liari, sposa di Bernardino Salerno, la cui azione per recuperare i beni dotali una volta rimasta vedova verrà qui di seguito analizzata, proveniva in parte da lasciti o legati di donne della famiglia. Così nel 1558 Caterina Verità Poeta testando dichiara di volere aumentare la do-te della nipodo-te Lucrezia in un certo senso per adeguarsi ai nuovi canoni patrimoniali: ma che le figure femminili (zie, nonne, sorelle) contribuis-sero con i loro beni a dotare le giovani della famiglia era comunque un’abitudine consolidata nella società preindustriale. Come lo era la prassi di lasciare loro legati, talvolta anche beni immobili, con atto te-stamentario. Se la dote escludeva per principio le donne dall’eredità, ciò non impediva che potessero ereditare beni, anche immobili, attra-verso donazioni o legati, in taluni casi sostanziosi: questi beni nello stato veneto erano di spettanza delle stesse donne che ne avevano la proprietà e li potevano gestire in piena autonomia.

La dote era un bene che il marito doveva bene gestire e ammini-strare. Se non lo faceva, mettendo a repentaglio i beni che avevano la

funzione di salvaguardare l’onore stesso della donna, la moglie poteva chiedere “carta conservatoria”, vale a dire i beni venivano congelati e sottratti alla gestione del marito, ricorrendo in prima persona alle ma-gistrature specifiche.

I beni dotali a giusta ragione venivano registrati come debiti nei diari o nelle memorie del marito: proprio per questo lo sposo aveva il dovere di assicurarli sui suoi propri beni o quelli della sua famiglia. Nel caso la moglie rimanesse vedova e volesse condurre una sua vita indipendente, fuori dalla casa del marito (per risposarsi o monacarsi o altro), su istanza della stessa, i beni tornavano alla vedova. A quel pun-to ne aveva la piena proprietà in modo formalmente aupun-tonomo, sen-za cioè sottostare alle pressioni dei membri maschili della famiglia ed era libera di devolverli con atto testamentario a chi voleva. Su questo aspetto il diritto veneto era attento e sensibile alle istanze delle donne, e pur se i tempi della restituzione dovevano essere lunghi, le richieste delle vedove venivano di norma evase. Così recitavano gli statuti ve-ronesi (libro 3, cap. XXV): «Si vero maritus predecesseris mulierum, liberis communibus similiter non extantibus, quod mulier integram dotem percipiat, & nil ultra dotem heredis mariti restituire teneatur, exceptis anuli cum quibus dicta mulier fuerit guadiata, si extabunt, si non extabunt eorum valorem, pactis aliquibus in contrarium factis non obstantibus...».

Ecco che allora i beni dotali della vedova e i legati o donazioni che le venivano intestati andavano a costituire un circuito di beni femminili, che andrebbe comunque ancora oggi meglio indagato e di cui soprat-tutto per la realtà veronese si sa ben poco. In ogni caso non vi è dubbio che proprio il processo di crescita dell’ammontare dei beni dotali or ora delineato poteva mettere nelle mani delle donne patrimoni anche cospicui.

Meno nebulosa appare l’idea che, come osservato, anche a Verona le doti si rimpinguavano con lasciti a tale fine assegnati dalle donne della famiglia paterna o materna e non solo quelle assegnate in vista di un matrimonio, ma anche quelle fornite alle donne che si monacavano. Quale fosse il rapporto tra i beni derivanti da lasciti di donne e i beni assegnati dal padre (o in sua mancanza da chi ne faceva le veci) è molto difficile tuttavia a questo punto della ricerca quantificarlo. Per ora basti dire che era consuetudine per le donne della famiglia contribuire alla dote di una giovane e questo sia nella capitale sia nelle città suddite.

In questo senso vale la pena ricordare che la società veneziana (e a ricaduta quella veneta) era particolarmente aperta, rispetto al quadro

europeo, alle libertà delle donne in chiave economica, ma non solo. Si trattava, in ogni caso, di una società anaffettiva e gerarchica, basata su un principio di equità e non di eguaglianza ed è in questo quadro che devono essere lette anche le dinamiche matrimoniali. Se le donne in questo gioco sembrano pedine, non dimentichiamolo che lo erano an-che gli uomini. La politica del matrimonio limitato, fortemente seguita a Venezia, ma probabilmente anche a Verona dalle famiglie dell’élite in una misura però ancora da quantificare, se imponeva monacazioni forzate, nello stesso tempo tendeva a limitare i matrimoni degli stessi figli maschi con l’obiettivo specifico di non frantumare nei passaggi ereditari il patrimonio della famiglia, di fronte a pratiche che stabili-vano come tutti i figli maschi ereditassero in parti eguali. Solo uno dei figli maschi poteva (doveva?) sposarsi in modo legittimo, rispettando quindi determinate regole molto limitative al fine di procreare così pa-trizi eredi legittimi sia del titolo sia della sostanza della famiglia.

Nel documento nordest nuova serie, 111 (pagine 104-178)

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