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occasioni di committenza

Nel documento nordest nuova serie, 111 (pagine 178-200)

l’impresa artistica gode di una altrettanto evidente visibilità perché si trova nell’aula – quindi a più diretto contatto con i fedeli – e in posi-zione rilevante, all’imbocco della cappella maggiore e al di sopra della porta (alla quale il complesso ligneo è enfaticamente agganciato) che dal convento immette alla chiesa. Lo stemma della casata che dona ai francescani lo strumento dell’organo è presente per ben due volte: dap-prima apposto in bella evidenza sulla porta stessa, retta da putti scol-piti e collocati al di sotto dell’apparato a nido di rondine che regge la soprastante cassa, e quindi sulla cantoria.

Rossi, personaggio del quale sappiamo davvero ben poco, dota qual-che anno più tardi la stessa chiesa del pulpito in pietra sul quale cam-peggiano le iniziali del nome e del cognome dell’offerente e due piccoli stemmi sulle mensole che reggono un tettuccio. Il fatto è in qualche modo noto agli studiosi di storia dell’arte veronese, ma se si considera che, come Rossi precisa nel testamento del 1515, in faccia all’organo e situato alla parete opposta rispetto al presbiterio avrebbe dovuto tro-varsi anche il suo monumento funebre, è chiaro che il ruolo e l’esigenza di visibilità di questo abitante della Verona rinascimentale ha ben pochi confronti in ambito locale. Del monumento funebre oggi non possiamo dire più nulla essendo andato perduto (se davvero è stato realizzato) in breve tempo poiché dal 1528 ha luogo qui l’innalzamento della celeber-rima cappella Pellegrini realizzata su progetto di Michele Sanmicheli. Di certo l’iniziativa di innalzare organo e pulpito viene restituita al re-sponsabile da uno stemma o da iniziali nominali secondo una prassi, come è ovvio, ben consolidata da tempo anche a Verona. Meno scontato nella città scaligera, a quest’altezza cronologica, è il fatto di “firmare” l’impegno di una committenza apponendo le effigi dei donatori, marito e moglie nel caso dei Rossi. I ritratti di Gasparo e della prima delle due mogli, la cui identità non ci è nota (tavv. 3-4), si trovano in opposizione – cioè rivolti l’uno verso l’altra – alla sommità della cassa, all’interno dei capitelli che sormontano le lesene laterali intagliate e poste dietro le portelle, riconoscibili anche ad ante chiuse le quali, in corrispondenza delle due effigi, sono sagomate per renderle in ogni momento visibili. In tal caso i due coniugi stanno al di sopra delle immagini di san Fran-cesco e di san Bernardino rispettivamente fondatore dell’ordine e titola-re del convento veronese e ne condividono esplicitamente la visibilità.

Nuovo nel campo delle arti figurative locali (o almeno non noto pri-ma di questa circostanza) il fatto di esporre al pubblico il ritratto di due coniugi è, forse, nel contempo avvenuto nel campo della scultura di portali, che immettono all’interno dei palazzi cittadini, rendendoli

im-mediatamente riconoscibili, i titolari della casata proprietaria. A Verona a tutt’oggi tale situazione è evidente nel caso non precisamente data-bile di palazzo Confalonieri in via Quattro Spade dove nei pennacchi stanno profili maschili e femminili in opposizione. Questi esempi coevi all’organo di San Bernardino sono forse in anticipo su quanto avviene presso la Loggia del Consiglio veronese dove alla fine degli anni Ottan-ta del XV secolo sono collocati medaglioni scolpiti con ritratti di Cesari. Analogamente, si può supporre per estensione, a palazzo Confalonie-ri i costruttoConfalonie-ri associano le immagini poste sul portale (se queste non fossero state sostituite in momenti più tardi) agli exempla offerti dagli imperatori romani e dalle loro consorti: valga per tutti il caso di Ano-nino Pio e Faustina Maggiore ben noti in età rinascimentale attraverso esemplari di arte glittica e di monetazione. Varrà la pena di osservare che sui pennacchi del portale si può individuare la volontà di ritrarre le fattezze di Baldassarre Confalonieri e della moglie Libera tramite una rara decisione di perpetuare, attraverso l’uso delle immagini, l’unione matrimoniale degli abitanti della casa.

In sostanza, alla fine del XV secolo alcuni esempi, rilevabili in diffe-renti generi artistici, dimostrano che è possibile esibire anche con gran-de evigran-denza (persino accanto alle immagini di santi) i volti di privati cittadini, nei casi considerati quelli di coppie coniugali.

Comparsa e diffusione di modelli

Questa specifica attitudine deve essere stata più estesa di quanto oggi possiamo dire e deve aver riguardato espressamente anche le pale d’altare, ma a noi non è dato sapere in qual misura prima del 1484, an-no della realizzazione della pala Avogaro-Dal Bovo di Francesco Bon-signori. La precoce rappresentazione di una coppia di coniugi còlti in preghiera ai lati di una Madonna dell’Umiltà, dovuta al pittore Lorenzo Veneziano e databile agli anni Sessanta del Trecento, è costituita dal ri-tratto in Santa Anastasia di due devoti scaligeri (Cangrande II ed Elisa-betta di Baviera), ma da qui al tardo Quattrocento non si assiste ad altre illustrazioni di questo tipo, forse perché, oltrepassata l’età signorile e concluso nel 1387 il ruolo della città quale capitale, tarda a svilupparsi il fenomeno del ritratto nobiliare e patrizio anche dopo i vistosi exploit delle tombe Serego e Malaspina e del ritratto di Andrea Pellegrini nella cappella in Santa Anastasia realizzati all’inizio della dominazione ve-neziana, durante il terzo decennio del Quattrocento.

La pala Avogaro-Dal Bovo (oggi al Museo di Castelvecchio) ha nu-merosi primati: è probabilmente la più antica pala d’altare familiare ele-vata a Verona nel Rinascimento, almeno stando alle odierne conoscenze e costituisce la prima opera su tela conosciuta prodotta dall’ambiente pittorico veronese. Per quanto ci riguarda, il più rilevante primato sta però nel rappresentare (in anticipo sui ritratti delle coppie note di coniu-gi nelle pale) la figura di una vedova, quindi di una donna diretta com-mittente di un’opera d’arte. Il grande dipinto proviene dalla principa-le chiesa francescana di Verona, quella di San Fermo Maggiore, luogo, come tutti gli altri ambiti conventuali o monastici, dove dalla seconda metà del secolo i maggiorenti veronesi ambiscono esibire il loro risalto sociale attraverso i nuovi modi offerti dalle imprese artistiche. L’anzia-na Altobella Avogaro, vedova di DoL’anzia-nato Dal Bovo e qui ritratta all’età di oltre settant’anni (tav. 6), viene descritta con una crudezza (distante dai volti più stereotipati della Vergine e dei santi) che prelude, come è stato notato, ai ritratti mantovani di Bonsignori realizzati durante il trasferi-mento (forse favorito anche da questa abilità di ritrattista) alla corte dei Gonzaga. Andrà notato che il dislivello descrittivo esistente tra la sacra conversazione e la donatrice è anche giustificato dalla posizione della donna visibile dalle spalle in su ed emergente da un ritaglio dello spazio del dipinto, avanti l’ambiente dove stanno tutte le altre figure presenti sulla tela. È il più remoto esempio presente in città di quella attitudine, prevalentemente veronese ma non solo, di collocare in basso nella pa-la le figure dei committenti: in abisso secondo quanto illustrava André Chastel in un saggio del 1977 (tradotto nel 1988 in lingua italiana). Se il precedente immediatamente identificabile, secondo lo studioso fran-cese, è una nota pala (il Salvator mundi) di Liberale da Verona presente nel duomo di Viterbo (dove compare nella stessa posizione sprofondata il vescovo viterbese Pietro Gennari, committente dell’opera), andrebbe certo ricercato un presupposto comunemente accolto dai pittori locali. Tanto più rilevante quindi se la circostanza, in merito alla pala Avogaro-Dal Bovo, illustra una figura femminile di donatrice che, senza dubbio per la prima volta a Verona, accanto a quella di fedele in preghiera assu-me il ruolo di rappresentante della propria famiglia: su questo aspetto avremo modo di tornare più avanti.

Ancora nel complesso conventuale di San Bernardino si trova la più celebre raffigurazione di una coppia di coniugi nella pittura veronese del Rinascimento. Si tratta dei ben noti affreschi della libreria Sagramo-so, così chiamata dal nome del finanziatore dell’impresa (anche quella architettonica), di discussa attribuzione sebbene tradizionalmente

asse-gnati a Domenico Morone ed al figlio Francesco. Sulla parete di fondo, in uno spazio assolutamente comune appena regolato in tre campi dalla disposizione di colonne dipinte, stanno santi e sante francescane, i due committenti e la Vergine con Bambino. Tutte le figure si trovano sul me-desimo piano e i donatori sono ritratti genuflessi in preghiera e visti di profilo in opposizione ma più prossimi alla figura della Vergine rispetto ai santi che stanno tutti alle loro spalle, forse memori delle presentazioni alla Madonna di cavalieri trecenteschi (si pensi, per Verona, al celeberri-mo affresco di Altichiero nella cappella Cavalli) ma qui non occorre certo il gesto di un santo per accostare i due coniugi alla Vergine. Tutto l’appa-rato pittorico che interessa il vasto ambiente della biblioteca del conven-to ritrae papi, francescani e francescane, fondaconven-tori, martiri dell’ordine e i due committenti in bella vista nella parete principale. Si tratta di una ostentazione senza dubbio eclatante tanto più se si pensa che ci si trova nel chiuso di un convento e non nello spazio di una chiesa costantemente frequentato da fedeli. Senza dubbio l’impegno sostenuto da un privato per completare l’innalzamento di una chiesa, per finanziare la costruzio-ne della facciata o quella della sacrestia (e non solo quella della cappella famigliare) ha un evidente riscontro nel caso della biblioteca di San Ber-nardino. Ma la raffigurazione dei committenti, Lionello Sagramoso e la moglie Anna Tramarino (tavv. 7-8) è un fatto eccezionale. La datazione dell’affresco al 1503 segnala che in questo caso la donna, ritratta in abito da terziaria, è vedova da tempo (il marito muore infatti entro il mese di marzo del 1496), anche se il ritratto di Lionello pare tutt’altro che l’imma-gine di un defunto. Se, come è intuibile, l’opera complessa di decorazio-ne dell’ambiente rettangolare della biblioteca spetta almeno in parte alla responsabilità di Anna Tramarino, essa dunque decide di essere ritratta assieme al coniuge perpetuando la preghiera alla Vergine dei due: nei fatti, agli occhi dei frati e anche a quelli di altri lettori contemporanei se è vero che la biblioteca era rivolta anche ad una fruibilità parzialmente pubblica, non limitata ai francescani di San Bernardino.

Novità e arcaismi nella rappresentazione di donatori e donatrici nella pala d’altare

Per continuare, limitandoci per ora a farne una rassegna, ad illustra-re i casi di donne ritratte nel primo Rinascimento veronese, si arriva ai due casi offerti dall’opera di Girolamo Dai Libri in altrettanti momenti della sua carriera.

Al passaggio tra Quattro e Cinquecento va riferita la collocazione della pala Centrego (tav. 10) nella strepitosa macchina architettonica data dall’altare famigliare posto a conclusione del transetto destro di Santa Anastasia. Anche qui siamo in ambito conventuale, il principale per la storia civica veronese perché la grande chiesa domenicana di-viene, da subito cioè dall’inizio del Trecento, e per almeno i tre secoli a venire, la chiesa “civica” di Verona, per la quale il ruolo del Comune (espresso attraverso finanziamenti, concessioni fiscali ai frati, scelta dei fabbricieri nel corso del XV e XVI secolo) e dei suoi rappresentanti è di prima importanza.

La costruzione spaziale della pala di Girolamo Dai Libri è la prima che (dopo il caso della pala di San Zeno e quella di San Bernardino) stabilisca un diretto rapporto con la conformazione della cornice della quale sembra, il dipinto, costituire la continuazione illusoria oltre la superficie della tavola. I due committenti, Cosimo Centrego e Orsolina Cipolla, sono posti al di sotto del trono della Vergine e in primo pia-no, al di qua dei riquadri di una ripida pavimentazione che li separa dalla sacra rappresentazione schiacciandoli quasi verso la cornice del dipinto e non, come era avvenuto per la pala Avogaro, riservando alle figure uno spazio autonomo dove sostare. La conformazione prospet-tica della pala e il suo rapporto con l’ancona lapidea comporta tuttavia una nuova disposizione dei due ritratti, sistemati in uno spazio reale e coerentemente rivolti di tre quarti verso il centro, con le mani giunte e gli sguardi convergenti verso il trono della Vergine, gli stessi volti tesi verso l’alto.

Ad oltre vent’anni di distanza Dai Libri replica questa impostazione nella pala Baughi nella chiesa di San Paolo. Qui il pittore ritaglia uno spazio da dove fare emergere i donatori di fronte al trono della Vergine rispetto al quale i due sono posti in modo ravvicinato, tanto da trovarsi di fronte al simbolo del Male vinto da Maria, il cadavere del drago po-sto al di sotto del trono medesimo (tav. 9).

Anomala rispetto alle altre pale d’altare considerate è l’ancona Mini-scalchi, opera della maturità di Liberale da Verona conservata al Museo di Castelvecchio (tav. 12). La forma è quella, arcaica per i primi anni Venti del XVI secolo, di un trittico: la tavola centrale rappresenta il Sacri-ficio di Isacco, ai lati, con misure molto ridotte, si trovano le parti che ri-traggono i donatori. Assai più evoluto è il modo di ritrarre in piedi i due personaggi: verosimilmente sorella (alla quale spetta eccezionalmente il lato d’onore che probabilmente la qualifica come principale commit-tente) e fratello appartenenti alla famiglia della quale compaiono per

due volte gli stemmi sulle cornici. Le due figure sono del tutto slegate dalla scena centrale: rispetto alle scelte operate nei dipinti finora presi in conto, l’opera rappresenta un ben diverso modo di strutturare una pala d’altare con donatori e sembra in qualche modo porsi al di fuori delle consuetudini coeve di Verona. Non sarà un caso se al momento non è possibile identificare una provenienza cittadina, ma solo una presenza dell’opera in una chiesa periferica della pianura (San Zeno in Mozzo, dove i Miniscalchi avevano beni terrieri) senza che si possa dire se pri-ma il dipinto fosse stato destinato a una chiesa della città. Più simili nelle intenzioni ai medaglioni dei portali, oppure ai ritratti coniugali sulla cassa dell’organo di San Bernardino, le due figure, al pari di im-magini araldiche, si limitano a dichiarare il ruolo di committenti, sen-za entrare nella composizione. I due Miniscalchi ritratti sono le uniche figure di cittadini veronesi visti in posizione eretta nella pittura locale avanti le opere della metà del XVI secolo e costituiscono un’eccezione in un ambiente dove in ogni caso è ben poco diffuso il genere del ritratto privato. Il fatto (apparentemente inspiegabile in una città dove le élites, e anche precocemente, tendono a manifestare il loro ruolo attraverso la ristrutturazione delle facciate dei palazzi aviti o la dotazione di nuove cappelle) pare invece dimostrare quanto, ben più che alla sfera privata, venga affidato proprio all’ambito delle scelte sepolcrali e devozionali (e alle relative manifestazioni artistiche) il compito di perpetuare l’im-magine dei committenti agli occhi di tutti gli abitanti della città in una dimensione, quindi, sostanzialmente pubblica.

In questo quadro di base, il modo di rappresentare la committenza oscilla, come è ovvio, tra soluzioni figurativamente più evolute e scelte di retroguardia: tra la specificità di uno spazio riservato ai donatori (sebbene sistemati sul fondo del dipinto) alla loro posizione in preghie-ra ai lati della vergine.

Accanto ai casi di Girolamo Dai Libri e vicine in quanto a cronologia si pongono due pale di autore incerto. La prima, databile ai primi anni del Cinquecento e raffigurante la Vergine, i Santi Giacomo e Filippo e due coniugi committenti, è un’opera oggi del tutto periferizzata, essen-do conservata nella lontana chiesa parrocchiale di Beccacivetta di Co-riano nella pianura sud-orientale veronese (tav. 13). Il piccolo edificio ecclesiastico mostra in facciata gli stipiti di un portale scolpito databile al passaggio tra Quattro e Cinquecento assai colto per una zona rurale, qui montato nel 1795 come chiarisce l’architrave superiore: è possibile quindi che in tale data sia stata portata qui anche la bella pala che la letteratura locale colloca in origine nella chiesa di San Paolo in

Campo-marzo assegnandone la paternità al poco noto Pietro di Leonardo Cico-gna. Viene così a perdersi il risalto che l’opera poteva avere tra i dipinti d’altare che mettono in grande evidenza i finanziatori di un’opera. I due coniugi sono visti per intero, in ginocchio ai lati dei gradini che sostengono il trono di Maria, lontani dai modelli in voga in questi anni e più vicini all’esempio della libreria Sagramoso. Purtroppo la caduta della pellicola pittorica ha interessato parte della tavola e ha danneg-giato il volto della donna della quale non possiamo più riconoscere i tratti e non sembra comunque semplice identificare i due committenti per la mancanza di indicazioni araldiche.

La seconda pala (del tutto dimenticata dagli studi, di autore scono-sciuto e conservata nei depositi dei Musei Civici di Verona) illustrereb-be (secondo quanto indica la scarna e datata letteratura sull’argomen-to) i coniugi Borghetti (Antonio con la moglie Elena Guarienti, ma pare più probabile che si tratti di Guglielmo di Marco Guarienti – vedovo già nel 1514 – e della moglie Isotta Borghetti) inginocchiati davanti al trono della Vergine, a sua volta circondata da santi (tav. 11). La pala proviene dal piccolo oratorio di San Pietro Martire a Sorio (località nei pressi di San Giovanni Lupatoto) posto in prossimità dell’Adige a me-ridione di Verona.

L’esempio più avanzato cronologicamente tra quelli che stiamo esa-minando è rappresentato dalla pala Da Sacco realizzata per la vasta cap-pella intitolata a San Francesco che i Terziari avevano fatto innalzare a San Bernardino e oggi conservata al Museo di Castelvecchio (tav. 14). L’autore è Paolo Morando detto il Cavazzola che lascia incompiuta l’ope-ra nel 1522 per la morte dell’artista che aveva l’ope-raggiunto solo i 36 anni di età. È anche la più imponente, per dimensione, tra le opere che abbiamo considerato misurando quasi 4,5 metri d’altezza. Il fatto rilevante è che nel dipinto sono raffigurate ben due figure femminili identificabili: la prima è quella della donatrice posta in abisso al centro della pala; la se-conda è quella della donna che, nel quadro, veste i panni di Elisabetta d’Ungheria ed è collocata accanto alle altre figure centrali nella scena pittorica. La presenza di volti di donne veronesi nella pala di Cavazzola era stata già segnalata (pur fornendo identità errate) da Giorgio Vasa-ri nel 1568, avendo lo stoVasa-rico aretino raccolto le informazioni relative all’opera dal domenicano veronese fra Marco de’ Medici. Peraltro è stato poi osservato che sarebbero anche identificabili nelle figure di santi altri personaggi veronesi, tra i quali varrà la pena di ricordare almeno fra Bonaventura Auricalco, guardiano del convento e guida spirituale dei Terziari. Le due donne sono infatti ritratte (e scontatamente per santa

Elisabetta) negli abiti del Terz’ordine francescano, dove entrambe sono entrate una volta rimaste vedove. La committente (che in un testamento impone la decorazione dell’altare) è Bartolomea Baialotti, anziana ve-dova di Guglielmo Da Sacco; la donna rappresentata accanto ai santi è Elisabetta Verità, rimasta vedova prematuramente di Daniele Da Sacco figlio di Bartolomea e quindi nuora della donatrice. Nell’opera è quindi evidente sia l’attaccamento alle forme di rappresentazione del donatore che era radicato nella cultura figurativa veronese, che una espressione nuova che tende a impersonare i santi con le fattezze di figure reali, atti-tudine che Cavazzola aveva seguito anche in altri dipinti.

Abbracciare la Regola dopo la perdita del coniuge era un comporta-mento sovente seguito, a Verona come altrove, dalle donne del Rinasci-mento. Le situazioni che abbiamo considerato mostrano a proposito di San Bernardino tre esempi di vedove diventate terziarie (Anna Tramari-no da una parte, Bartolomea Baialotti ed Elisabetta Verità dall’altra) e ci dà una prova di questa tendenza, mentre Altobella Avogaro, vedova a sua volta, non veste alcun abito monacale nella pala che la ritrae. Tuttavia rispetto a rari dipinti che rappresentano i donatori (in particolare cano-nici della Cattedrale) oppure rispetto ad un’opera di Giovan Francesco

Nel documento nordest nuova serie, 111 (pagine 178-200)

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