La mia Piana dal muretto la vedevo tutta, sino alla svolta dello Sferi-sterio. Nella via popolosa era palpabile il fervore delle diverse attività.
Che differenza con la via odierna: pochi negozi, diverse case disabitate e appena una sessantina di pianaroli!8
Passata la paura della guerra, anche se c’erano mille difficoltà, in ogni casa c’erano il proposito e la voglia di risollevarsi e guardare avan-ti.
Gli uomini erano affaccendati, correvano dove c’era bisogno; alcu-ni erano costretti a inventarsi ogalcu-ni tipo di lavoro, anche quelli un po’
rischiosi e in paese si parlava, talora fantasticando, di colpi di mano, compiuti nella zona grigia del passaggio del fronte, che hanno cambia-to le fortune di diverse famiglie.
Non facevo caso a queste storie, m’interessavano di più le donne del-la Piana, alcune sui vent’anni, altre sui trenta, già sposate o in procinto di farlo.
Se eravamo sfaccendati lungo la via o al mare, con gli amici si ragio-nava sulle donne della via classificandole secondo un giudizio che, de-vo riconoscere, era personalissimo e mutava ogni giorno.
Era sufficiente una gonna attillata più del solito o un abito da sera ben portato al veglione, una capigliatura diversa, uno sguardo un po’
malandrino, un costume da bagno, anche se rigorosamente pezzo unico, che evidenziava un portamento e una postura stuzzicanti, per promuo-vere ad amante desiderata quella donna che il giorno precedente non ci era sembrata un granché.
Chi era la più bella del reame? Così iniziavano le favole che mi rac-contavano quand’ero piccolo. Già, chi era la più bella della Piana? Ora non si trattava più di una favola, ma di donne vere che vedevamo ogni giorno lungo la via, d’estate al mare da Nani, d’inverno ai veglioni di
8 Secondo l’ufficio anagrafe del comune, al 30 giugno 2011, erano 88 i residenti nella Piana
Carnevale.
Diceva Andrea, l’artista: «Quella ha un bel viso»; gli faceva eco Di-no, il perfezionista: «Con quel costume nero quell’altra è perfetta»; si faceva sentire Matteo, il volgarotto: «Il culo della mia vicina di casa è fatto ad arte»; si scaldava Marco, che per vedere chiaro si puliva gli oc-chiali: «La vedi la mora! Ch’eleganza!»; Peppe, che non sbagliava mai, pontificava: «Quella tipa? Si dà delle arie, troppe per i miei gusti».
Leo invece veniva al sodo e sognava la lattarola: « Che donna! L’hai vista? Sarà dura da rodere».
I veglioni che passione! Il cinema-teatro di Frattini ne ospitava tre o quattro con cantanti e orchestre di primo piano. Per i giovani, maschi e femmine, erano appuntamenti da non perdere, anzi l’occasione atte-sa e buona per entrare in società, fare nuove amicizie e magari trovare l’amore.
Le giovani donne erano infervorate per via dell’abito da indossare per quelle serate. Lo desideravano bello, diverso da quello delle ami-che; che fosse di tulle o pizzo, d’organza o raso erano dettagli importan-ti e con le madri giravano negozi per fare la scelta giusta.
La sera del primo veglione erano emozionate, ma già a casa avevano provato l’abito di fronte allo specchio e chiedevano alle madri, facen-do la mossa, se fosse troppo scollato o troppo poco. Pensavano anche al momento dell’ingresso al ballo e s’innervosivano al solo pensiero di entrare troppo in anticipo.
Ma le madri, per l’esperienza maturata, le rassicuravano: « Faccia-mo attendere i cavalieri e il pubblico che gremisce la sala e quello sui palchi, pronto ad ammirare ed a criticare».
A tarda ora finalmente le vedevi strette, secondo convenienza, ai ca-valieri, ballare con eleganza e proprietà e cercare con gli occhi il con-senso delle madri accomodate sui palchi.
Il tutto sapeva di divertimento tra sorrisi, cotillons, stelle filanti; al rientro a casa, quasi all’alba, era tempo di ricordare con il poeta: «A quanti piacesti e quanti piacquero a te», prima di rifugiarsi nel sonno
ristoratore.9
Io avevo un altro problema. Ero innamorato della Rossana del Pas-sarin, il tassista piccolo e tignoso che abitava a un passo dalla via del muretto. Lei non era alta, ma possedeva quella beltà naturale che han-no poche donne: il garbo e la grazia del portamento, i lineamenti dolci del viso, gli occhi vividi e luminosi, le labbra ben disegnate, i capelli tra il castano e il nero che teneva sciolti, a volte raccolti. Sapeva di es-sere ammirata, ma per via di un carattere schivo, non si dava delle arie e rifuggiva dai complimenti, anche se un sorriso, dolce e franco, non lo negava a nessuno, perché desiderava che la sua voglia di vivere fosse contagiosa.
Ogni volta che passavo davanti casa sua trovavo una scusa, maga-ri quella di parlare con la Diana, la sorella più piccola, ancora timida e curiosa, per dirle qualcosa, qualsiasi cosa, pur di avere la possibilità di starle vicino.
Avevo quindici anni: l’età giusta per una cotta e, per quanti sforzi facessi per togliermela dalla testa, lei mi ritornava prepotente in mente accendendo un desiderio che non sapevo spegnere.
La Vanda, la madre delle due sorelle, donna di carattere e di polso, la faccia attenta e vigile, non perdeva di vista la Rossana che era in età da marito, perché sapeva come andava il mondo e su questo fondamen-to l’istruiva, affinché trovasse il partifondamen-to giusfondamen-to che arrivò dopo una lo-ve story movimentata e chiacchierata con un pianarolo, quasi vicino di casa.
La Marcella abitava poco più in su della Rossana. Il padre era Ar-mando Mariani, tassista da sempre e per il suo aplomb conosciuto e soprannominato il “ lord”. I giovani leoni mondolfesi gli volevano be-ne, perché li trasportava gratis o quasi nelle balere del circondario. La ragazza assomigliava alla madre con quel viso dolce e i grandi occhi rassicuranti. Alta più della media, era tranquilla, mai chiassosa; di ca-rattere premurosa e sollecita verso gli altri, Marcella mi dava l’idea di
9 La sera del dì di festa, versi 19 – 20 di Giacomo Leopardi
una ragazza che non cercasse o fosse portata ad avventurarsi in storie passionali di cui diffidava, piuttosto mi sembrava ritagliata a far felice il ragazzo giusto che avesse incontrato nella vita, perciò si comportava come se aspettasse quel momento sopra ogni cosa.
Quasi di fronte alla Marcella, dove oggi c’è la sanitaria, Stanislao Guidi, originario di Monteporzio, aveva aperto un negozio di ferramen-ta che non era la sola in paese. L’altra, quella di Patrizi, si trovava nel luogo dell’attuale farmacia, sulla salita della Piazza; la frequentavo con Leo per chiacchierare con Nino, estroverso e curioso, che si divertiva a storcere i chiodi. Carlo, il più grande dei figli, serio e silenzioso era sempre in negozio; Natale, il più piccolo, si vedeva che aveva altro nel-la mente.
Bei tempi quelli per i mondolfesi che non erano costretti, come oggi, ad andare a Ponte Rio per comprare un chiodo! Guidi era un tipo alto, elegante in giacca e cravatta e, nonostante una mano di gomma, amava guidare le automobili e quando ne aveva voglia partiva con la sua Lan-cia, che teneva davanti il negozio, verso il mare o verso le colline. La moglie allora faceva le veci del marito in negozio in cui assicurava pre-senza e competenza. Si chiamava Clara, capelli neri raccolti e viso tran-quillo; dietro il bancone indossava un camiciotto scuro e serviva con un sorriso i clienti facendosi aiutare anche dalle figlie. I Guidi ne avevano tre: Ivia, Ilva, Maria. Che fosse bella l’Ilva, con il nome che ricorda l’i-sola d’Elba dei Romani, nessuno ne dubitava; la chiamavano l’atomi-ca, come la diva americana Rita Hayworth, affascinante star del cinema hollywoodiano. Quando la guardavo, con quel naso all’insù e gli occhi belli, dava l’impressione di stare sulle sue e di essere distaccata da tut-to, piuttosto svagata, quasi fredda e irraggiungibile.
La Rossella di Zotti (il vero cognome era Giorgini), carattere aper-to ed esuberante, fisico snello e ben fataper-to, viso solare e occhi luminosi, abitava dove ora c’è il negozio di scarpe e la casa di Mario Tarini. Era nata artista. Ogni occasione era buona per cantare e recitare; non c’e-ra avvenimento che la sua voce, gc’e-radevole nel canto e convincente nel-la recitazione, non rendesse vivo e da godere. Nelnel-la danza poi era uno
schianto per il garbo e l’eleganza dei movimenti. Tutti le volevano be-ne, ma lei non s’insuperbiva e rimaneva limpida come l’acqua.
La Leda, madre di Rossella e sorella della Vanda, una donna piccola e svelta, stava spesso all’erta; fiutava da lontano le persone e raramente si sbagliava, perciò s’adoperava, giacché la figlia imparasse a cammi-nare con le proprie gambe.
La Paola d’Evandro e della Rica era una ragazza simpatica e dotata d’ironia, pronta al sorriso, ma quando era il momento si rimboccava le maniche per lavorare in casa o in pizzeria con il padre.
Fisicamente alta e slanciata con un bel corpo, aveva il viso sereno e aperto che ricordava il padre e nello stesso tempo esprimeva la dol-cezza della madre; insomma era una ragazza, forse di natura timida, ma quand’era il tempo del divertimento, ad una sagra, ai veglioni di Carne-vale, d’estate al mare, non si tirava indietro ed era in prima fila.
Proprio davanti alla chiesa di Sant'Agostino, nel palazzo dei Mo-schini, viveva l’Elisabetta (Betta per gli amici), piccola e bellina, forse la più grande d’età delle altre. Vestiva sempre con proprietà e si distin-gueva per un carattere ben marcato che la faceva apparire alle volte po-lemica, aristocratica, ma un’innata timidezza ed una intima indecisio-ne, abbinate ad una vaga insoddisfazioindecisio-ne, la tenevano troppo sulle sue.
Anche lei, come le altre, era un partito da sposare ed ebbe la sue oc-casioni, ma finì per maritarsi con uno di un paese vicino.
Lasciò poi la Piana e si trasferì al Castello con la madre Odda, una donna genuina e di garbo, e con il fratello Enzo, un tipo nervoso e po-lemico che mi era simpatico, perché giocava a calcio con la Maroso.
«Dai, arriva la lattarola», mi diceva Leo e ci mettevamo sul chi vive per vederla. La lattarola era una donna di campagna sposata che por-tava il latte alle famiglie del paese. Arrivava con una bici con cui tra-sportava il buzzico del latte e faceva tappa, per posteggiare il mezzo e cambiarsi le scarpe, in un buco squallido, attaccato alla casa di Evandro e a quello di Ezio, dove la Rica dla Scavezza, un nugolo di capelli e la stessa gonna che le durava un anno, vendeva animali e uova tra sporci-zia e confusione.
Ci piaceva la lattarola; la sua era una bellezza di una donna vera fat-ta in tutto come Dio comanda; non si dava delle arie, era composfat-ta nel vestire, non sculettava e il suo viso rivelava una sobrietà innata. Sem-brava proprio inespugnabile e ci interessava per questo.
«E della Bella che ne dici?», diceva ancora Leo. La Bella era una donna snella che indossava abiti così stretti che esaltavano al meglio le forme del corpo.
Un giorno scendeva dalla Piazza, dove il padre lavorava, con addos-so un vestito rosaddos-so, aderente e punteggiato di piccoli cerchi bianchi. Il suo incedere era solenne. Camminava appoggiando un piede davanti all’altro come fanno le mannequin in sfilata, ma se s’accorgeva di es-sere osservata, il suo corpo si scuoteva e si dimenava, come se volesse farsi apprezzare. Era uno schianto. Guardava sempre avanti e teneva la testa alta e sul viso si poteva cogliere un appena percettibile sorriso di soddisfazione.
Le belle donne di Mondolfo festeggiano la Lella Archivio Anna Bernacchia
La Rossana, a destra, con la Lisetta, bellezza ed eleganza al veglione Archivio Diana Pierbattisti
La Paola, l’Elisabetta e la Marcella, nella pausa musicale, sorridono al fotografo Archivio Paola Paolinelli
La Lisetta, a sinistra, con la Rossella, al mare in attesa della tintarella Archivio Paola Paolinelli
Rossana al mare sfoggia un attra-ente sorriso Archivio Diana Pierbattisti
L’Ilva, la Rita Hayworth della Piana Archivio Maria Guidi
La Rossella (a sinistra) con la Lisetta e la Rossana a passeggio nella Piana Archivio Gaetano Vergari