Le case della via erano decorose e solide. «Sono state costruite do-po il terremoto del ‘30», mi raccontava nonno. Avevano la stessa altez-za eccetto quella di Raffaele, la più alta, e quelle di Neno e dell’Iride, le più basse.
La casa di Neno, tra quella di Raffaele e la mia, non faceva bella fi-gura; provavo tanta tenerezza, perché mi sembrava che avesse trovato l’appoggio giusto per non cadere.
«La Gigia, anche se è la metà del marito, lo comanda a bacchetta», così la Netta d’ Marmin, il cui vero nome era Anna, malignava con le vicine che, poco dopo assieme alla moglie di Neno, trascorrevano buo-na parte della mattibuo-nata.
Se mi capitava di vederle, tutte in nero, compreso il fazzoletto che copriva il capo e fasciava il collo, mi ispiravano simpatia. Le guardavo ripetere gesti soliti e antichi. D’estate stendere i lenzuoli, appena lavati nel mastello, nei fili tirati tra gli alberi o porre gli orci e altri recipien-ti davanrecipien-ti le case per avere l’acqua calda. D’inverno accendere il fuoco nel camino e cuocere sotto la cenere patate e cipolle o raccogliere la ne-ve in una caldarella per metterla sul fuoco e ricavarne acqua.
Alle volte si accomodavano su quelle pietre che erano (e ci sono) da-vanti le case della via e se ne stavano serie a pensare chissà che. Se vo-levano ciarlare andavano vicino al muretto, dove qualcuna ci si sedeva con le altre a far corona. Quello era un posto eccellente di osservazio-ne. Da lì controllavano la strada sottostante verso la Croce e la Palazzi-na, potevano dare un’occhiata alla Piana e spettegolare sui fatti capitati in paese. Che so, un mortorio, uno sposalizio, una lite in famiglia, una
questione di corna, una partenza all’estero di qualcuno.
Ma chi erano le donne in nero? Dopo la Gigia, ecco la Stella di Raf-faele, piccola, vivace, puntigliosa con gli occhiali dalle lenti spesse;
nonna Amelia, magra e attiva, di carattere severa e rigorosa; la Palmina di Ciccio la guardia con la sorella Ida, entrambe minute, cerimoniose e riservate; la Netta di Amedeo, donna tranquilla e ciccia dal viso tondo;
la Gusta, la nonna di Nazareno, alta, secca, dallo sguardo pacato, serio, quasi severo; l’Iride di Lamberto, bella e solare, dagli occhi espressivi;
in fondo, sul risvolto, l’Angiolina, rossiccia, rotondetta, la simpatia in persona per il suo carattere di donna aperta dal sorriso contagioso ; la Tina, la seconda moglie di Centolire, portava gli occhiali, era silenziosa e schiva e non parlava in dialetto. Quest’ultime tre non vestivano di ne-ro, erano più giovani, ma legavano bene con le più anziane.
Frequentavano la chiesa per la messa, il rosario e a maggio, per il mese della Madonna, non perdevano una funzione pregando in latino, come era usanza allora.
«Ma capite quello che dite quando pregate?», chiedevo loro se le in-contravo all’uscita della chiesa.
«Il Signore comprende tutto anche se non sappiamo il latino», mi ri-spondevano in coro. E avevano ragione.
C’era più fede nei loro volti che in quelli dei tanti cristiani di oggi che frequentano la chiesa.
La cucina era il loro regno. Per la via del muretto a mezzogiorno cor-revano gli odori di giornata e, anche se non c’era troppa scelta, i piatti erano invitanti e appetitosi, proporzionati per lo meno all’appetito dei commensali.
Gironzolavo in cucina per sapere cosa nonna stesse preparando, ma lei, indaffarata com’era, non gradiva la mia presenza e mi diceva: «Vai a giocare. Quando è pronto ti chiamerò».
«Non cuocere i cavoli e lo stoccafisso – la pregavo – Non li voglio.
Puzzano tutta casa».
Nonostante le mie lamentele lo stocco e i cavoli, a quel tempo non considerate una leccornia, erano sempre a tavola, specie di venerdì,
per-ciò per non digiunare, non esistendo un’alternativa, ero costretto a fare buon viso a cattivo gioco.
La casa mia e quelle degli altri della via erano, l’ho già scritto, de-corose e solide, ma d’inverno c’era da patire il freddo. L’unico ambien-te caldo era quello della cucina riscaldato dal fuoco del camino o dalla stufa, nelle altre stanze il freddo la faceva da padrone.
«Vai a prendere la legna – mi diceva nonna – Se no il fuoco si spe-gne». Prima lei, come le altre donne, aveva portato, a cavallo sulla testa, delle fascine di legna minuta che aveva raccolto in giro. Dal muretto era bello vederle camminare in fila, disinvolte e spigliate, come se non ac-cusassero fatica. Ma questo lo pensavo solo io, non so se loro fossero d’accordo.
Il caldo nella cucina rincuorava specialmente se pensavi al freddo che trovavi appena aprivi una porta.
Nelle camere da letto si stava bene solo sotto le coperte sia con i ma-terassi di lana che con quelli di foglie di granoturco, in questo caso chi si rigirava per trovare la posizione adatta per dormire era costretto a convivere con rumori continui e fastidiosi.
Esistevano dei marchingegni per scaldare i letti chiamati, chissà per-ché, prete e monaca. Il prete era una intelaiatura di legno che s’infila-va sotto le lenzuola dopo averci posto la monaca, uno scaldino pieno di brace viva.
«Attenti a non bruciare niente», ammoniva nonna, sempre sul chi vi-ve e con le antenne dritte.
Mamma, che era freddolosa, non ci faceva caso a quel che diceva la suocera e non vedeva l’ora di entrare a letto per sentire quel dolce te-pore.
Io del prete e della monaca ne facevo a meno, perché mi piaceva, ap-pena entrato sotto le coperte, sentire il contatto con le lenzuola fredde e ruvide: era un brivido di pochi attimi, ma intenso e, se fossi stato stoico, addirittura piacevole. A poco a poco avvertivo un timido tepore che si sviluppava dai piedi, prima appena percettibile, poi lo sentivo crescere d’intensità, salire lentamente nelle gambe, infine invadere e avvolgere
tutto il corpo in un susseguirsi di vampate di calore che per me era si-nonimo di felicità.
Mia madre si preoccupava per la mia salute e temeva che potessi aver freddo così, di tanto in tanto, s’alzava dal letto per rimboccarmi le coperte e, vedendomi con gli occhi chiusi, lo faceva quasi di soppiatto, per il timore di svegliarmi. Gli occhi chiusi erano una finta, però facevo grandi sforzi per restare sveglio, perché la volevo china sul letto e sen-tire le sue labbra sulla mia fronte.
Mi hanno sempre colpito il profumo e la rugosità dei lenzuoli. Il pro-fumo era naturale (non so se esistessero detersivi o ammorbidenti) per-ché era l’effetto del lavaggio, effettuato in un modo assai complicato.
Racconto ciò che ho visto fare a nonna, ma nelle altre case la proce-dura, se così la vogliamo chiamare, era la stessa.
Nonna bolliva l’acqua nel paiolo appeso al gancio del camino e la versava in un mastello di legno dove cacciava i lenzuoli e poi stendeva sul recipiente un telo ricoperto di cenere.
Se le chiedevo il perché della cenere, mi spiegava che il contatto tra l’acqua bollente e la cenere operava il miracolo di far diventare bianchi, profumati e ruvidi i lenzuoli. Ma le sorprese delle donne in nero non terminano qui. Nella stagione calda, sempre per lavare i lenzuoli e altra biancheria che avevano provveduto a caricare su un biroccino, cammi-navano sino al fiume tirandosi dietro il trabiccolo.
«Facevano delle pause – mi raccontava nonna nelle sere d’inverno davanti al camino – Una o due fermate per rifiatare. Arrivate al fiume, nell’acqua limpida e fredda che scorreva veloce, lavavamo i lenzuoli con tonfi cadenzati sino a colpire il pietrisco e poi li stendevamo all’a-sciutto».
Che donne! Andare e tornare dal fiume, sobbarcarsi una fatica così improba trascinando il biroccino.
Davvero un’impresa grande, oggi impensabile e inimmaginabile.