Con Belli, in quanto autore del «monumento della plebe roma-na», si torna a parlare del sempre vivo e cogente rapporto tra lingua italiana e lingua dialettale. E senza ignorare e tralasciare le miglia-ia di versi scritti in lingua italmiglia-iana, poiché Belli non avrebbe potuto essere autore nella poesia in dialetto senza essere ‘colto’ nella poesia tout court, senza conoscerne le regole, senza essere, insomma, poe-ta in lingua ipoe-taliana. E, infatti, è proprio in quello del dialetto che è possibile riconoscere il tratto distintivo, in termini di qualità e im-portanza, della sua opera.
Un cammino artistico, quello di Belli, segnato da incontri signi-ficativi, avvenuti ovunque, in giro per l‘Italia così come a Roma, dove decisivo è il contatto con uno dei più interessanti centri cul-turali del periodo: il salotto Wolkonsky, un luogo dialogico carat-teristico perché non esclusivamente ‘laico’, ma costruito sulla
con-* Avvertenza. Si è inteso qui soltanto riordinare, si spera più organicamente, quanto proferito in forma orale in occasione dei lavori del Convegno. – La bibliografia di riferimento essenziale è la seguente: B. Conti, San Gaspare del Bufalo e Santa Maria De Mattias, “Il Sangue della Redenzione”, I/2, 2003, pp. 35-84 [da consultare anche per l’abbondante bibliografia ivi riportata]; P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in “Corriere del-la Sera”, 1 febbraio 1975, ovvero, L’articolo delle lucciole in Id., Scritti corsari, Midel-lano, Garzanti, 1975, pp. 160-168; “Periferie”, edita a Roma dall’omonima Associazione [at-tualmente giunta, con il numero LXX–LXXVII, aprile-settembre 2014, al diciottesimo anno di attività]; M. Teodonio, Vita di Belli, Bari, Laterza, 1993.
vivenza di istanze culturali varie; voluto dalla principessa Zenaide Wolkonsky, nobildonna dal leggendario passato discutibile (forse ex–amante dello Zar e data poi in moglie ad un nobile russo), ma positiva promotrice di cultura, una volta scoperta la propria voca-zione ed eletta Roma come sede della propria esistenza. Il salotto vanta, tra le tante, alcune figure significative come, in particolare, Maria De Mattias, una delle interlocutrici privilegiate della princi-pessa, che apporta un’indubbia spinta di edificazione con caratteri che si potrebbero definire tradizionalisti se non fosse emersa la ten-denza a interpretare il ruolo della Chiesa sia nei termini della be-neficenza sia come intervento sempre più attento alla politica della formazione delle giovani generazioni da parte dello Stato Pontificio.
Maria De Mattias, monaca fondatrice dell’ordine delle Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, si rende attiva a diffondere la propria rete di istituti per l’infanzia e di assistenza agli strati socia-li più svantaggiati. E, appena reasocia-lizzatasi l’Unità d’Itasocia-lia, pur con Roma per il momento assente dal progetto di unificazione, compie una scelta ben precisa: applica uno dei primi decreti del ministro dell’istruzione Francesco De Sanctis e ingiunge a tutte le consorel-le, soprattutto alle più giovani, di prendere l’abilitazione alla docen-za, disposta dal neonato Stato, per continuare a insegnare, e a fare assistenza, non rinunciando alla propria impostazione, ma ricono-scendo di essere parte integrante di un sistema pubblico d’istruzio-ne nazionale.
Entrano nel novero dei frequentatori del salotto Wolkonsky im-portanti figure di intellettuali russi che, allorquando si trovano a Ro-ma, lo scelgono quale meta del loro soggiorno: Gogol’, ad esempio, un quasi autore ‘romano’ per via dello stretto rapporto con la città, dato che Le anime morte è un’opera almeno in parte scritta proprio nell’Urbe.
Di tale scambio restano testimonianze da entrambe le parti. La relazione culturale con i russi, già ben evidente nelle numerose ri-me in -schi presenti nelle poesie di Belli proprio a imitazione del-la fonetica russa, è testimoniata in un sonetto d’occasione, redel-lati-
relati-vo all’incontro con Gogol’ e Vyazemsky, corredato da una premessa che chiarisce il contesto del componimento (invitato a pranzo dalla principessa Wolkonsky, Belli fu pregato di dare prova del suo stile romanesco), e chiuso da un commento in cui Belli stesso esplicita che «questo non entri nella raccolta perché contrario al suo spirito», in quanto appare limitato a un mero gioco fonico più che fono-se-mantico. Gogol’, dall’altro canto, nel parlare dei trasteverini, gli abi-tanti dell’altra sponda del Tevere, fieri della loro pura ed esclusiva origine romana, dimostra che la figura e l’opera di Belli erano cono-sciute in ambiente russo:
Ma non vi è mai capitato di leggere i sonetti di Belli, che del resto van-no ascoltati quando li legge egli stesso. In essi, in questi sonetti, c’è tan-to sale e tanta arguzia inattesa, la vita dei trasteverini di oggi vi è rispec-chiata così fedelmente che vi farebbero ridere e quella pesante nube che spesso incombe sulla vostra testa si dileguerebbe insieme alla vostra mo-lesta e insopportabile emicrania. Sono scritti in lingua romanesca e non sono stati pubblicati, ma poi ve li manderò.
Testimonianza rilevante, quella di Gogol’, perché smentisce l’an-tica leggenda del lavoro clandestino e pressoché notturno dello scrit-tore dei Sonetti.
L’esperienza poetica di Belli si somma, quindi, alla folta schiera di poeti sparsi per l’Italia soprattutto nella prima metà dell’Ottocen-to che da Pietro Giordani, già audell’Ottocen-tore di una lettera di denuncia con-tro la moda dell’intellettualità italiana, sia purista che antipurista, sia romantica che classicista, erano apostrofati con disprezzo come «il popolo dei sonettanti», proprio nell’articolo di risposta a M.me de Staël, nel primo numero della “Biblioteca Italiana” del 1816.
Nel frattempo Belli è entrato di diritto in quella corona composta da tante gemme preziose che da Dante arriva fino a noi, in ragione della consapevole scelta di affidare il proprio universo emotivo alle parole di una lingua particolare quale è il dialetto.
Un’esperienza che non è unica e isolata: ce ne sono di analoghe
in tutto il resto della penisola, soprattutto nel settentrione d’Italia e nelle province meridionali del Regno di Napoli dove resisteva tutta quella corrente localistica che, poi, si svilupperà fino a raggiungere la dignità del ‘folklore’, nei più recenti anni Settanta del Novecento. Si tratta di una tradizione fino ad allora semi-sconosciuta e di interesse per lo più antropologico, anche perché non considerata ai livelli del-lo stesso felice punto di arrivo di Belli.
Ma per lungo tempo anche la poesia belliana è stata confinata nel pur aureo recinto della poesia dialettale, con un destino condi-viso con quanti hanno optato per il dialetto come lingua poetica. E ciò è durato fino a quando qualcuno si è occupato di problematiz-zare queste distinzioni. Ma ragionando ‘en poète’, come Pier Paolo Pasolini.
Con l’affermazione «non ci sono più le lucciole», a qualche me-se dalla morte tragica e prematura, l’autore friulano-romano denun-ciava la scomparsa degli aspetti genuini presunti endogeni, appunto, delle borgate romane, cornice all’Urbe vera e propria, alla Roma bor-ghese dei palazzi ricchi e delle sedi istituzionali. Pasolini fa seguire a questa prima contrapposizione, urbe/borgata, una ulteriore serie di antitesi che vede contrapporsi cultura/natura e città/campagna; arri-vando a individuare nella ‘campagna’ e nella ‘natura’ incontaminate, nei ‘ragazzi di vita’ il cui modo di parlare era così diverso dalla lingua di città standardizzata, omologata e quindi piatta, una purezza a vol-te più immaginata che reale.
Pasolini punta il dito sull’unificazione linguistica colpevole di un impoverimento della lingua dal punto di vista semantico-lessicale e ne ritiene responsabile la televisione. ‘Felix culpa’ di poeta: perché, occorre riconoscere, proprio quella standardizzazione e omogeneiz-zazione fu infatti alla base di un processo di facilitazione della comu-nicazione che, proprio a partire dagli stessi anni Sessanta, permise, per così dire, ai giovani di Torino di cominciare a comprendersi in tempo reale con quelli di Palermo!
Questo ragionamento giunge a una sintesi nella constatazione dell’esistenza di una ricchezza espressiva laddove non ce
l’aspettia-mo, in grado di fungere da contraltare a una lingua ufficiale forte-mente deprivata e quindi non adatta a rispondere ai bisogni espres-sivi del poeta. La soluzione è fornita dalla creazione di una linea neo-dialettale della poesia in lingua italiana, in cui la lingua viene talvolta ‘inventata’. È questo il caso di Albino Pierro, proveniente da una zona centrale di Roma, parlante un italiano non propriamente standardizzato, che elabora un ‘dialetto’ a partire da quello che pensa essere stato il dialetto di sua madre: è quindi una lingua ‘madre’ in quanto è parlata dalla madre che nel trasformarsi in linguaggio poe-tico lo consacra, pur tuttavia, come grande poeta. (E si veda l’azione poietica e diffusivamente culturale svolta su questi temi dalla rivista
“Periferie”, diretta da Vincenzo Luciani, poeta in lingua e nel dialet-to della sua Ischitella nel Gargano).
In fondo, in un certo senso, nulla di nuovo nella sequenza della tradizione poetica illustre della letteratura italiana. Già Dante aveva teorizzato qualcosa di simile nel De vulgari eloquentia (I, 8, in parti-colare), quando, affrontando la questione latino/volgare segnava lo spartiacque, identificando il latino come lingua di servizio, una sor-ta di global English di allora e quindi lingua ‘artificiale’, costruisor-ta per servire a funzioni ‘alte’; e il volgare, definito, pressoché letteralmen-te, «la lingua succhiata dalla nutrice»: cioè materiale, fisica, corpo-sa (e che, paradoscorpo-salmente, proprio per questo, è diventata la lingua italiana).
La lingua italiana e quella dialettale e, cioè, la lingua colta e quella popolare, sono dunque due realtà linguistiche che si compenetrano.
Esse hanno caratteristiche differenti, rispondono a esigenze diverse, hanno pertanto funzioni diverse. Il dialetto, tuttavia, proprio perché dotato di particolari caratteristiche, ha il pregio di arricchire la mo-dalità di espressione, di esprimere in maniera più vivace e penetrante i modi della propria reazione al mondo, l’universo delle proprie fan-tasticherie. Una lingua che è maggiormente collegata al cuore, quin-di una perfetta lingua poetica. Non si spiega altrimenti la scelta quin-di un autore come Belli di consacrare il dialetto come propria lingua poe-tica nonostante la competenza della lingua italiana di cui disponeva.
Diego Poli
Università degli studi di Macerata