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In tale contesto va anche segnalata l’attenzione che Belli e Le- Le-opardi portano sulla condizione umana: precaria e preziosa

e Giacomo Leopardi a confronto

2. In tale contesto va anche segnalata l’attenzione che Belli e Le- Le-opardi portano sulla condizione umana: precaria e preziosa

Special-mente due questioni sono per il Belli antropologicaSpecial-mente rilevanti, vale a dire la difesa della dignità umana (si pensi a L’avvocato Cola) e la difesa dell’umanità del lavoro: c’è nel Belli il riconoscimento del valore del lavoro, anche di quelli più umili; di essi il Belli sa eviden-ziare la profonda umanità.

Un’altra questione, cui Belli e Leopardi richiamano, è quella della verità: è, questo, un punto di contatto dei due poeti, perché nessu-no dei due vuole sottrarsi alla verità. Di arida verità parla Leopardi;

di verità sfacciata parla il Belli; e in entrambi i casi, il compito che si attribuiscono è quello, senza farsi illusioni, di scoprire (come dice il

Belli) «verità di cui moltissimi non hanno neppure il sospetto».

È da sottolineare che il tema della verità, anzi della Verità con la maiuscola come egli scrive, è di grande interesse per il Belli, per il quale la Verità, nel sonetto omonimo, è come un bisogno fisiologico, tanto da fargli dire che «la Verità è come la cacarella / che quanno te viè l’impito e te scappa / hai tempo, fija, de serrà la chiappa / e stor-cete e tremà pe ritenella».

Per questo Belli sceglie la vita del popolo come soggetto della pro-pria opera; infatti il popolo, per il suo stato di emarginazione, diven-tava nella situazione bloccata l’unico depositario della verità ‘nuda’

e ‘sfacciata’: «fra noantri soli / se pò trovà la verità sfacciata» (sonet-to 1808) che permetteva di avere accesso alla realtà, al di là di ogni mistificazione di potere. E della Verità il Belli si fece testimone co-me poeta romanesco; non altrettanto, però, coco-me letterato e uomo.

A parte ciò, in Belli la Verità rimase pur sempre esigenza di riferi-mento, anche quando disattesa, e spunti di riflessione il poeta offre ripetutamente su alcuni problemi, come il rapporto tra coscienza e potere, tra dolore e vita, tra verità e persona, tra religione e società.

3. In particolare, sul tema della religione è possibile operare un ulteriore confronto tra Belli e Leopardi. Anzitutto diciamo che verso la «Santa Riliggione» Belli si trova in una posizione diversa da quel-le più lineari sia degli innovatori (gli Illuministi), sia dei tradiziona-listi (i Reazionari); la sua infatti è una impostazione tutt’altro che consequenziale, perché si apriva alla critica ma non riusciva a distac-carsi dal conformismo religioso o politico che fosse. Dunque, la sua posizione è caratterizzata da contraddizione e da compromesso, per il fatto che, nel mentre denuncia tanti aspetti negativi della religione, cioè del cristianesimo, e in particolare della chiesa cattolica, tuttavia a questa chiesa e a questa religione rimane legato; anzi, accade che Belli, per un verso, appaia particolarmente critico come poeta, e, per altro verso, come uomo si caratterizzi in senso decisamente conser-vatore.

A parte ciò, il confronto Belli-Leopardi si può fare con riferimen-to alla loro dimensione critica verso la religione. Al riguardo è da pre-cisare che nella poesia del Belli è rintracciabile una decisa e reiterata critica alle varie forme di superstizione e di fanatismo. Insieme con questa critica, che può essere esemplificata con la poesia La mostra de l’erliquie, nonché con il terzo sonetto su Er zagrifizzio d’Abbramo (la terzina finale), è da segnalare la critica per un verso al dogmatismo, vale a dire a certe verità della fede affermate come dogmi, e per altro verso al temporalismo, per dire la connotazione di potere temporale che la Chiesa rivendicava per sé. Per intendere queste critiche alla re-ligione da parte del Belli si possono vedere in particolare i sonetti La riliggione spiegata e indifesa («Tutto sta avé bon stommico […] ciari-media lo stucco della fede») e La casa de Dio («rispetto de le chiese»).

Si tratta di una posizione che potrebbe essere letta alla luce dell’er-meneutica suggerita da Pietro Gibellini, il quale propone come chia-ve di lettura l’ambiguità. Questo studioso ne La Bibbia del Belli (Mi-lano, Adelphi, 1995, pp. 27-31) si chiedeva: «Il popolano che narra quella Bibbia apocrifa è beffatore o beffato? Parodia del o sul villa-no? ». E il critico rispondeva: «L’uno e l’altro in misura cangiante in ogni testo, ma con una compresenza costante», per cui concludeva:

il compromesso è l’unica soluzione che consente al cattolico Belli di es-sere cattolicamente ateo: l’oggettivazione dietro la maschera del popo-lano è l’unico modo perché la voce del lettore di Voltaire e di un vange-lo gravis, la voce della ragione e della ribellione possa manifestarsi senza che il poeta sia costretto a portare sino in fondo la scelta dell’arido ve-ro o del coerente radicalismo cristiano: non già per costrizione esterna, ma per il timore di staccarsi da una formula esplicativa dell’esistere e di scoprirsi il terrore di un Lucrezio senza Epicuro. Ecco, dunque, la co-micità, il barocco, magari la profanazione.

Insomma, «Il bisogno d’una ribellione che fosse profanazione ma non rivoluzione, una violazione dei valori che si ha paura di negare, e non liberazione». Il che spiega i “due Belli” da intendere però non

in chiave di successione cronologica, bensì di contemporaneità, di coesistenza. Ecco perché, puntualizza Gibellini:

quel doppio registro era necessario al Belli come gli era necessaria la profanazione: e forse la fine della sua poesia romanesca nasce proprio prima della Repubblica Romana, dalla fine del pontificato d’un Vicario che esemplarmente incarnava nella civitas mundi la lezione d’una di-vinità tirannica e profanabile; c’è un appunto su un cartiglio: “A Papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Si può pertanto con Gibellini concludere che «il Belli s’arresta sulla soglia della negazione: non un passo in più». Tutto questo fa la differenza con Leopardi, che pure era stato fortemente critico nei confronti del cristianesimo. Come abbiamo avuto occasione di ac-cennare nel volume collettaneo Ripensando Leopardi. L’eredità del po-eta e del filosofo alle soglie del terzo millennio (Roma, Studium, 2001, p. 62), riteniamo che l’anticristianesimo leopardiano sia stato con-dizionato tra l’altro da due fatti: uno di carattere esperienziale, e un altro di carattere speculativo, nel senso che il cristianesimo pratico che Leopardi rifiuta è quello che aveva visto incarnato dalla madre, e il cristianesimo teoretico che rifiuta è quello che era stato sistema-tizzato dai pensatori scolastici: il cristianesimo di Adelaide era una religione mortificante, autoritaria, e quello degli Scolastici una reli-gione astratta, intellettualistica. Dunque, il rifiuto del cristianesimo da parte del Leopardi nasce anche dall’averlo identificato con un’e-sperienza e una teorizzazione che ne avevano mistificato il senso più vero.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte ad atteggiamen-ti – quelli di Belli e di Leopardi – che, pur caratterizzaatteggiamen-ti da aspetatteggiamen-ti comuni, sono profondamente diversi per motivazioni e conclusioni, per cui un confronto tra i due dovrebbe portare a evidenziare soprat-tutto le rispettive specificità.

Marcello Teodonio

Presidente del Centro studi Giuseppe Gioachino Belli