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di Grazia D’Altilia (Vico del Gargano, Foggia)

I

l postino aveva lasciato un pacco. Lo aveva ritirato l’inquilina del primo piano. La mattina ero sempre fuori casa e non avevo una cassetta per la posta. Quando me lo consegnò, pensai ad un errore e sbuffai all’idea di dover perdere tempo per fare il reso. Non avevo ordinato nulla, né fatto acquisti. Ma, quando lo aprii, mi fu chiaro il motivo della richiesta di Giovanni.

“Da parte di Elide e mia, l’autore e i testi che sempre sono stati nel cuore di Elide, con riconoscenza. Auguri per un sereno Natale.”

Avevo salutato Elide prima dell’estate. Le sue con-dizioni erano peggiorate. Tutto ciò che era movimento stava rallentando, ossa e muscoli imbrigliati in una rete sempre più stretta. I piedi incespicavano su ostacoli in-visibili. Le braccia imprigionate come in un calco di gesso. E un perenne sorriso di gioia fittizia cominciava a stamparsi sul suo volto, in contrasto con lo spaesamento che riempiva lo sguardo. Soprattutto quando cercava di articolare il pensiero e le uscivano frasi mozze e parole lontane da quelle (immagino) volute.

Cosa succede? Mi diceva i primi tempi, quando i segni della malattia furono riconosciuti.

È l’Alzheimer, le dicevo, certa di non offenderla né ferirla, visto che conosceva la malattia per essersene

informata non appena i suoi sintomi cominciarono a ma-nifestarsi. Ma soprattutto le rispondevo e mi sforzavo di spiegare senza remore, in virtù dell’accordo preso.

Dimmi sempre tutto. Tutto quello che mi accade.

Voglio continuare a capire. Quasi mi impose quando, due anni prima, all’esordio della patologia, iniziammo un programma di stimolazioni cognitive.

Presi alla lettera la richiesta e continuai a spiegare cosa le stesse accadendo anche quando, forse, ogni mia parola doveva scivolarle come saponetta tra le mani.

Avevo salutato Elide prima dell’estate. La sua capa-cità di comprensione era ancora discreta, sebbene zone di diffusa atrofia stessero rendendo il cervello simile a una fetta di groviera. Restava, però, più vigile che cele-re. A volte, considerai un bene questo divario. A volte, un’ulteriore condanna. E quando la salutai, fu perché lei aveva deciso di vivere in una struttura e lasciare le due badanti che in casa erano l’aiuto indispensabile.

Quando ho visto il libro, quando ho letto il biglietto che lo accompagnava, ho capito perché mi avevi chiesto l’indirizzo postale. Mi sono emozionata. Ricambio gli auguri. Un augurio speciale per Elide. A lei un abbrac-cio forte.

Trovai il numero di Giovanni e su whatsapp inviai il messaggio.

Qualche giorno dopo mi arrivò, in risposta, una foto e due righe come didascalia.

Elide era su di una sedia a rotelle, Giovanni alle sue spalle, pronto a spingerla. Una passeggiata, la vigilia di Natale, giubbotti e cappelli e un cielo terso sulle loro teste. Si trovavano nel parco che circondava la struttura.

Tanto verde, come piaceva ad Elide.

Giovanni, il figlio, appena riusciva, prendeva l’aereo per andare a trovarla.

Le ho portato i tuoi auguri. Le ho detto che sei stata molto felice per il libro. E…

Elide mi pareva divertita per una corsa cui, immagi-nai, avrebbe voluto dare slancio tenendo una delle gambe tesa ed allungata in avanti. Il sorriso, che ben le cono-scevo, le stampava una gioia che, questa volta, davvero la rallegrava, superando la stereotipia della maschera incollata dalla malattia.

L’Alzheimer fa ritornare bambini, a volte. Ciò che è certo, è che rende indifesi. Come i bambini.

Nei mesi di terapia, Elide mi interrogava su quanto le stesse accadendo e qualcosa stava accadendo anche dentro me. Avrei voluto fare di più. Chiudere quei buchi che rendevano saltellante la mente. Recuperare ciò che si era perso. Ripristinare vie interrotte come un elettricista fa con i circuiti bruciati.

Dissolvevo il senso di impotenza, in parte, nel pren-derle la mano. Lei stringeva e mi guardava fisso. Quella era la sua voce. Nell’ultimo periodo, le mani divennero il modo principale per comunicare. Comunicavo che ero lì per lei. E mi rispondeva che lo sapeva e che me ne era grata. I messaggi fluivano tra il caldo delle mani strette e la luce dei nostri occhi. Ormai, dalle labbra tirate in un sorriso fittizio, le parole si congelavano per sbriciolarsi, poi, in sillabe senza significato come pezzetti di ghiaccio.

Avevo salutato Elide prima dell’estate. Vederla nel-la foto come una bambina felice, mi rese felice. Elide aveva l’età di mia madre ed io, una madre, non l’avevo

più. Forse anche per questo accadde, oltrepassando quel confine che il ruolo professionale disegna e talvolta rende necessario.

Avevo imparato a volerle bene. Come a una madre.

Una madre che ha bisogno di una figlia che diventi sua madre.

… Le ho detto che l’abbracciavi forte e lei ha detto:

“Che bello!”

Che bello!

Probabile che Elide non sia stata capace di tanta abi-lità. E sia stato Giovanni ad interpretare il suo stato d’a-nimo. Probabile che, sull’onda di una forte emozione, abbia recuperato, da qualche parte nella sua mente, gli strumenti utili per tanta abilità.

Non lo saprò mai.

Mi penso vicina. Le mani strette, una nell’altra, gli occhi negli occhi.

Ecco la sua voce che mi arriva.

Lascio che venga a me, in un sussurro... Che bello!