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Veli di nebbia

di Rachele Amerini (Vicenza)

N

onna amava la nebbia. Mi diceva sempre che essa faceva parte di noi da tempi immemorabili, che era ormai nel nostro dna. Eravamo gente nata tra le nebbie quasi perenni di un piccolo angolo di mondo. Cresce-vamo attorniati da un paesaggio dove tutto appariva sfumato e la nebbia ci metteva alla prova una volta e poi ancora. Ci forgiava accecandoci per minuti, ore, in occasioni eccezionali, persino giorni interi. Ci insegnava ad ascoltare i tonfi del mondo.

Da piccola spesso camminavo a tentoni al ritorno da scuola con le mie compagne, tra queste geografie che si ridisegnavano in continuazione. Allora le madri e le nonne ci guidavano con le loro voci. Ci insegnavano a riconoscere la consistenza di ciò che ci si parava dinanzi:

dalle dense nebbie fitte che rendevano il più piccolo dei passi arduo ai veli di nebbia che potevano confondere il più abile degli osservatori. Il nostro era un costante allenamento del senso dell’orientamento.

Quando trascorreva troppo tempo tra una giornata di nebbia e un’altra, nonna si preoccupava. Mormora-va che staMormora-va succedendo qualcosa di strano, che c’era qualcosa che non andava. Si prendeva nervosamente una mano contro l’altra e mi chiedeva di andare fuori in corte a controllare che tutto fosse al proprio posto e a sentire se per caso vi fosse l’odore della nebbia in arrivo.

La nebbia odora di umido. Allora rientravo e la tran-quillizzavo. Ero certa. La nebbia sarebbe tornata, come il giorno torna dopo la notte, le dicevo, e lei si raggomi-tolava rilassata davanti al camino. Molti anni prima vi era stato un autunno particolarmente felice per il resto del mondo, ma terribile per nonna. Per molti giorni il sole risplendette come non mai in questa nostra pianura abituata più al grigio tetro che ai colori caldi degli alberi autunnali. E più splendeva il sole, più lei si rabbuiava.

Finché un giorno, dal ponte che portava dalla nostra casa in paese, nonna vide la foschia risalire piano piano e farsi sempre più densa. Finalmente è tornata la nostra casa, disse, con il cuore talmente gonfio di gioia che lo potevo udire battere a distanza.

Nonna era strana. Forse è vero. Però su una cosa aveva ragione: la nebbia ti fa scomparire. Gli aman-ti la uaman-tilizzano per celare i loro sussurri di passione, i criminali per commettere atti efferati, i fuggiaschi per attraversare confini altrimenti invalicabili. «Ah, con tuo nonno! Quante sere romantiche a cercare di ascoltarci, a trovarci in questo angolo segreto!» e nonna rideva ema-nando una soffice nuvoletta melanconica. Diceva che dovevo abituarmi a usare la nebbia a mio favore, perché nessuno vi vedeva il lato positivo: apprendere a domarla mi avrebbe reso più forte di qualsiasi altra persona.

Erano le nove di sera di un giorno di fine novembre.

Dalla finestra al secondo piano del mio appartamento guardavo giù in strada e vedevo in lontananza l’alone sbiadito di un lampione. Non c’èra anima viva in città.

Aprii la finestra per esserne sicura. Dei passi solitari si avvicinarono velocemente per poi allontanarsi altrettan-to di fretta. Ripensai a ogni singolo passaggio. Guardai

con un misto di tristezza e liberazione le cose che mi circondavano. Il divano Chesterfield, i libri, quelli nuovi e quelli antichi, quelli che mi rispecchiavano e quelli che avrei buttato se non fosse che non ne avevo mai avuto il coraggio, il tappeto comprato nel viaggio in Iran, il parquet in legno di pero europeo. La luce soffusa. Cosa vedevo? Nebbia. Fuori c’era la nebbia. La nebbia, quella che è talmente densa che la si può tagliare con il coltello.

La nebbia! Là! In quella città così lontana. In quella città dove la nebbia non c’era mai. Cosa aspettavo? Mi dissi che era ora di andare. Vai. Via. Veloce. Dario poteva rientrare. Magari quella sera prima del solito. Magari quella sera non era con lei. Magari quella sera sarebbe stato pure alticcio e avrebbe cercato una scusa per met-termi al muro, per lasciarmi qualche livido sparso che poi avrebbe cercato di giustificare con i vicini e che lo avrebbe fatto sentire terribilmente in colpa per qualche ora. A me sembrava di sentire nonna: «muoviti, San-dra». Non presi niente, mi infilai il cappotto. Bisognava viaggiare leggeri, perché in realtà nulla di tutto ciò che mi stava attorno aveva alcuna importanza. Presi in brac-cio Chiara, che dormiva ignara dopo l’ultima poppata.

Con il nebbione di quella sera Dario non si sarebbe ac-corto che mancava la macchina, parcheggiata al solito posto. Chiusi la stanza di Chiara a chiave, avrebbe pen-sato che mi fossi rintanata lì dentro, ancora arrabbiata con lui, almeno fino alla mattina seguente. Allora sarei stata lontana.

Scesi le scale facendo quello che mi sembrò un ru-more assordante. Dovevo prestare più attenzione. Aprii il portone e mi sentì avvolgere dal soffice velo bianco.

Camminai, ricordandomi come si camminava nella

nebbia. Sentii qualcuno fare altrettanto dall’altra parte della strada, ma riuscii a scorgere soltanto un’ombra. Mi sembrò Dario, ma non potrei giurarlo. Pregai soltanto affinché Chiara non si svegliasse.

Quella sera la nebbia stese il suo mantello per aiuta-re anche me a scompariaiuta-re nel paesaggio sfumato.

FINE