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Ciò, nella convinzione che i beni comuni e, a maggior ragione, i beni confiscati, siano luoghi simbolo, matrici di democrazia, la cui cura esige un impegno culturale, civile e politico che favorisca un più efficace coordi- namento tra le istituzioni, i professionisti e la società civile, una maggiore trasparenza e competenza, una profonda educazione alla cittadinanza. 2. Il contesto: i beni comuni e i beni immobili confiscati
Le teorie e le esperienze sin qui maturate nell’ambito dei beni comuni sono indubbiamente dotate di un elevato valore sia in termini giuridici che ambientali e culturali. Esse devono, pertanto, essere approfondite, va- lorizzate, sviluppate nei contenuti e negli ambiti, ma soprattutto applicate e diffuse. È giunto, ormai, il momento di cimentarsi in esperimenti più
coraggiosi e più innovativi di quelli sin qui maturati.
A tal fine, particolare interesse, anche simbolico, rivestono i beni che sono stati confiscati alla criminalità, che, in base alle disposizioni del co- dice antimafia, devono essere restituiti alla comunità di riferimento per “scopi sociali”, latamente intesi. Per tale ragione, essi ben possono essere annoverati nella più generale categoria dei beni comuni, ossia di quei beni, di quelle risorse e di quelle relazioni che sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali dell’uomo e al soddisfacimento dei bisogni essenziali, come li ha definiti la cd. Commissione Rodotà nel 2007.
Oggi, i beni immobili sottratti alla criminalità – organizzata ma non solo – sono oggetto di una normativa molto tecnica (recentemente mo- dificata ma ancora a tratti imprecisa), di statistiche non sempre aggior- nate, di procedimenti amministrativi affidati a strutture (come l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati e come i Comuni stessi) che spesso non vengono dotate delle competenze e delle forze necessarie, di aspettative e di appetiti non sempre ben indagati. Raramente, si riesce a osservare questi beni – collettivi e polifunzionali per natura – con uno sguardo ampio, da tutti i punti di vista e in tutte le loro sfaccettature. Ra- ramente, ci si occupa della loro assegnazione in modo multidisciplinare e coinvolgendo, realmente, tutti i soggetti interessati.
La gestione dei beni confiscati è, ancora, un tema di nicchia, un set- tore appannaggio di (pochi) tecnici e specialisti, poco inclusivo e persino poco noto a coloro che dovrebbero esserne i beneficiari e i protagonisti.
In tal modo, si corre il rischio di vanificare l’importante impegno della magistratura e di condannare all’abbandono e al degrado beni im- mobili di grande valore: simbolico (per l’evidente immagine di contrasto
al crimine), economico (diretto e indiretto) sociale e persino ambientale (l’utilizzo di beni in disuso consente anche il contenimento del consumo di suolo). Ma, soprattutto, si rischia di perdere una delle sfide culturali più importanti dei nostri tempi: quella di coinvolgere, in un percorso di reale partecipazione deliberativa, tutti gli abitanti di un territorio, a partire dalle scuole e dalle biblioteche, nel superamento e nell’isolamento della cultura criminale, attraverso la co-progettazione e la co-gestione, la creazione e il mantenimento di modelli alternativi, inclusivi creativi e improntati alla condivisione dei benefici e delle responsabilità. La riappropriazione del singolo bene confiscato non è completa e non è utile se non passa attra- verso la riappropriazione dei valori di legalità, democrazia e cittadinanza e la loro diffusione all’interno della comunità e nel territorio in cui il bene stesso si trova.
In questa complessità, si è inserita l’Associazione Circola – cultura,
diritti e idee in movimento, caratterizzata appunto dalla presenza al pro-
prio interno e dall’ingaggio di professionisti di settori diversi, che hanno condiviso e messo a disposizione le proprie competenze in un lavoro corale e appassionante, che è sfociato nel Progetto Dopo le mafie, per la
valorizzazione e la gestione partecipata dei beni comuni e confiscati, cofi-
nanziato da Fondazione Cariplo e realizzato in quattro Comuni lombardi. Il progetto è stato avviato, al tempo stesso, con una forte spinta ideale e una grande attenzione alle diverse situazioni concrete.
Secondo i dati forniti da ANBSC, nel biennio 2017/2018 sono stati informatizzati i dati relativi a 27.558 tra beni mobili, registrati e non, beni immobili, aziende e beni finanziari. Come si legge nei documenti ufficiali dell’Agenzia, «dal mese di novembre 2016 ad oggi, sono state 28 le conferen-
ze di servizi indette, 44 le province del territorio nazionale interessate, 5.328 gli immobili proposti agli Enti Locali e al Demanio per un valore complessivo di oltre 422 milioni di euro. Di questi 5.328 immobili, 1669 (circa il 30%), non avendo ricevuto nessuna manifestazione di interesse, non hanno poi trovato una destinazione. L’utilizzo dello strumento “conferenza dei servizi” e la piattaforma informatica realizzata dall’Agenzia hanno consentito di proporre per la destinazione 3.102 immobili nell’anno 2018 a fronte dei 1.924 dell’anno precedente, con un incremento del 61%»1.
La Lombardia è, attualmente, la quarta Regione di Italia per beni in gestione.
1. Relazione sull’attività svolta - biennio 2017-2018, 8, su http://www.benisequestrati- confiscati.it/dox/Relazioni/ANBSC_relazione_2017_2018.pdf.
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Nonostante il notevole sforzo profuso, soprattutto negli ultimi anni, dall’ANBSC e da alcune Istituzioni, persiste uno squilibrio significativo tra i beni immobili che sono stati sottratti, in via definitiva, alla crimina- lità e quelli che sono stati effettivamente assegnati – con successo – alle comunità di riferimento.
Il primo passo da compiere era dunque quello di indagare le ragioni di tale situazione.
La ricerca ha evidenziato che le difficoltà, almeno nell’ultima parte del processo, quella della riconsegna del bene alla comunità, sono in gran parte legate al fatto che l’assegnazione di un immobile confiscato è per il Comune un’opportunità ma è anche, al contempo, un problema in più da affrontare.
È un’opportunità:
1. per l’elevatissimo valore culturale e simbolico che ciascun bene sot- tratto alla criminalità, di per sé, riveste;
2. perché è una risorsa che può e deve essere utilizzata per scopi socia- li: un bene confiscato assegnato a un Ente viene definitivamente e concretamente sottratto alla criminalità e (ri)diventa un bene della comunità, presidio della legalità e della cittadinanza. Vede dunque arricchito il suo valore di uso perché può essere messo a servizio dei bisogni e dei desideri della collettività. Assume, in tal modo, un ele- vato valore simbolico intorno al quale è possibile costruire un’azione di promozione della comunità.
3. Può essere messo a reddito, nei termini previsti dalla normativa di settore e compatibilmente con le singole situazioni di fatto, o, meglio, diventare uno strumento indiretto di sviluppo economico delle co- munità che ivi possono realizzare nuovi progetti.
Al tempo stesso, dobbiamo riconoscere che la presenza di beni confi- scati su un territorio costituiscono un problema, per le p.a., perché: 1. non necessariamente il Comune dispone, a priori, di un progetto relati-
vo al bene che riceve o conosce i bisogni della comunità di riferimento: nella maggior parte dei casi, l’Amministrazione si pone il problema nel momento stesso in cui la presenza dell’immobile viene segnalata dall’ANBSC. A quel punto, però, il tempo per costruire un progetto efficace e significativo è poco;
2. d’altra parte, lasciare il bene inutilizzato significa vanificare lo sforzo profuso dallo Stato e comunicare un messaggio di abbandono e irri- levanza della lotta alla criminalità organizzata;
3 non si tratta solo di dare una destinazione astratta al bene. Occorre trovare soggetti disponibili a collaborare e ad assumersi delle respon-
sabilità. Ci sono, poi, gli aspetti intangibili che riguardano il bene stesso e con cui è necessario fare i conti: la storia, le rappresentazioni sociali del bene, prima che fosse confiscato. Non è raro incontrare resistenze o addirittura timori da parte delle comunità a utilizzare o semplicemente frequentare il luogo, specialmente se nella comunità sono presenti pa- renti o altre persone in qualche modo vicine al proprietario del bene confiscato, da cui c’è ragione di temere varie forme di minaccia. 4. In alcuni casi, si pone anche un problema di rapporto diretto con la
famiglia o con il clan di appartenenza del soggetto a cui è stato sot- tratto il bene e che, magari, continua a occupare (almeno) una parte dell’immobile stesso.
5. Spesso, peraltro, si tratta di immobili consegnati in condizioni tali da non consentirne l’utilizzo immediato, che richiedono interventi edilizi e/o di messa a norma degli impianti e delle strutture, anche di notevole impatto economico.
6. L’assegnazione del bene ad associazioni o soggetti del terzo settore comporta la gestione di procedimenti amministrativi delicati e a volte lunghi, che richiedono competenze multidisciplinari, di cui spesso gli enti locali non dispongono al proprio interno.
7. Il fenomeno stesso e le relative procedure amministrative e legali sono ancora poco note, almeno nell’ambito dei Comuni di dimensioni più ridotte.
Anche in ragione di tali circostanze, si assiste oggi a:
1. uno scarso coordinamento tra le Istituzioni, i professionisti che ope- rano nel settore e le comunità interessate,
2. una frequente scarsa trasparenza delle procedure di assegnazione dei beni e affidamento dei servizi,
3. una diffusa difficoltà di accesso alle informazioni, 4. l’assenza di strategie comuni
5. la dispersione delle risorse, umane ed economiche.
Occuparsi dei beni confiscati, dunque, rappresenta una sfida appas- sionante e necessaria.
3. Il contesto: i beni confiscati nell’evoluzione dei beni comuni
In tale contesto, il progetto Dopo le mafie si è naturalmente interro- gato sulla effettiva possibilità concettuale e giuridica, di assimilare i beni
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confiscati alla criminalità a quelli che, ormai per consuetudine, definiamo beni comuni.
La ricerca e il confronto con partner ed esperti hanno consentito di dare alla domanda una risposta positiva. Innanzitutto, sul piano culturale, rispetto al quale i due concetti presentano indubbie affinità.
Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Si- mone Weil scrive:
un bisogno … importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo Stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di forni- re la soddisfazione di questo bisogno. … Il criterio vero, per la proprietà, è che essa sia tanto legittima quanto reale. O, più esattamente: le leggi sulla proprie- tà sono tanto migliori quanto meglio sfruttano le possibilità contenute nei beni di questo mondo di soddisfare il bisogno di proprietà comune a tutti gli uomini. Quindi le attuali modalità di acquisto e di possesso debbono essere trasformate in nome del principio di proprietà. Ogni specie di possesso che non dia a nessuno la soddisfazione del bisogno di proprietà privata o collettiva può, a buon diritto, considerarsi nulla. Ciò non significa che occorra trasferirla allo Stato, ma piuttosto che occorre tentare di farla diventare una vera proprietà2.
Da allora, le teorie, filosofiche e giuridiche, e le esperienze maturate nell’ambito dei beni comuni si sono moltiplicate e sono state sviluppate, anche in Italia, valorizzando il ruolo tra lo spazio pubblico e lo sviluppo della società.
D’altra parte, come scrive la filosofa Françoise Choay, «è fondamentale comprendere che la facoltà di parlare e la facoltà di costruire sono le due facce della stessa competenza che fa di noi degli umani: cioè la competenza di simbolizzare»3. Poiché dunque l’atto di edificare «possiede la stessa di-
mensione simbolica del linguaggio», gli spazi costruiti – soprattutto quelli
pubblici e comuni – creano e perpetuano simbolicamente la vita che vi
2. S. Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, 1949.
si svolge e hanno la facoltà di «promuovere un sistema di valori giuridici
e morali» duraturo nel tempo.
Centrale, in tale contesto, ci pare la riflessione, ormai decennale, sul diritto alla città come diritto collettivo e sui nuovi diritti di cittadinanza: una città intesa (anche) come insieme di luoghi pensati dagli abitanti, per gli abitanti, e da questi co-progettati e condivisi. Un insieme di beni co-
muni, appunto, nell’accezione più moderna del termine, che non può non
includere anche i beni confiscati alla criminalità: questi ultimi, anzi, ben potrebbero e dovrebbero essere considerati beni comuni per eccellenza, poiché non costituiscono solo un’eccezionale opportunità di condivisione e riqualificazione di spazi restituiti alla comunità, ma rappresentano un impegno concreto e altamente simbolico per il riscatto di una comunità e il riaffermarsi della legalità.
Come ha scritto David Harvey, «Il diritto alla città, è molto di più di
un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane: è un diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Il diritto alla città è la libertà di costruire e ricostruire le nostre città e noi stessi, è uno dei più preziosi tra i diritti umani e nondimeno è anche uno dei più negletti»4.
I beni confiscati, tanto quanto altre categorie di beni comuni, con- tribuiscono a restituire valore sociale alla città, consentendo di usare lo spazio in maniera libera e condivisa, attraverso attività, incontri, feste (la partecipazione alla vita urbana), per soddisfare i bisogni delle persone, bisogni “sociali” e “antropologici”, “opposti” e “complementari”: di intimità e di apertura, di incontro e di solitudine, di sicurezza e di avventura5.
4. Segue - Il contesto: i beni comuni e i beni confiscati di fronte alle sfide
ambientali
L’importanza dei beni confiscati, nell’ottica dei beni comuni, può es- sere apprezzata anche sotto un altro, importante, profilo: investire sulla riqualificazione e sul riuso dei beni confiscati consente, infatti, anche di contenere il consumo di suolo e meglio tutelare l’ambiente.
In tempi complessi come quelli in cui viviamo, di fronte a sfide sempre più cruciali connesse al consumo di risorse esauribili e a rischi sempre più gravi per la salute del nostro territorio, l’impegno e la creatività dei
4. D. Harvey, Città ribelli, 2015.
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cittadini in tema di beni comuni e confiscati, possono infatti costituire una risposta decisiva anche sotto questo profilo.
È noto che siamo oggi in presenza di due grandi squilibri: quello ambientale e quello economico-finanziario.
In relazione al primo aspetto, i dati ufficiali raccontano che, tra il 2016 e il 2017, le nuove coperture artificiali hanno riguardato circa 5.200 ettari di territorio, ovvero in media poco più di 14 ettari al giorno: circa 2 m2 di
suolo sono stati persi irreversibilmente ogni secondo. Dopo aver toccato anche gli 8 m2 al secondo degli anni 2000, si è registrato un rallentamento
nel periodo 2008-2013 (tra i 6 e i 7 m2 al secondo), il consumo di suolo si è consolidato negli ultimi tre anni ma resta a livelli di grande attenzione.
Il quadro diventa ancor più delicato, critico e complesso se questi dati si mettono in connessione con quelli relativi al dissesto idrogeologico : i recenti fatti di cronaca (e, purtroppo, non solo quelli) relativi agli even- ti calamitosi causati dalle precipitazioni atmosferiche in molte aree del paese e le pesanti conseguenze sul piano ambientale, testimoniano scelte poco oculate nell’uso del suolo e raccontano di un territorio violentato, ponendo con forza l’assoluta attualità e centralità del tema del governo e del consumo del territorio e imponendo un ripensamento delle politiche in materia.
Analogamente, occorre tenere a mente l’importanza del suolo ai fini dell’assorbimento di CO2: 1 ettaro di suolo permeabile trattiene, infatti,
più di 250.000 kg of CO2 eq.
Secondo molti osservatori6, la crisi ambientale e quella economico-
finanziaria sono, peraltro, connesse e derivano entrambe da una distorta interpretazione delle leggi degli uomini: il diritto collettivo al territorio e la funzione del credito.
La situazione è oggetto di dibattiti, proposte, elaborazioni scientifi- che, stimolati anche da alcune leggi regionali di terza generazione e dalle sempre più pressanti sollecitazioni comunitarie. Da anni. Spesso senza una reale incidenza sulla realtà.
Fanno eccezione proprio le realtà locali, in cui si è effettivamente diffusa e radicata l’idea che il territorio in cui viviamo costituisce un bene comune, una risorsa finita e non rinnovabile che abbiamo in uso e non in proprietà, da gestire partendo dalle persone e attraverso la collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, non più semplici utenti ma parte attiva della città.
L’idea che sottende queste iniziative è quella secondo cui «il bene co-
mune non è a consumo rivale, presenta una struttura di consumo relazionale che ne accresce il valore attraverso un uso qualitativamente responsabile (e pertanto ecologico)»7.
Queste esperienze, invero sempre più frequenti, di pianificazione territoriale bottom-up e governo condiviso del territorio hanno liberato energie positive e creatività, contribuendo a individuare soluzioni creative, innovative e concrete anche a problemi sistemici e complessi come quello del consumo di suolo.
Risultati particolarmente significativi, in un Paese in cui all’edilizia è stato da sempre assegnato il doppio ruolo di ammortizzatore sociale e di volano dell’economia. E ancor più interessanti se si considera che, effettivamente, rispetto al consumo di suolo, la pianificazione urbanisti- ca rappresenta la causa del problema ma anche il principale strumento utilizzabile per farvi fronte. Non è sufficiente, infatti, che il suolo sia tu- telato per legge e attraverso meri divieti: deve essere al centro di progetti, programmi e idee, innanzitutto di tipo culturale, che ne permettano una reale valorizzazione, non solo economica.
Progressivamente, dunque, alla categoria dei beni comuni si è comin- ciato a guardare con sempre maggior interesse anche nel dibattito giuridico italiano: si pensi, tra l’altro, alla decisiva presa di posizione dalla Corte di Cassazione a sezioni unite8 che, in chiave attualizzante rispetto ai valori
costituzionali, ha affermato che devono ritenersi comuni, prescindendo dal titolo di proprietà, quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o fina- lizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività ed alla realizzazione dello Stato sociale.
Anche in questo senso, i beni confiscati ben possono essere oggetto di, analoghe, stimolanti, esperienze.
7. U. Mattei, Beni comuni. Un Manifesto, Editori Laterza, Bari-Roma, 2011, 78. 8. Cass, civ., ss.uu., 14 febbraio 2011, n. 3665, (seguita da Cass. civ., ss.uu., 16 febbraio 2011, n. 3811) in Foro it., 2012, I, 564 , con nota di E. Pellecchia, Valori costituzionali
e nuova tassonomia dei beni: dal pubblico al comune, e in Giust. civ., 2011, 2844, con nota
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5. I contenuti e gli obiettivi del progetto
A fronte di tali bisogni e difficoltà, il progetto Dopo le mafie ha pro- vato a rilanciare un impegno, culturale, ambientale, civile e politico per intervenire sui beni confiscati in cinque direzioni:
1) Diffondere la conoscenza degli strumenti normativi e amministrativi
per la cura dei beni comuni e confiscati e implementare modelli operativi efficaci e replicabili.
Per poter affrontare, serenamente ed efficacemente, la decisione di acquisire un bene confiscato alla criminalità e di provvedere alla relativa gestione, è essenziale, innanzitutto, che tutti i protagonisti siano consa- pevoli delle responsabilità e delle opportunità connesse alla gestione di un bene di tale genere. È necessario dunque, da un lato, che i Comuni si assumano la responsabilità di raccogliere una sfida, di carattere culturale e civico, per la valorizzazione del patrimonio comune, la diminuzione del consumo di suolo e la lotta alla criminalità; dall’altro, che le Istituzioni e tutti gli attori, professionisti e rappresentanti della società civile, a vario titolo coinvolti, lavorino in modo costante con gli E.L., li affianchino e li valorizzino. Lo sviluppo duraturo e inclusivo di un territorio presup- pone, necessariamente, un intervento trasversale e multidisciplinare.
Questo percorso implica, innanzitutto, la conoscenza della normativa di settore e degli strumenti che essa offre l’individuazione degli attori coinvolti, delle competenze necessarie, e delle autorità competenti, la con- tezza delle esperienze positive già esistenti e, soprattutto, la capacità di armonizzare e coordinare gli strumenti e le competenze necessarie, anche al fine di integrare in modo proficuo e continuativo i soggetti coinvolti.
Il percorso avviato ha dunque offerto ai Comuni coinvolti, ai dirigenti e ai funzionari interessati, assistenza e formazione tecnico-legale oltre che gestionale, teorica e pratica, volta alla valorizzazione e alla interazione delle competenze esistenti, alla creazione di nuove competenze professionali e all’individuazione degli strumenti amministrativi e delle modalità più efficaci per realizzare una corretta, partecipata ed efficace assegnazione e gestione dei beni confiscati.
2) Favorire un riutilizzo del bene confiscato, duraturo, efficiente e
sostenibile.
Le criticità più evidenti e più note, nell’ambito dei procedimenti