Ben poco si sa, con non poca frustrazione, dell’erede designato da Everardo per essere suo successore nella carica di funzionario carolingio nel difficile territorio della marca friulana. Le uniche notizie su Unroch che ci sono pervenute derivano in gran parte dall’atto testamentario redatto a Musestre in cui compare come principale beneficiario dell’eredità pubblica del padre, e da un’unica citazione nel Chronicon di Andrea da Bergamo, da cui si apprende dell’avvenuta successione a Everardo nella carica comitale, dal momento che, nell’anno 871, figura come partecipante alla spedizione nel Mezzogiorno.[54] Tale dato cronologico si affianca all’attestazione nel Cartolario di Cysoing del luglio 874, dove compare in una donazione della madre Gisla all’abbazia familiare per la memoria del padre Everardo[55]; tale data si pone, pertanto, come terminus post quem per poter ipotizzare la scomparsa di Unroch e di conseguenza il fallimento del progetto, che traspare dal testamento, focalizzato sul primogenito maschio e che viene a riversarsi sul fratello di quest’ultimo, Berengario. A tale data può essere affiancata la prima notizia che ci è pervenuta di Berengario come conte; si tratta di una lettera indirizzata dal papa Giovanni VIII e risalente all’878; in tale arco cronologico deve, dunque, essere ipotizzata la morte di Unroch e la successiva assunzione della carica da parte di Berengario. Anche le testimonianze relative alla prima fase della carriera di Berengario sono alquanto risicate e si compongono unicamente di cinque lettere contenute nel corpus epistolare di papa Giovanni VIII, della narrazione contenuta nella cronaca di Andrea da Bergamo, dei pochi diplomi di Carlo il Grosso in cui Berengario figura all’interno dell’entourage del sovrano come conte e marchese e della produzione annalistica relativa a tale arco cronologico. La penuria di dati sul periodo in questione rende, pertanto, ancora più preziose le poche fonti che possono permetterci di fare luce sugli esordi di Berengario come erede di suo padre e di suo fratello.
1. Ludovico II e la spedizione nel Mezzogiorno
Per potersi avvicinare a comprendere il contesto in cui Berengario si trova ad assumere il ruolo di marchese del Friuli come successore di Unroch è utile, innanzitutto, ripercorrere le vicende politiche che animavano il regno d’Italia nel periodo precedente all’incoronazione di Berengario come re d’Italia nell’888. Quando Ludovico II, tra l’865 e l’866, convocò l’esercito per una spedizione in Italia meridionale, ufficialmente stava rispondendo alla richiesta di aiuto dei principi del Mezzogiorno contro i Saraceni saldamente presenti a Bari, un’azione promossa congiuntamente al «desiderio di stabilizzare la sua autorità nel Beneventano»[56]. I quattro anni successivi videro il sovrano interamente occupato dalla questione saracena, che per essere risolta necessitava di un’imposizione di Ludovico II sui principi meridionali. Fu così che all’inizio dell’estate prese Capua con la forza e si insediò per alcuni mesi, mentre, dopo un soggiorno a Salerno, Amalfi e Napoli, i mesi invernali videro la corte soggiornare a Benevento da dove iniziarono le operazioni militari su Bari finalizzati a interrompere i legami tra la città e gli altri avamposti saraceni nell’Italia meridionale. L’accerchiamento di Bari non si rivelò, tuttavia, sufficiente e a partire dall’autunno 867 prese il sopravvento l’azione diplomatica supportata da Bisanzio che permise di prendere Bari tra il 2 e il 3 febbraio 871 grazie alla flotta bizantina. Già nell’agosto 871, tuttavia, i Beneventani guidati dal principe Adelchi si rivoltarono contro Ludovico II, una rivolta che tra le varie ipotesi che sono state avanzate a riguardo vede «la prolungata presenza della corte imperiale e delle truppe franche a Benevento; i rancori suscitati
per il crescente ruolo assunto da Angelberga, che dall’866 si fregiava del titolo di consors imperii, a scapito dei grandi; le manovre bizantine compiute sottobanco, senza tralasciare quelle dell’emiro Swadan ancora prigioniero (il Rhytmus de captivitate Ludovici imperatoris giunge a rappresentare l’emiro alla guida di un processo contro Ludovico II, parodiando in tal modo la Passione di Cristo)»[57]. L’imperatore fu rinchiuso assieme alla moglie Angelberga per un mese e liberata solo dopo aver promesso di non vendicarsi e di non ricomparire più con l’esercito nel territorio di Benevento. Tale azione contro l’imperatore non ebbe, tuttavia, conseguenze politiche nel regnum, andando in tal modo a mostrare «la solidità dell’opera compiuta da Ludovico II nel corso dei decenni precedenti»[58], tuttavia corse la voce che l’imperatore fosse morto, e alla notizia Carlo il Calvo di diresse subito verso il Mezzogiorno per tornare indietro appena ricevuta la smentita, mentre Ludovico il Germanico inviò suo figlio Carlomanno verso le Alpi per tagliare la strada a Carlo il Calvo. Tali azioni, evidenziano la fragilità della situazione di Ludovico II, che si trovava da un lato a dover cancellare l’umiliazione che gli era stata inflitta con la prigionia e dall’altro a ristabilire la propria legittimità a livello internazionale dovendo al contempo pensare al futuro del regnum che, in mancanza di eredi, era oggetto degli appetiti di altri sovrani. Tornato in libertà, Ludovico II mosse in direzione di Spoleto inseguendo il duca Lamberto coinvolto nella congiura nei suoi confronti, pregando nel frattempo il papa di scioglierlo dal giuramento estortogli da Adelchi. L’imperatore e il papa si incontrarono a Roma dove Ludovico II ricevette la corona imperiale da Adriano II (18 maggio 872), in una cerimonia che si proponeva di riconfermare l’autorità del sovrano e cancellarne l’umiliazione subita con la recente deposizione. Gli ultimi anni di vita dell’imperatore furono segnati dal tentativo di affermarsi nel beneventano e di vendicarsi di Lamberto e di Adelchi, non riuscendo però nel suo scopo sollecitò il nuovo papa Giovanni VIII (872-882) affinché giungesse in Campania per favorire la riconciliazione con il principe Adelchi, senza tuttavia arrivare a un risultato. Ludovico II rinunciò dunque ai suoi propositi e nell’autunno 873, dopo un’assenza durata sette anni, decise di fare ritorno nell’Italia settentrionale (primavera 874). In quella stessa primavera avvenne l’incontro a Verona, alla presenza di Giovanni VIII, tra Ludovico II e Ludovico il Germanico con lo scopo di ottenere dal papa l’assenso alla cosiddetta “scelta orientale” compiuta da Ludovico II in merito alla successione al trono del regnum, mentre Angelberga fu posta dai due sovrani sotto la protezione di Giovanni VIII. Poco prima di morire l’imperatore fece in tempo di disporre del regno in favore di Carlomanno e il 12 agosto 875 spirò lasciando aperta la partita per la corona d’Italia.
È in occasione della spedizione beneventana che compare, tra i principi inviati da Ludovico II e ricordati da Andrea da Bergamo, lo stesso Unroch, che da tale fonte apprendiamo essere succeduto al padre nella carica comitale:
«Nunciatum id est domno imperatori, quoniam statim mittens principibus suis, id est Hunroch, Agefrid et Boso, cum electa manus Francorum et Langobardorum vel ceterorum nationes. Iugentes se loco [ad Sancto Martino, ad strada scilicae prope Capua Culturno] acies hinc et inde utraque partis forti intenciones pugnantes, Dei adiuvante misericordia Sarracini devicti et debellati sunt in multitudo innumerabiles; quia quod gladius non interemit, in fluvio Vulturno negati sunt, reliqui fuga vis evaderunt. Sic Dei iudicio conplacuit; qui venerant exaltati, facti sunt humilitati.»[59]
Lo vediamo, infatti, partecipare alla spedizione organizzata da Ludovico II alla volta dei ducati meridionali, tra i principi che guidarono l’esercito contro i Saraceni, e autore, assieme ad Agefrido e Bosone, della vittoria ottenuta a nei pressi di Capua (871). Trattandosi dell’unica testimonianza riguardo al primogenito di Everardo come ufficiale pubblico, essa ci fornisce,
pertanto, un terminus ante quem per collocare la morte di Everardo di cui non ci è dato sapere nulla. Di Unroch si sa unicamente che era sposato con una donna di nome Ava, la quale compare, nel recto del folium 8 del Liber vitae di Santa Giulia, accanto al marito nell’elenco degli appartenenti al gruppo parentale degli Unrochingi.[60] La coppia aveva avuto solo una figlia, come apprendiamo dalla notizia di un suo rapimento dal monastero bresciano di Santa Giulia,[61] e probabilmente per tale ragione, al momento della scomparsa di Unroch, la carica comitale passa nelle mani di suo fratello Berengario, senza tuttavia che vi sia notizia di un esplicito incarico da parte imperiale.
2. Le Epistolae di papa Giovanni VIII (878-879)
La scomparsa dell’erede designato da Everardo alla carica marchionale, porta, come si è visto, Berengario ad assumere un ruolo che, come si evince dal testamento di Everardo e Gisla, non era stato pensato per lui. Le terre che gli erano state assegnate gravitavano attorno all’area di Cysoing e l’insieme di beni materiali e librari che il testamento gli affidava porta a ritenere che le prospettive di carriera futura per Berengario sarebbero state quelle di un guerriero ma non certo quelle di erede suo padre in terra italiana. Tale ruolo, tuttavia, rimasto vacante per la morte di Unroch, passò nelle mani di Berengario che si trovò a ricoprire la carica di ufficiale carolingio nella marca friulana. Fa così il suo ingresso, nella scena politica dell’epoca, Berengario, iniziando una carriera che lo porterà a rivestire il ruolo di re prima e di imperatore poi, nella competizione sfrenata che tra la fine del secolo IX e l’inizio del X animò e insanguinò l’Italia settentrionale.
Una testimonianza fondamentale per poter seguire i primi passi di Berengario come ufficiale pubblico, erede di suo fratello Unroch come conte del comitatus di Treviso e marchese del Friuli, ci viene consegnata dalle lettere di papa Giovanni VIII, figura che si inserisce nella scena come successore di due pontefici di grande rilievo nel panorama del secolo IX, Nicolò I e Adriano II. Tre pontefici che elaborano nelle loro lettere un’ideologia del potere papale con una coscienza molto forte del primato romano, inteso non solo come vertice della cristianità ma anche come attore di primo piano nell’ambito dei diversi esponenti della dinastia carolingia; quindi come giudici e arbitri nelle contese degli esponenti della dinastia che si contendono i titoli regi e quello imperiale.
Nel vasto corpus epistolare di Giovanni VIII (872-882), che ci informa tra l’altro dei molti rapporti con i Bulgari e con i Moravi[62], le nuove formazioni politiche che iniziavano ad affacciarsi ai confini dell’impero carolingio, sono contenute cinque lettere indirizzate a Berengario in un periodo che si concentra tra l’aprile 878 e l’ottobre 879. Tali testi sono di particolare interesse per tracciare, secondo la prospettiva del papa, la figura del successore di Unroch e comprendere il contesto in cui tale figura si inserisce. Sono, infatti, gli anni in cui Giovanni VIII si trova ad affrontare una fase di profonda crisi del suo pontificato: riuscito a far eleggere Carlo il Calvo tenterà per tutta la vita di favorire e sostenere il ramo occidentale dei Carolingi; tuttavia nell’879 la situazione precipita con la morte di Carlo il Calvo, e i Guidonidi approfittano della situazione per compiere incursioni nei territori del pontefice. La situazione si rivelava paradossale, dal momento che uno dei due principali vessatori del papa, Lamberto di Spoleto, era stato nominato dallo stesso Carlo il Calvo “difensore” dei territori pontifici. Alla morte dell’imperatore durante il suo ritorno dall’Italia, Lamberto e Adalberto di Tuscia, infatti,
colgono al balzo l’occasione per occupare Roma e imprigionare Giovanni VIII obbligandolo a giurare fedeltà all’esponente dei Franchi Orientali, Carlomanno.[63]
Tra le numerose lettere, ben trecento-settantasei di cui trecento-quattordici conservate da un unico manoscritto copiato a Montecassino nel secolo XI, altre sessantadue sono confluite nelle collezioni canoniche e sono parte di una tradizione relativa ai primi cinque anni del pontificato. Direttamente connessa a una tale anomala conservazione è la traumatica situazione in cui vengono a collocarsi i primi anni di regno di Giovanni VIII, animati da un grave conflitto del pontefice con l’aristocrazia romana e che degenerò attorno all’876 con la scomunica di gran parte degli aristocratici tra cui il vescovo Formoso. Quest’ultimo sarebbe riuscito in seguito a rientrare a Roma, eletto al soglio pontificio, e con lui sarebbero rientrati gli aristocratici scomunicati che avrebbero assunto posizioni importanti nella scena politica romana. La curiosa frattura che si riscontra nella trasmissione dell’epistolario in coincidenza con tale anno può essere compresa ipotizzando, dunque, l’esigenza da parte del pontefice di censurare le lettere che contenevano le scomuniche per tutta una serie di figure che domineranno alla morte di Giovanni VIII.
In una situazione, dunque, di grande difficoltà per il papa ecco che emerge la necessità di creare nuove reti di relazioni e gli strumenti principali per adempiere tale scopo sono le lettere attraverso le quali Giovanni VIII seleziona nuovi destinatari, sonda la loro lealtà, instilla messaggi, tenta insomma di conquistare l’interlocutore alla sua causa in un meccanismo di scambio di favori. Non da ultimo, Giovanni VIII sfrutta l’occasione per mostrare ai Carolingi che gode di potenzialità molto più ampie rispetto a loro, dal momento che può liberamente selezionare interlocutori senza bisogno di ricorrere all’intercessione dell’autorità regia, troppo distante per essere efficace al momento del bisogno, e a ciò si somma la disponibilità del papato di disporre di partigiani pronti ad accorrere in suo soccorso.[64]
La lettera con cui Giovanni VIII inaugura il suo rapporto epistolare con Berengario porta la data del 1 aprile 878, ed è vergata in un momento drammatico per il pontefice rinchiuso a Roma nei suoi palazzi, prigioniero di Lamberto di Spoleto, e rientra nel novero delle missive inviate ad autorità quali l’imperatore bizantino Basilio I (867-886) e i metropoliti di Milano, Ravenna e Aquileia. Era da poco morto Carlo il Calvo (ottobre 877), zio di Berengario, quando Giovanni VIII decide di rivolgersi al conte per chiedere aiuto contro Lamberto membro della partigianeria di Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico, del quale pure Berengario è alleato. Per ingraziarsi l’interlocutore ricorda le gesta che hanno reso il padre Everardo degno del rispetto della Sede Apostolica, come uno dei protagonisti della difesa del soglio pontificio contro gli infedeli al tempo di Lotario I.[65]
«DILECTO FILIO BERENGARIO GLORIOSO COMITI REGIA PROSAPIA ORTO Lectis nobilitatis vestrae litteris, quia sinceritatem ac devotionem more scilicet parentum vestrorum circa nos pro amore Iesu Christi domini et beati Petri apostolorum principis reverentiavos habere ingentem repperimus, multa vestrae mellifluae loquutionis dulcedine sumus omnino repleti, ita ut cum psalmista dicere possimus: “Quam dulcia faucibus meis eloquia tua”. Huius namque bonitatis decus eximium ex moribus piae memoriae nobilissimi quondam genitoris vestri vos trahere indubitanter cognoscimus, qui dignum semper honorem et piam reverentiam antecessoribus nostris, sacris videlicet pontificibus, exhibere tota mentis alacritate studebat, et ideo pulchre iuventutis vestrae florem de radice iusta prodeuntem Dominus exercituum pietatis suae gratia custodiet incolumem facietque prospere vigere in omnibus et ad prosperum usque finem perducet. Quapropter, fili carissime, saepe voluimus vestrae scribere dilectioni, non solum nostram vobis salutem innotescendo, sed et de vestra
prosperitate atque incolumitate audire cupiendo, sed non solum paganorum crebris ubique incursionibus, verum etiam Christianorum insidiis circumdati nequivimus. At nunc, quoniam Deo diponente tempus evenit oportunum, excellentiae vestrae, quae et qualia sumus nos cum tota ecclesia et civitate Romana perpessi a Lamperto comite, veluti filio carissimo et fideli amico referimus […….] Et ideo nos adiuvare, sicut supra dictum est, procurate: nam nos ea, quae vestrae fuerint placita voluntati, libentissime perficere studebimus, eo quod vos loco amantissimi filii quamdiu vixerimus retinere nostraeque ecclesiae causas necessarias per vos perficere optamus. Praeterea homines vestros, qui orationis causa pro suis delictis Dominum misericordem precaturi venere ad limina sancti Petri, pro vestro ingenti amore benigne recepimus, nostrisque apostolicis benedictionibus confirmavimus, ac per eos nostrae incolumitatis salutem, sicut petistis, cognitam fieri decrevimus; et petimus ut cito nos vestris litteris laetificari non praetermittatis. Deus omnipotens gloriam vestram longa per tempora illibatam custodiat, charissime fili.»[66]
Il tono di tale missiva, appare alquanto imbarazzato, dal momento che Giovanni VIII non ha mai scritto prima a Berengario, il quale per primo aveva preso l’iniziativa di scrivere al pontefice per raccomandare alcuni suoi uomini che si erano recati in pellegrinaggio a Roma. Il papa si premura, dunque, di annunciare a Berengario di aver confermato tali uomini, giunti per una supplica ad limina Sancti Petri, attraverso l’apostolica benedizione; da notare come si scelga nella lettera di utilizzare il termine tecnico confirmare che indica propriamente l’imposizione delle mani, “sigillo” del papa, con cui i peccatori tornano ad essere perfetti cristiani rafforzati nella fede dal momento che i loro delitti sono stati cancellati. Berengario viene definito gloriosum comitem e nobilissimum virum dilectumque filium e di lui il pontefice rimarca la giovane età (pulchre iuventutis vestrae florem), assieme alla sua discendenza da una radice iusta rappresentata dai suoi genitori che hanno sempre portato devoto rispetto e degno onore ai pontefici precedenti. Un ultimo elemento, che permette di comprendere il motivo per cui Giovanni VIII non si sia rivolto in precedenza a Berengario e che lascia trapelare una sorta di imbarazzo nello scrivergli, è rintracciabile nella giustificazione avanzata dal papa a riguardo: «saepe voluimus vestrae scribere dilectioni, non solum nostram vobis salutem innotescendo, sed et de vestra prosperitate atque incolumitate audire cupiendo, sed non solum paganorum crebris ubique incursionibus, verum etiam Christianorum insidiis circumdati nequivimus»[67]. La causa che avrebbe ostacolato il papa sarebbe, dunque, stata rappresentata dalle incursioni non solo dei pagani, ma anche degli stessi Cristiani che insidiavano le sue terre, e che erano stati il motivo che lo avevano spinto a chiedere aiuto a Berengario.
Verso la fine dell’878 Giovanni VIII indirizza un’altra lettera a Berengario, in cui la discesa in Italia di Bosone, genero di Angelberga, viene presentata in termini tranquillizzanti, sottolineando che costui sarebbe giunto accompagnato solo da una scorta per il tragitto «ut nos auxiliante Deo salvos sine impedimento Lamberti maledicti et a sancta Dei ecclesia anathematizati in urbem Romam mitteret»[68] , mentre i particolari del progetto erano probabilmente rinviati all’incontro con Berengario a Pavia.
«DILECTO FILIO BERENGARIO ILLUSTRI COMITI
Relatu nonnullorum audivimus, maxime huius Uuidonis comitis, nostri consiliarii, ut vestra devotio, quam erga nos nostramque ecclesiam, vestram videlicet matrem, semper habueras, magis magisque adoleat, in quo gratias agimus et, ut perficias, hortamur. Ecce enim audiatis, pro quibus in Galliae partibus synodum celebravimus et Hludouicum regem gloriosum affati fuimus, qui nobis hunc Bosonem principem, virum consultissimum sibique ex omni parte coniunctum, dedit, ut nos auxiliante Deo
salvos sine impedimento Lamberti maledicti et a sancta Dei ecclesia anathemizati in urbem Romam mitteret, cum quo nos pacifice pro certo venimus. Ceterum monentes mittimus et rogantes hortamur, relictis aliis omnibus curis ad nos praesentaliter venire satagas. Quoniam, scit Deus, non ob aliud vos alloqui cupimus, nisi ut sanctarum Dei ecclesiarum statum et quietem rei publice cum vestro honore una vobiscum tractemus.»[69]
A tale incontro, tuttavia, Berengario non si presentò e Giovanni VIII decise quindi di inviargli una nuova missiva (dicembre 878) ripetendogli insistentemente l’invito arrivando a minacciare, in chiusura, la possibilità di sanzioni canoniche.
«DILECTO FILIO BERENGARIO GLORIOSO COMITI SEU OMNIBUS OPTIMATIBUS LANGOBARDORUM REGNI, SANCTAE DEI ECCLESIAE FIDELIBUS
Quanta et qualia Romana ecclesia, vestra videlicet mater, hactenus ab implissimis Christianis passa est, et nostris litteris significantibus et rumore populi narrante iam audistis et, ut certius sciatis, iterum significamus. Ecce enim pro quibus et pro omnium vestrum salute animae nostrae non parcente siam, quia per terram pro praedictis persecutoribua ad vos viciniores, ut res expetierat, venire nequimus, marinum iter accepimus et in Franciam ivimus querentes tranquillitatem atque auxilium, ubi nostri antecessores quaesiere pontifices. Misimus enim omnibus regibus, id est Hludouuico, domni Karoli imperatoris filio, et Karlomanno et Hludouuico et