Fra la fine del dicembre 887 e l’inizio del febbraio 888 Berengario ricevette la corona d’Italia a Pavia, precedendo di un anno l’incoronazione del suo rivale Guido di Spoleto, il quale, dopo aver tentato senza successo di regnare in Francia e Borgogna, tornò in Italia alla fine dell’888. Scontratosi una prima volta con Guido nei pressi di Brescia in una battaglia di esito incerto, fu tuttavia sconfitto dal suo rivale nella battaglia combattuta sul fiume Trebbia (febbraio 889), aprendo così un periodo dominato dalla rivalità tra i due marchesi, e che sarebbe cessata solo con la morte di Guido e poi di suo figlio Lamberto, senza tuttavia esaurire gli antagonismi nei confronti di Berengario. La prima fase del suo regno iniziò, dunque, in modo tumultuoso, segnata dalla violenta competizione con i vari avversari alla quale viene ad affiancarsi la gestione dello spinoso problema ungarico; una situazione che si sarebbe stabilizzata solo a partire dal 905 aprendo a Berengario la strada per la tanto agognata corona imperiale. Oltre a tutto ciò, in tale periodo vediamo Verone assurgere a un ruolo di primo piano nel panorama politico del regnum, ponendosi per prestigio quasi al fianco della capitale Pavia.
Nel seguire le vicende che accompagnarono Berengario tra la fine del secolo IX e i primi decenni del X, la fonte primaria è rappresentata dai diplomi emessi dalla sua cancelleria il cui studio ha permesso a Barbara Rosenwein di scorgere un’azione politica basata sul gift.giving, alla base della creazione di un network di alleanze che avrebbe permesso a Berengario di mantenere il potere nel regnum contro i suoi avversari. Si tratta di un approccio storiografico che ha portato un contributo considerevole nel reinterpretare la figura stessa di Berengario e più in generale il periodo successivo alla dissoluzione dell’impero carolingio.
1. A Gift-Giving King?: Barbara Rosenwein e la strategia politica di Berengario
Il lavoro svolto da Barbara Rosenwein ha condotto a importanti risultati, aprendo pionieristicamente la strada alla rivisitazione di un periodo storico, in effetti, poco considerato dalla storiografia e inteso principalmente come momento di passaggio tra due epoche; all’indomani della dissoluzione dell’impero fondato da Carlo Magno, tale periodo, infatti, si è spesso prestato a facili accostamenti con il periodo delle cosiddette “invasioni barbariche”. Al centro del lavoro condotto da Rosenwein sta la concessione delle immunità da parte dell’autorità pubblica che nel periodo in questione assisterebbe a un incremento notevole, e l’intento del suo lavoro è principalmente quello di mostrare le molteplici modalità con cui le immunità erano percepite, negoziate e manipolate nel momento in cui esse venivano concesse o confermate, collocando tali “acts of state” in uno specifico contesto religioso, sociale e politico.
I primi studiosi a occuparsi delle immunità e delle esenzioni furono i diplomatisti. Jean Mabillon (1632-1707) si occupò delle esenzioni nella sua opera De re diplomatica (1681), tuttavia bisogna attendere il secolo XIX per incontrare studi sistematici sulla questione, quando, spinti dal duplice impeto del nazionalismo e della burocratizzazione, gli studiosi hanno iniziato a interessarsi alle immunità (ma non alle esenzioni) al fine di comprendere le pratiche cancelleresche regie e i loro sviluppi. Il padre di tali studi fu Theodor Sickel (1826-1908), che negli anni sessanta del secolo XIX scrisse una serie di articoli sui diplomi regi di Ludovico il Germanico e pubblicò la prima importante ricerca dedicata nello specifico alle immunità alto-medievali; suo principale intento era identificare documenti autentici e classificarli attraverso un criterio cronologico. L’anno 814 diventò il punto di svolta fondamentale per Sickel, dal momento che fino a tale data le immunità erano state solo occasionalmente confrontate con la tuitio, la protezione concessa dal sovrano, mentre dopo l’814 le due furono invece definitivamente unite nella produzione cancelleresca.
Per i re carolingi che succedettero a Ludovico il Pio, le immunità costituivano affari di routine e i diplomi familiari continuavano a essere ancora generalmente distribuiti per confermare diplomi precedenti e quindi per mantenere una tradizione regia che ora volgeva lo sguardo verso un passato mitizzato. In uno dei primi diplomi del suo regno, infatti, Carlo il Calvo (840-877) rinnovò un diploma di Ludovico il Pio per il monastero di Saint-Maur-des-Fossés: nella prima parte rievocava il diploma di Ludovico e l’intenzione di Carlo di rinnovarlo, la seconda parte era invece costituita dalla copia della vecchia immunità. Dal testo traspare un senso di ordine, tradizione e soddisfazione nel mantenere inalterato lo status quo. Tuttavia verso la fine del secolo IX stavano per emergere due importanti questioni: le immunità, infatti, iniziavano a essere ridefinite e in un modo del tutto nuovo venivano associate al papato, con la dichiarazione della Pace di Dio, e con la creazione di distretti e giurisdizioni sacre; inoltre esse venivano incorporate e per certi aspetti soppiantate da nuove modalità di donazione e di divieti all’intromissione regia: licenza di erigere castelli e mura entro cui nessun funzionario regio avesse potuto entrare, e garanzie di districtus o bannus, diritti di giurisdizione legale e fiscale sul territorio. Alcuni dei diplomi del nipote e omonimo di Carlo il Calvo, Carlo il Semplice, si mossero nella medesima direzione e, infatti, nell’898 Carlo cedette alle richieste degli amici dei monaci di Saint-Denis riguardanti la concessione al monastero di un’immunità per il territorio all’interno della fortificazione da poco eretta.
Dopo l’incoronazione di Carlo Magno come rex Langobardorum, nel 774, il regnum Italiae entrò a far parte dell’impero carolingio, e mentre Carlo Magno e i suoi successori furono generalmente “monarchi assenti”, portarono sulla loro scia contingenti di funzionari Franchi. Fu così che, attorno all’834, sotto gli auspici di Ludovico il Pio, un’intera classe dirigente di stranieri e loro sottoposti, iniziò a trasferirsi in Italia per vivere sulle terre confiscate alle chiese, ai magnati Longobardi e al fisco regio longobardo.
Tra le nuove famiglie che si stabilirono e crearono una nuova fortuna in Italia vi erano in Friuli i cosiddetti Unrochingi, diretti antenati di Berengario, i Guidoni nel territorio attorno a Spoleto, dinastia dalla quale emersero Guido e Lamberto, primi rivali di Berengario, e infine i Supponidi che gravitavano nell’area di Parma, famiglia dalla quale proveniva la prima moglie di Berengario, Bertilla.
Alcune di tali famiglie concorsero, come già si è accennato, nel tentativo di conquistare la corona d’Italia, la quale non rappresentava solo un premio ma anche un trampolino di lancio per poter accedere alla ben più prestigiosa carica di imperatore, ed è per questa ragione che esse consolidarono le loro rispettive posizioni nel territorio italiano sfruttando il controllo sulle loro proprietà, i rapporti di amicizia, signoria e matrimonio, e infine un’attenta perpetuazione dei legami e delle tradizioni carolinge.
In tale prospettiva la figura di Suppone II suggerisce l’importanza che i Carolingi continuavano ad avere per i magnati d’Italia, dal momento che, alla morte del re d’Italia Ludovico II, Suppone si schierò a favore della fazione rappresentata da Ludovico il Germanico e dai suoi figli Carlomanno e Carlo il Grosso, mantenendo in tal modo sia gli interessi di sua sorella, vedova di Ludovico II, sia il suo stesso rango “imperiale”.
Anche Guido, il quale non solo tentò di diventare re d’Italia ma vi riuscì (889-895), si richiamò ai Carolingi, pur non godendo di alcun legame con tale dinastia; gli stessi diplomi emanati dalla sua cancelleria paiono palesemente dipendenti nella forma da quelli carolingi. Deposto Carlo il Grosso (887) ed eletto Berengario da una fazione dell’aristocrazia dell’Italia settentrionale (888), Guido cercò di reclamare per sé la corona dei Franchi occidentali. Senza successo, radunò un esercito di sostenitori franchi e costrinse Berengario a ripiegare sui suoi
territori nell’Italia nordorientale. Per diversi aspetti, secondo Barbara Rosenwein, Berengario era un dissidente, come genero di Suppone in virtù del suo matrimonio con Bertilla in un anno imprecisato ma precedente all’888, ereditò il supporto dei figli di quest’ultimo e l’insieme di alleanze che aveva creato con i Franchi orientali. Diversamente da Suppone e da Guido, tuttavia, Berengario ruppe con le sue origini transalpine e coltivò unicamente i legami locali italiani; poteva, inoltre, vantare la sua condizione di sovrano più “carolingio” sia rispetto a Suppone sia rispetto a Guido essendo, come si è visto, un rampollo carolingio per parte di sua madre Gisla, sorella di Carlo il Calvo.
Va tenuto presente il fatto che i nomi costituivano un importante segnale attraverso cui venivano espressi legami e alleanze, pertanto non è certo un caso che Berengario chiamò una delle sue due figlie Gisla, richiamandosi non solo al nome di sua madre ma anche quello di una sorella dell’imperatore Ludovico II.
Tuttavia Berengario era carolingio anche per aspetti che non dipendono dal network parentale, dal momento che, ad esempio, tuttora conservato nella biblioteca della cattedrale di Monza, vi è un Sacramentario che fu utilizzato nella cappella di Berengario e nel quale una mano contemporanea ha aggiunto il nome di Berengario e di sua moglie alle preghiere che seguono l’Exultet da recitare durante la liturgia del Sabato Santo. Da tale aggiunta sarebbe possibile arguire, secondo Rosenwein, che Berengario stava volontariamente e coscientemente imitando Lotario I, poiché nel codice i nomi di Berengario e di sua moglie Bertilla figurano in aggiunta a quello dell’imperatore Lotario.
Anche per quanto riguarda l’immagine di murus ecclesiae, Berengario sembra porsi sulla scia dei suoi predecessori; come è stato dimostrato da Aldo Settia, l’idea stessa di murus ecclesiae, era diventata un’immagine chiave all’interno dell’ideologia carolingia dopo che Lotario I e Ludovico II autorizzarono la costruzione di una cinta muraria a difesa della basilica di San Pietro a Roma, e Berengario con la sua attività fortificatoria veniva a inserirsi, quindi, nel novero dei sovrani costruttori di strutture difensive per la cristianità.
Murus ecclesiae risultava essere, inoltre, non solo la difesa materialmente eretta, ma anche colui che, come Berengario, ne aveva ordinato e predisposto la costruzione: l’espressione compare, infatti, nei Carmina di Sedulio Scoto riferita a Lotario e, come si è visto, a Everardo marchese del Friuli e padre di Berengario.[110] La stessa immagine compare, inoltre, in un componimento di autore anonimo, datato attorno all’anno 900, in cui Cristo viene citato come murus attorno alla chiesa di Modena.[111] Durante il suo regno, Berengario, pur emanando diplomi modellati sui documenti emessi dalle cancellerie dei predecessori carolingi, tuttavia li adattò alle nuove condizioni in cui veniva a trovarsi un re definito da Rosenwein “locale”: concesse e confermò donazioni, immunità, e garanzie di protezione; concesse pedaggi, proventi dei mercati e altre entrate pubbliche; permise agli abitanti di alcune zone di scavare fossati, edificare lungo le strade pubbliche, innalzare mura, e costruire castelli; cedette il districtus, il diritto di punire con le multe e di riscuotere i proventi a esso legati, a determinati beneficiari. L’effetto del reticolo risultante da tali concessioni sarebbe stato, nella prospettiva di Barbara Rosenwein, quello di confondere i confini tra immunità e altre tipologie di donazione.
Rosenwein sottolinea, tuttavia, come Berengario, di fatto, non dispensò così largamente i suoi privilegi, poiché anche se vari individui sono citati nelle sue chartae, essi sarebbero rappresentanti di fazioni intrecciate tra loro. Tre sono i principali gruppi cui è diretta l’attività di negoziazione operata da Berengario: le donne legate a lui per consanguineità o per matrimonio; i suoi cortigiani, specie i suoi uomini a Verona, dove si trovava il suo quartier generale; infine, i suoi nemici, che potevano figurare, a seconda delle contingenze, come suoi amici, concentrati per
lo più a Pavia.
Come re, Berengario avrebbe concepito, come suo dovere primario, la necessità di apparire ciò che Rosenwein chiama “a gift-giving king”, un dispensatore di doni; tale pratica risultava essere uno strumento molto più preciso di negoziazione, utile per riequilibrare le fazioni e creare alleanze con gli ecclesiastici e le personalità di spicco. Si trattava di un sistema che legava tanto il beneficiario quanto il donatore in un rapporto di obblighi reciproci, dal momento che l’istituto del dono comporta il rispetto di precise convenzioni nel donare e nel ricevere, vergogna e disonore nel non effettuarlo, onore nel farlo. In aggiunta a tali aspetti vi erano, inoltre, motivazioni religiose a spingere l’atto della donazione. Va tenuto presente, infatti, come Berengario avesse nella sua biblioteca, ereditata da suo padre Everardo, anche una copia dei Synonima di Isidoro di Siviglia[112], parte dei quali dedicata a un uomo come lui “potente”. Gli uomini di tale schiatta, sostiene Isidoro, erano sovente vittime dell’opulenza, e le loro ricchezze veicolavano il rischio di condurli al pericolo, alla rovina. (divitiae usque ad periculum ducunt, divitiae usque ad exitum pertrahunt, Synonima, bk. 2, PL. 83, col. 865). Il rimedio a tale rischio risiedeva nel fare doni: “condividi con tutti, dona a tutti, offri a tutti” “omnibus communica, omnibus tribue, omnibus praebe” (col. 866).
Berengario, certo, non seguì tali indicazioni alla lettera ma operò per creare uno stretto network di relazioni, utilizzando come doni non solo proprietà e immunità, ma ad esempio anche i diritti di riscossione dei tributi o di navigazione fluviale, mostrando ciò che Giovanni Tabacco chiamò una “concezione allodiale” del potere e della giurisdizione, concepita in connessione a beni materiali e proprietà. Tuttavia, secondo Rosenwein, ridurre la figura di Berengario a tale aspetto significherebbe tralasciare la concezione sostanzialmente religiosa del gift-giving, infatti, in molti suoi diplomi la clementia – gentilezza, grazia e affabilità – viene associata alla clementia di Dio, presentando Berengario come un sovrano caratterizzato da tale virtù, ora elargendo doni, ora attendendosi di essere ricompensato per la sua munifica condotta con la vita eterna.
Il titolo imperiale, comunque, avrebbe obbligato Berengario a rispettare diversi modelli di governo; lo avrebbe indotto, infatti, a prendere sul serio il significato universale dell’imperium, presentando sé stesso in modo diverso, indossando i gioielli e le vesti dell’imperatore bizantino. Infine da tale titolo sarebbe derivata, secondo Barbara Rosenwein, la necessità di assumere un’immagine pubblica distaccata, immobile, “eterna”. La maestà dell’imperatore avrebbe dovuto ancora distribuire doni, ma sarebbe stata indotta a farlo molto meno spesso rispetto al periodo precedente alla nomina imperiale, ed è a tale aspetto che la studiosa collega principalmente le motivazioni che spinsero i suoi uomini a Pavia ad abbandonarlo, segnando in tal modo il corso del suo destino.
L’atto di concedere donazioni e privilegi era supportato da implicite strutture sociali e ideologiche che andavano a disegnare ciò che Barbara Rosenwein chiama le “regole del gioco”, nutrendo le ragionevoli aspettative di tutti i “giocatori” sul perché, come e a chi, i sovrani avrebbero dovuto donare, nonché cosa si sarebbero aspettati di ricevere in cambio. All’interno di tali strutture vi era la consapevolezza, le tradizioni assunte dai sovrani precedenti e talvolta la necessità di imitare o, al contrario, di rivaleggiare, competere con loro in generosità, secondo quel comportamento antropologico studiato da Marcel Mauss nel suo Essai sur le don.
Nell’attività politica di Berengario sarebbe, dunque, individuabile una «radical reification of abstract rights and public duties and their incorporation into an intricate network of gifts»[113]. Ci si troverebbe, insomma, di fronte a un re che poteva concedere il districtus ricorrendo allo stesso vocabolario di magnanimità pari a quella con cui offriva proprietà fondiarie; incorporando
ogni cosa all’interno del linguaggio proprio del gift-giving e interpretando tale pratica come specchio dell’azione divina, e seguendo, infine, i modelli propri dell’ideologia contenuta nell’opera di Isidoro e dei sovrani precedenti, Berengario avrebbe fabbricato i suoi diplomi come monumenti alla sua pietà, auto-disciplina e moderazione. A ragione Rosenwein sottolinea come l’anonimo panegirista dei Gesta Berengarii scelse di indicare, nei primi versi del primo libro del suo poema, le doti che la potenza divina (celsa potestas) ha concesso al sovrano:
«Ergo Berengarium genesi factisque legendum / Rite canam, frenare dedit cui celsa potestas / Italiae populos bello glebaque superbos / Stirpe recenseta – generis quo stemmate pollet, / Scire vacat; nam cuncta nequit mea ferre Thalia.»[114]
Una tale opera di riorganizzazione radicale delle risorse e d’istituzione dei tabù contro la possibilità di accedere in determinate aree per sé stesso e per i propri agenti, se da un lato avrebbe imbrigliato Berengario, dall’altro si sarebbe rivelata una strategia utile per tenere a freno i magnati d’Italia. Come un capo della Polinesia, Berengario avrebbe progettato, pertanto, e in tal modo paradossalmente pubblicizzato, un’immagine del potere immobilizzata.
2. I diplomi, gli intercedenti, i beneficiari e l’itineranza dei re d’Italia tra secolo IX e X
Un altro aspetto che vale la pena sottolineare relativamente all’emanazione dei diplomi, riguarda l’itineranza del sovrano, spesso ritenuta sintomatica della debolezza di Berengario e dell’affannosa ricerca di sostenitori. Tuttavia se si confrontano i diplomi di Berengario con quelli dei suoi predecessori, specie carolingi, si osserverà come gli spostamenti compiuti dal sovrano ricalcano perfettamente quelli compiuti dai precedenti re d’Italia. Inoltre, esaminando l’itineranza di un sovrano che resse per lungo tempo il regnum come Ludovico II, emerge chiaramente che i luoghi da cui vengono emanati i diplomi sono gli stessi da cui li avrebbero successivamente emanati Carlo il Grosso, Guido di Spoleto e suo figlio Lamberto, e infine lo stesso Berengario che viene pertanto a porsi in continuità con la tradizione precedente inaugurata dai Carolingi.[115]
Innanzitutto emerge con evidenza il fatto che Berengario non è certo il primo a inaugurate tale pratica, dal momento che i re d’Italia, specie a partire da Ludovico II, sono soliti spostarsi nel regno; una tendenza che si riscontra già a partire da Lotario I (fig. 1). Nel corpus diplomatico di Lotario, infatti, i venti-nove diplomi emanati in Italia, che rappresentano il 21,01% del totale, sono principalmente redatti a Pavia (44,82%), ma possiamo osservare l’imperatore spostarsi a Mantova, dove emana quattro diplomi (13,79%); a Corteolona, che dista 17 km circa dalla capitale, ne emana tre (10,34%), e lo stesso vale per i diplomi emanati a Corte Auriola, mentre due diplomi sono emanati rispettivamente a Marengo e a Sospiro (6,89%), entrambi situati nel comitato pavese.
Figura 1. Luoghi di emanazione dei diplomi di Lotario I[116]
È, dunque, possibile desumere da tali dati, già un accenno di una pratica itinerante che si sarebbe intensificata con i successori sul trono del regno d’Italia. Dal lungo regno di Ludovico II, infatti, emerge chiaramente come il sovrano si sposti in vari centri, pur prediligendone alcuni, quali la residenza estiva di Corteolona che rappresenta una costante nei diplomi dei carolingi. Anche Berengario che pone l’accento sulla sua ascendenza materna proprio con la scelta dei luoghi in cui soggiornare. A Corteolona, ad esempio, dove si trovava la residenza di caccia prediletta dai sovrani d’Italia, Lotario I emana tre diplomi, Ludovico II ne redige sei e Carlo il Grosso due, e sulla loro scia si collocano Berengario, con quattro diplomi, e Ludovico III che nel suo breve regno in Italia ne emana uno. Interessante è, inoltre, notare come Berengario prediliga le sedi scelte da Ludovico II la cui memoria era ben viva nella mente dei contemporanei, assieme alle località in cui soggiornò Carlo il Grosso, insieme allo stesso Berengario quando come conte e marchese figurava tra i più stretti collaboratori del sovrano in Italia.
Un dato persistente è il soggiorno nella capitale del regnum (fig. 2); un soggiorno che è strettamente connesso con l’ostentazione della legittimità del sovrano. Si nota, infatti, come Pavia sia l’unica città che rappresenta una costante per tutti i sovrani d’Italia, che mirano, emanando diplomi e ricevendo i richiedenti, a sfoggiare la loro autorità come re legittimi in quanto insediati a Pavia.
Figura 2. Percentuali dei diplomi dei re italici emanati a Pavia
L’eccezione è, invece, costituita da Verona che viene scelta unicamente da Berengario come sede della sua regalità, ponendola quasi al pari della capitale Pavia: il 23,57% dei diplomi della cancelleria di Berengario, infatti, è emanato a Verona contro il 27,14% di diplomi datati a Pavia (fig. 3). Tale dato va dunque a suffragare l’ipotesi che Berengario avesse tentato, pur continuando ufficialmente a considerare Pavia capitale del regnum, di elevare Verona al rango di città regia.