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CAPITOLO 3: The Last Man (1826) di Mary Shelley

3.1 Biografia e contesto culturale

Per ragioni di spazio, riporto qui solo quei fatti salienti della vita di Mary Shelley che influenzarono direttamente la stesura dell’opera in analisi.

Mary Wollstonecraft Godwin nacque a Londra, il 30 agosto 1797, dall’unione di William Godwin e Mary Wollstonecraft3, la quale morirà pochi giorni dopo il parto, lasciando la figlia priva dell’apporto materno. L’assenza della madre spinse la ragazza ad affidarsi alla figura paterna, la cui freddezza rese ancora più dolorosa la sua condizione, fatto che troverà un riscontro testuale nel disperato bisogno dei personaggi principali delle sue opere di essere accettati (si pensi ad esempio alla creatura in Frankenstein, o ai sentimenti di attaccamento – che forse nascondono qualcosa in più – che Lionel Verney prova per Adrian e Raymond in The Last Man).

Nell’estate del 1814, Mary fuggì una prima volta dall’Inghilterra con Percy Bysshe Shelley (ancora sposato con Harriet Westbrook, che si sarebbe suicidata

3

Pamela Bickley descrive i genitori della Shelley “pioneering revolutionary thinkers of the English Enlightenment” (“Introduction”, cit., p. IX).

93 due anni dopo) e la sorellastra Claire Clairmont, per fare poi ritorno a Londra sempre nello stesso anno. La coppia, nel 1815, ebbe una prima figlia, che però morì pochi giorni dopo il parto. Nel 1816 Mary, Percy e Claire passarono l’estate in compagnia di Byron e Polidori, in Svizzera, luogo dove fu concepito

Frankenstein; la coppia di innamorati si sarebbe sposata nel dicembre dello

stesso anno, dopo il suicidio della prima moglie del poeta. Nel 1818 la famiglia si trasferì in Italia, cambiando spesso città a causa degli impegni di Percy; a settembre la coppia perse a Venezia un’altra figlia, Clara, e il 7 giugno dell’anno successivo, mentre si trovavano a Roma, morì di tifo (come il figlio di Lionel Verney), dopo tre anni di vita, il primogenito William; di queste morti la scrittrice accuserà il marito e i suoi continui trasferimenti da una città italiana all’altra. Il loro ultimo figlio, Percy Florence, nacque verso la fine del 1819, mentre tre anni dopo la Shelley rischiò la vita a causa di un aborto. Nel luglio di quello stesso anno, Percy Shelley morì assieme all’amico Edward Williams in un naufragio, mentre era diretto a Lerici: “It is a painful thing to me to put forward my own opinion. I have been so long accustomed to have another act for me [...] I would, like a dormouse, roll myself in cotton at the bottom of my cage, & never peep out”4, scrisse la Shelley a Byron il 16 novembre 1822.

Nel 1823, Byron andò in Grecia per sostenere la guerra d’indipendenza di quel paese contro i turchi. A tal proposito, Percy Shelley aveva appoggiato con tale convinzione il Movimento filoellenico da dichiarare a Byron l’intenzione di seguirlo in Grecia (cosa che Adrian effettivamente fa nel romanzo); ciò non impedì tuttavia alla Shelley di essere critica circa le atrocità commesse dai patrioti greci5, ed infatti nel romanzo verrà descritto un tentativo di stupro ad opera di due soldati ellenici, che sarà però sventato dallo stesso Adrian. Nel medesimo periodo della partenza di Byron, la Shelley, ormai vedova, lasciò l’Italia in compagnia dell’unico figlio rimastole, Percy Florence, per tornare in Inghilterra.

4 Crf. Betty T. Bennet (ed.), “A Part of the Elect”, vol. I, in The Letters of Mary Wollstonecraft

Shelley, 3 vols., The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London 1980-1988, p. 288.

5

Gaetano D’Elia, “Introduzione”, in Mary Shelley, L’ultimo uomo, Edizioni Danilo, Napoli 1996, p. XXXI.

94 Molti aspetti biografici si riflettono negli episodi descritti nell’opera: il periodo in cui, nel 1815, Mary e Percy Shelley soggiornarono presso Windsor, la visita in Svizzera del 1816, quella a Venezia nel 1818 (dove si spense Clara); verso la fine del 1818, inoltre, a tre mesi di distanza dalla morte della figlia Clara Everina, la scrittrice e il marito visitarono Napoli. La donna, ricordo, accusava il marito di essere stato la causa indiretta della morte della figlia e, con questo stato d’animo, visitò la grotta della Sibilla6. Nel frattempo, un’epidemia di colera era partita, nel 1817, dal Bengala e si diffuse verso ovest, arrivando in Russia nel 1826 e instillando il terrore negli occidentali, i quali vedevano in essa una minaccia alla stabilità dell’ordine sociale7; Robert Southey, ad esempio, espresse tali preoccupazioni in Colloquies on the Progress and Prospect of Society (1827), timori che vennero seguiti, di fatto, dal diffondersi dell’epidemia in Inghilterra nel 18318 (preceduta, negli anni della stesura di The Last Man, da un’epidemia di tifo e vaiolo scoppiata a Londra). Allarmata per la salute dell’ultimo figlio rimastole, la scrittrice pianse, invece, la morte per un attacco di colera del fratellastro di lei, William Godwin Jr.

Per la descrizione della pestilenza vera e propria, vari possono essere stati gli spunti utilizzati dalla Shelley: durante il suo soggiorno in Italia, sembra che fosse solita leggere le Georgiche9, opera che contiene fra le altre cose la descrizione di una pestilenza. Anche nel terzo libro dell’Eneide10, mentre Enea e i suoi

6

Cfr. Paula R. Feldman and D. Scott-Kilvert (eds.), The Journals of Mary Shelley: 1814-1844, vol. II, Clarendon Press, Oxford 1987, p. 476.

7 Gaetano D’Elia osserva, inoltre, la natura ambivalente del concetto di peste all’epoca: non

solo evento biologico, essa era, per i riformisti come Cobbett, una metafora atta a mostrare come la situazione sociale coeva fosse inaccettabile; per i conservatori e i reazionari era la Rivoluzione, invece, a rivelarsi una pestilenza che rischiava di essere contratta dall’Inghilterra (“Introduzione”, cit., pp. XX-XXI).

8

A. J. Sambrook, “A Romantic Theme: The Last Man”, Forum for Modern Languages Studies, 2, 1966, p. 31.

9

E. W. Sunstein, Mary Shelley: Romance and Reality, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1989, p. 161, cit. in Gaetano D’Elia, “Introduzione”, cit., p. V.

10 I riferimenti all’Eneide sono inevitabili, se si considera che la scrittrice era solita aprire a

caso il classico latino per preconizzare dal primo verso della pagina trovata quale sarebbe stata la sua sorte (Paula R. Feldman and D. Scott-Kilvert (eds.), The Journals of Mary Shelley: 1814-1844, cit., p. 500). Inoltre, il 16 maggio 1814, Percy Shelley regalò alla donna un taccuino su cui scrivere

95 compagni si trovano a Creta, Virgilio parla di una pestilenza e altrettanto fa Lucrezio nel sesto libro del De Rerum Natura. In età più recente, il Decameron di Boccaccio11, A Journal of the Plague Year di Defoe, Arthur Mervyn scritto da Charles Brockden Brown nel 1817 (citati dalla Shelley nelle pagine 206 e 213 del romanzo) e il dramma in versi The City of the Plague (1816) di John Wilson sono opere con cui sicuramente la Shelley familiarizzò in vita12.

La lunga catena di morti che caratterizzò il corso della vita della scrittrice sarà uno degli elementi cardine dell’opera in analisi: la Shelley ne cominciò la stesura nella primavera del 1824, dopo la morte del marito e, a tal proposito, affidò al suo diario le seguenti parole: “The last man! Yes, I may well describe that solitary being’s feelings, feeling myself as the last relic of a beloved race, my companions extinct before me”13; il giorno dopo, ripeterà il concetto, chiedendosi “What do I do here? Why and am I doomed to live on seeing all expire before me?”14. Sempre nel maggio del 1824, nel suo diario, scrisse “Italy – dear Italy – murdress of those I love & of all my happiness”15; in effetti, in Italia, avverranno i decessi più tragici dell’intera opera (Clara, Adrian e il figlio di Lionel, ovvero gli ultimi tre esseri umani viventi oltre al protagonista).

L’argomento che sarà ora trattato concerne invece il background artistico che, circa cinquant’anni prima che Charles Darwin elaborasse le proprie teorie

una traduzione del libro di Virgilio che la donna si era riproposta di fare (Gaetano D’Elia, “Introduzione”, cit., p. V).

11

Citato direttamente dall’autrice nella sua opera (Mary Shelley, The Last Man, cit., p. 213); per i richiami successivi al romanzo, il numero di pagina sarà indicato tra parentesi direttamente a fondo citazione.

12

Parlando più in generale, invece, Lia Guerra individua nelle Metamorfosi di Ovidio l’opera che soggiace a tutto il macrotesto shelleyano; nelle opere della scrittrice, infatti, è sempre possibile indIviduare uno “schema metamorfico di un prima e un poi che è anche quello della sua vita: tutti i suoi personaggi subiscono almeno una metamorfosi determinante che li rende irriconoscibili a se stessi, innanzitutto, e agli altri” (Il mito nell’opera di Mary Shelley, Cooperativa Libraria Universitaria, Pavia 1995, p. 89).

13

Paula R. Feldman and D. Scott-Kilvert (eds.), The Journals of Mary Shelley: 1814-1844, cit., pp. 476-477. La Shelley scrisse questo passo dopo aver saputo, in ritardo di quasi un mese, della morte di Byron.

14

Ivi, p. 478; corsivo mio.

15

96 sull’origine delle specie, vide una fioritura di opere che descrivevano, se non la distruzione del mondo stesso, la fine della razza più evoluta sulla Terra, l’uomo.

Il Preromanticismo inglese, principalmente nelle figure di Young, Blair e Gray, aveva sviluppato il motivo del “piacere” della malinconia, contestualizzato in scenari sepolcrali, cimiteri, tra le rovine, in paesaggi desolati, e aveva coinvolto l’io poetico in riflessioni dai toni nostalgici e filosofeggianti; quando, a tal proposito, Sambrook sottolinea che “from melancholy musing over the tombs of the past and from fearful speculation about ruined cities of the future the pessimists could pass on to imagine the [eschatological or laic] death of the world itself, a universe in ruins”16, è bene notare che tutti quelli appena elencati saranno elementi costitutivi del nucleo essenziale del romanzo di Mary Shelley. Queste immagini catastrofiche saranno descritte, tra gli altri, da Louis-Sébastien Mercier, il quale nei suoi taccuini (pubblicati con il titolo di Mon Bonnet de nuit nel 1784) parla di disastri astronomici, terremoti, città distrutte e di una morte universale17. Sempre Sambrook individua in Jean-Baptiste François Cousin de Grainville l’autore che completerà questo quadro mitico di distruzione totale, inserendovi dei protagonisti e descrivendo le loro reazioni psicologiche ed emotive. Nel 1805 egli infatti pubblicò Le dernier homme, nel quale il narratore, addentratosi in una grotta, incontra uno spirito che gli svela il futuro: l’ultimo uomo e l’ultima donna fertili in un mondo ormai sterile devono decidere se obbedire al comando che Dio ha dato loro – rinunciare alla loro unione e quindi alla possibilità di mettere al mondo una nuova generazione – o se cedere agli impulsi amorosi; in opposizione a quanto successe nel giardino dell’Eden, il comando divino non sarà trasgredito. L’anno successivo il romanzo sarà tradotto anonimamente in inglese con il titolo di The Last Man or Omegarus and Syderia,

a Romance of Futurity e l’opera ricevette qualche consenso, senza però che si

sapesse che era una traduzione, probabilmente apocrifa, di un testo francese. Presumibilmente fu questa traduzione a ispirare a Byron la composizione della poesia Darkness (1816), nella quale l’io lirico descrive un sogno riguardante gli

16

A. J. Sambrook, “A Romantic Theme: The Last Man”, cit., p. 26.

17

97 effetti sulla Terra di un sole ormai estinto. Contrariamente, come vedremo, alla ricezione dell’opera di Mary Shelley, questa poesia sarà ben accolta dal pubblico inglese: la Literary Gazette parlò di “the finest specimen we have hitherto had of his Lordship’s abilities”18. Destinato a scontrarsi con l’accusa di plagio, nel 1823 Thomas Campbell pubblicherà sul New Monthly Magazine la poesia “The Last Man”, il cui protagonista vive in una Terra obnubilata da una serie di sciagure, prima tra tutte l’estinzione del sole. Quindi rivendicò la sua paternità sul tema, affermando, in una lettera pubblicata su The Times il 24 marzo 1825, che

I remember my saying to him [Byron], that I thought the idea of a being witnessing the extinction of his species and of the Creation [...] would make a striking subject for a poem. [...] I abandoned, for a great many years, the idea of fulfilling my sketch. But I was provoked to change my mind, when my friend Barry Cornwall informed me that an acquaintance of his intended to write a long poem, entitled the Last Man. I thought this hard! The conception of the Last Man had been mine fifteen years ago; even Lord Byron had spared the title to me19.

Secondo Sambrook20, l’opera di Campbell fu quella di maggior successo del periodo e dovette la propria notorietà alla sua commistione di nichilismo romantico e pietà evangelica.

A queste poesie, probabilmente, si deve l’ispirazione di John Martin per i suoi dipinti e acqueforti, rappresentanti paesaggi e scene caratterizzati da distruzione e desolazione e che, data la fama dell’artista, influenzeranno a loro volta altri scrittori dell’epoca, tra i quali Mary Shelley. Tra queste opere va menzionata una serie di quadri, tutti intitolati The Last Man, composti nel corso di vari anni e che ricordano molto da vicino i paesaggi descritti dalla Shelley nella sua opera omonima, che a sua volta può aver influenzato la produzione di alcuni dipinti di Martin. 18 Ivi, p. 29. 19 Ivi, pp. 29-30. 20 Ivi, p. 30.

98 John Martin, The Last Man, acquaforte, data imprecisata.

99 John Martin, The Deluge, acquaforte, 1831.

The Deluge, a tal riguardo, pare essere un ottimo esempio; esso è, a mio parere,

la trasposizione visiva di una scena descritta dalla Shelley nella sua opera:

three other suns, alike burning and brilliant, rushed from various quarters of the heavens towards the great orb; [...] The horses broke loose from their stalls in terror – a herd of cattle, panic struck, raced down to the brink of the cliff, and blinded by light, plunged down with frightful yells in the waves below. [...] A few seconds afterwards, a deafening watery sound came up with awful peal [...] When [...] the sea rose to meet it [the sun] – it mounted higher and higher, till the fiery globe was obscured, and the wall of water still ascended the horizon (p. 296).

The Last Man di T. L. Beddoes doveva essere una tragedia in cinque atti da

comporsi tra il 1823 e il 1825; in una lettera datata 1825, Beddoes scrisse:

I will do the Last Man before I die, but it is a subject I save up for a time when I have more knowledge, a freer pencil, a little menschenlehre, a

100 command of harmony, and an accumulation of picturesque ideas and dramatic characters fit for the theme. Meantime let Tom Campbell rule his roast21.

L’opera è rimasta incompiuta e a noi ne sono giunti pochi frammenti, inseriti dall’autore all’interno di Death’s Jest Book (1827); in essi un’eroina pronuncia un discorso nel quale afferma di bramare la morte. Beddoes riprenderà quindi l’idea di scrivere un’opera teatrale, intitolata The Last Man, nel 1837, ma rimarrà, appunto, un proposito22.

Questa proliferazione di componimenti incentrati sull’“ultimo sopravvissuto” vide nel 1826 una sorta di climax. In quell’anno Mary Shelley pubblicò in tre volumi The Last Man, John Martin espose Ideal Design of the Last Man con la Society of British Painters, Thomas Hood dette alle stampe Whims and Oddities, che include la ballata “The Last Man”23 e sul Blackwood’s Edinburgh Magazine comparve “The Last Man”24, scritta da un anonimo “XB”25.

Nel 1829 fu il turno di John Edmund Reade, il quale, nella sua raccolta Cain the

Wanderer: a Vision of Heaven: Darkness and other Poems, incluse la poesia

“Darkness”; infine un altro artista influenzato da Campbell fu P. J. Ouseley, il quale inserì il componimento “Last Man” all’interno di A Vision of Death’s

Destruction (1839) 26.

21 Ivi, pp. 30-31.

22 Cfr. Edmund Gosse (ed.), The Poetical Works of Thomas Lovell Beddoes, 2 vols., J. M. Dent

and Co., London 1890, pp. XXII, XXIV e A. J. Sambrook, “A Romantic Theme: The Last Man”, cit., p. 31.

23 In questa opera un boia e un mendicante sono gli unici sopravvissuti a una pestilenza che

ha sterminato tutto il resto del genere umano. Dopo una loro separazione, il boia ritrova l’altro uomo che si è vestito con i paramenti di un re e perciò decide di impiccarlo dopo un processo- farsa. Rimasto l’ultimo uomo sulla Terra, si pente della sua azione e vorrebbe uccidersi, ma non c’è nessuno che lo possa aiutare con l’impiccagione. Per Sambrook è questa l’opera che mostra “more disquieting symptoms of Romantic mal de siècle than any other of the ‘Last Men’ of the 1820s”. A. J. Sambrook, “A Romantic Theme: The Last Man”, cit., p. 33.

24

Ivi, p. 32.

25

Sebbene questa sia un’opera di narrativa, non è stata inclusa nella lista delle opere post- apocalittiche in appendice in quanto il racconto descrive un sogno nel quale chi dorme si risveglia dopo un sonno durato secoli e si ritrova a essere l’ultimo uomo su una Terra che non ha subito un evento apocalittico: essa è solamente “invecchiata” e decaduta, consumata.

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101 Un possibile fattore che incise su questa proliferazione di opere, che paiono abbandonare l’ottimismo millenaristico soggiacente alle immagini apocalittiche in favore di una produzione focalizzata sulle catastrofi naturali, è individuabile, a mio avviso, nella volontà di questi autori di esternare il loro rammarico per l’affievolirsi di quello spirito utopistico e positivista che aveva caratterizzato la fine del secolo precedente e i primi anni dell’Ottocento, e che sarà invece criticato, con particolare riferimento ai propri genitori e al marito, dalla Shelley stessa (questo argomento sarà trattato più avanti). Nel romanzo, infatti, l’autrice articola le visioni politiche dei genitori e del marito, per poi distaccarsene tramite gli sviluppi della trama: dal pensiero di suo padre, William Godwin, per l’eccessivo utopismo razionalistico27, dall’idealismo del marito, dall’impulsività di Byron e da W. Cobbet e i suoi concetti radicali riguardo al proletariato industriale28. La Shelley risulta dunque, anche da un punto di vista ideologico, una figura solitaria.

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