L’uomo può essere definito come il primate che
emerse in quella determinata fase dell’evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello raggiunse il massimo.
Fromm (1973)
• Ha pertanto bisogno di stabilire dei nuovi legami affettivi con i suoi compagni, senza i quali
soffrirebbe di un forte isolamento e smarrimento.
Ha bisogno di rimettere radici (Fromm 1973).
L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione (Fromm 1956).
• Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G.
Herder e giunge fino a Geertz), sostiene che
l’uomo è un essere biologicamente incompleto.
– Per riferirsi a questa caratteristica dell’uomo, oggi si usa anche il termine neotenia, mutuandolo dalla
biologia, per riferirsi alla minor specializzazione dell’uomo rispetto ad altri animali e alla
conseguente maggior adattabilità ambientale.
• L’azione quasi-meccanica dell’istinto animale nell’uomo si allenta: l’istintualità umana non è autosufficiente, tanto che il piccolo dell’uomo ha bisogno di molte più cure e per molto più tempo di tutti gli altri animali.
– La psicoanalisi di Freud è basata sulla differenza fra la
«pulsione» e l’ «istinto». Quest’ultimo allude a qualcosa di interamente predeterminato; la pulsione, pur avendo un sostrato biologico, è più indeterminata, più plasmabile,
sublimabile ha bisogno di «oggetti» da «investire» (→
investimento oggettuale). Freud la chiama «libido»: la libido evolve e si struttura lungo il percorso di vita. Freud riconobbe l’esistenza di tappe particolarmente importanti lungo tale percorso, tappe che appartengono ai primi anni di vita (fase orale/anale/genitale)
– Erich Fromm distingue le «pulsioni» dalle
«passioni»: infatti, a suo parere, anche gli animali hanno «pulsioni» (fame, protezione, sessualità, attaccamento); le «passioni» sono invece tipicamente umane perché
rappresentano le risposte al dilemma fondamentale della vita umana:
Le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate nei suoi bisogni istintivi, ma nelle specifiche condizioni dell’esistenza umana, nel bisogno di trovare, dopo la perdita della correlazione dello stadio preumano, una nuova correlazione tra l’uomo e la natura (Fromm, 1955)
• La differenza risiede nel fatto che l’animale vive le pulsioni come qualcosa che sono tutt’uno con il suo appartenere all’ordine naturale.
• Invece l’uomo si «stacca» dalla natura: è, sì, ancora parte della natura, ma anche separato:
non angelo, non animale.
• Tale mancanza di autosufficienza del
funzionamento istintuale umano richiede che l’uomo trovi all’esterno – nei rapporti sociali, nella cultura (intesa in senso lato) – una
dimensione dove poter trovare dei criteri per
risanare la rottura dell’impulso, per sapere come agire e chi è.
– La cultura è la seconda natura dell’uomo. (Remotti 2000).
– La cultura è necessaria, secondo tale concezione, perché l’uomo non è dotato di un corredo istintuale che, al pari di quello degli animali, possa indirizzarlo e guidarlo: egli ha bisogno della cultura per sapere cosa deve fare. Se non riuscisse a mettersi in rapporto con un sistema capace di dare senso alla sua esistenza sarebbe un essere
paralizzato (E. Fromm 1941).
– Il patrimonio culturale acquisisce uno status oggettivo, costituisce un corpus di valori e conoscenze che dialoga con i meccanismi mentali degli esseri umani,
strutturandoli. Ogni volta che un elemento culturale si è prodotto entra a far parte della «cultura»: non viene
perso, ma capitalizzato: la cultura arricchisce le
possibilità di scelta dell’uomo fornendogli un patrimonio non solo di strumenti mentali e tecnologici, ma anche di significati e di visioni del mondo, che costituiscono una
«esternalizzazione” dei loro processi mentali, una
ricchezza oggettivamente presente a cui le menti degli individui possono attingere (Wilson- Keil, 1999).
L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e sviluppate storicamente è l’aspetto caratteristico della
psicologia umana, il fondamento del salto qualitativo dalla psicologia animale a quella umana. […] I processi
psicologici, così come avvengono negli animali, di fatto
cessano di esistere; essi sono incorporati in questo sistema di comportamento e sono ricostruiti culturalmente e
sviluppati fino a formare una nuova entità psicologica.
Vygotskij (1930-1935, p. 88)
• l’uomo, quindi, «emerge» dall’indifferenziazione con la natura, diventa individuo, cosciente di sé, e solo: egli vive «in prima persona», non più
come parte di un qualcosa, della Natura: egli è
«individuato» e non può, neanche da ubriaco, cedere la propria individualità. Questa lo
perseguita, come un dono, ma anche come un maleficio e una tortura.
• L’uomo è costretto a diventare un «traditore»
(Jung) in quanto deve tradire i rapporti di
appartenenza; e, come i traditori, si guarda
sempre alle spalle…
Albero della Conoscenza del Bene e del Male Lucas Cranach detto il Vecchio (1472 –1553)
Fromm interpreta la cacciata dal Paradiso terrestre come l’esito di un essere diventato consapevole di sé
dell’uomo: egli ha mangiato dall’Albero della conoscenza e da quel momento diventa cosciente di sé, si vergogna della propria nudità e non può più restare nella beata, ma incosciente,
appartenenza con tutte cose che si respira nel Paradiso terrestre.
• L’uomo diventa inquieto perché, da un lato, non può abbandonarsi e appartenere totalmente, perché ciò gli farebbe perdere il suo essere individuo; dall’altro la sua separatezza gli crea disagio, senso di
isolamento, paura.
• Ecco perché per Fromm la libertà è dono ambiguo che occorre accettare con coraggio: dà all’uomo
autonomia, ma gli toglie sicurezza.
– Fuga dalla libertà (1941) è costruito attorno all’idea che gli uomini, inconsciamente, rinuncino alla libertà e si leghino a feticci o ideologie.
→ l’ambiguità dell’essere umano è che egli cerca contemporaneamente autonomia e appartenenza
• L’uomo inizia a provare nostalgia per la Natura da cui proviene e la percepisce come una Grande Madre avvolgente.
• Se, come evidenzia Fromm, non vuole
«impazzire» per la sensazione di separatezza deve ristabilire dei legami, delle appartenenze.
• Ma l’appartenenza va ottenuta senza rinunciare all’individualità e alla separatezza; se
appartenesse «troppo», cederebbe nuovamente la sua identità, si rifonderebbe nel tutto, come avviene nelle appartenenze tribali, fusionali, nell’adorazione di un’ideologia ecc.
• Questo essere dentro e fuori dalla natura
genera quella sensazione di innaturalezza
del comportamento umano.
Se amassi i paradossi, potrei affermare che è naturale per l’uomo comportarsi in maniera innaturale.
Róheim (1950, p. 498)
Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap. 1), afferma che l’arte ambisce a ritornare all’istintività animale, all’essere un tutt’uno con l’esperienza che si va compiendo.
Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e
simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare
accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare.
• Pirandello affermava che l’uomo è come se avesse la “febbre”
Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo?
Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche
davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio (Pirandello, L’umorismo, 1908).
L’uomo si annoia e l’animale no
O greggia mia che posi […]
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
(Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)
• Per G. Róheim, il complesso di Edipo non è un evento innato della psiche, ma un inevitabile
processo umano che trova la sua ragion d’essere nel prolungamento della condizione infantile di
dipendenza dalla madre. Infatti, il complesso edipico nasce dal conflitto tra la naturale
tendenza a crescere ed il desiderio di restare, simbolicamente, nell’utero materno.
• È nostalgia per un’appartenenza totale.
– Di tale avviso sono anche E. Fromm e C. G. Jung