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Quando biomarker sono quantificati nelle urine la loro concentrazione è spesso espressa come rapporto alla creatinina urinaria o al peso specifico urinario. Esprimere un valore come rapporto presuppone che l’escrezione urinaria di creatinina sia costante in uno stesso individuo e tra gli individui e che queste variabili urinarie e la creatinina siano inversamente proporzionali alla velocità del flusso urinario. Quindi, un aumento o una diminuzione del rapporto marker/creatinina urinari rifletterà un aumento o diminuzione dell’escrezione del biomarker (Hokamp et al., 2016). Tuttavia, secondo la letteratura umana, quando la funzionalità renale è in rapido cambiamento, l’assunto di una costante escrezione renale di creatinina non è corretto e può portare a sovrastima o sottostima del dato. In questo caso si suggerisce, per una valutazione più accurata, la collezione delle urine nell’arco di 24 per stimare la vera concentrazione di creatinina escreta. Per questo motivo è questionabile esprimere una variabile urinaria in rapporto alla creatinina soprattutto durante il danno renale acuto (Waikar et al., 2010). Anche in medicina veterinaria alcuni autori preferiscono non esprime il biomarker in rapporto, mentre altri usano l’espressione uBiomarker/uCreatinine (uX/uCr) (Hokamp e Nabity, 2016).

Scoperta di nuovi biomarker

Le proteine totali urinarie rappresentano l’insieme di proteine plasmatiche filtrate, proteine derivanti dal rene e proteine originate dalle basse vie urinarie. Il processo che porta alla scoperta di nuovi biomarker si basa essenzialmente su due approcci. Nel primo approccio nuovi biomarker renali urinari sono proposti e studiati sulla base della patofisiologia del danno/disfunzione renale. L’alterazione della funzionalità del nefrone può portare alla presenza di grandi quantità di proteine nelle urine. Normalmente la barriera di filtrazione glomerulare esclude il passaggio di proteine con peso molecolare maggiore di 69 kDa, mentre proteine più piccole passano il filtro glomerulare ma vengono riassorbite a livello tubulare (Figura 2.3A). Inoltre, anche la carica delle proteine influenza la filtrazione: proteine cariche positivamente passano il glomerulo più facilmente rispetto a proteine cariche negativamente. Cambiamenti

41 nella struttura/composizione della barriera o dello stato emodinamico del paziente può comportare una diminuzione della permselettività glomerulare.

42 Questa disfunzione glomerulare primaria comporta il passaggio di una grande quantità di proteine ad alto ed intermedio peso molecolare nell’ultrafiltrato (Figura 2.3B). Ad un danno tubulare, primario o secondario, consegue un’incapacità dei tubuli a riassorbire completamente le proteine filtrate, determinando la presenza di queste ultime nelle urine (Figura 2.3B e C). L’affinità dei recettori tubulari, Megalina e Cubilina, è specifico per determinate proteine, comportando una competizione per il legame in caso di sovraccarico proteico. Quindi danno glomerulare e tubulare, o misto, possono portare a proteinuria con differente meccanismo. Tutte queste proteine possono essere rilavate misurando il rapporto tra la concentrazione di proteine totali urinarie e la creatinina urinaria, mentre test più sofisticati permettono la loro differenziazione. Il secondo approccio può essere considerato come una ricerca proteomica con l’obiettivo di raggiungere una visione globale di proteine e peptidi nelle urine. Diverse tecniche sono disponibili per questo approccio, come ad esempio l’analisi di spettrofotometria di massa che mira alla creazione di una mappa delle proteine presenti nelle urine, dalla quale si può partire per la ricerca e scoperta di nuovi biomarker di danno renale. Questa strategia è ampiamente utilizzata in medicina umana, ma ancora raramente usata in medicina veterinaria (De Loor et al., 2013).

La misurazione di marker urinari indicativi di patologia renale prevedono l’utilizzo di differenti metodiche analitiche; tuttavia in questa tesi si prendono in considerazione principalmente marker urinari analizzati tramite metodiche utilizzate in chimica clinica, in quanto di uso comune nei principali laboratori di analisi, relativamente poco costose e di rapida esecuzione.

Chimica clinica

La chimica clinica, o biochimica clinica, è un ramo della medicina di laboratorio che si occupa dell'applicazione di tecniche analitiche chimico-strumentali ed immunochimiche per effettuare determinazioni diagnostiche o di routine sui liquidi

43 biologici (siero, urine, liquido cefalorachidiano). Esistono metodiche di laboratorio particolarmente accurate per la determinazione di specifiche classi di parametri analitici. I più comuni test che vengono effettuati tramite strumentazioni di chimica clinica riguardano i dosaggi di carboidrati, lipidi, enzimi, ormoni, proteine, elettroliti e metaboliti (Bruns et al., 2015).

I sistemi automatici di chimica clinica utilizzano un’ampia varietà di metodiche ottiche, incluse:

 fotometria e spettrofotometria;  turbidimetria e nefelometria;  metodi a ioni selettivi.

La fotometria è il processo che determina la quantità di luce assorbita da molecole e viene usata per la stima quantitativa di composti. Le molecole, essendo quantizzate, assorbono solo la luce che ha l’esatta energia che causa transizioni da uno stato energetico all’altro. Ciascuno composto chimico ha una serie propria di livelli di energia quindi assorbirà luce di lunghezze d’onda specifiche producendo qualità spettrali uniche che possono essere usate anche per un’analisi qualitativa che identifica e distingue miscele di molecole non note. In chimica clinica, per quantificare, è necessario conoscere la gamma di lunghezze d’onda assorbite dal composto in esame per generare la migliore sensibilità d’analisi e conoscere l’entità dell’assorbimento della molecola stessa a concentrazioni note. La misura fotometrica viene fatta introducendo nel raggio monocromatico inizialmente una soluzione di riferimento ed in seguito la soluzione della sostanza da esaminare; la differenza fra le due intensità costituisce una misura della trasmittanza del composto, alla lunghezza d’onda alla quale è stata effettuata la detenzione. Lo spettro di assorbimento è la traslazione dei valori dell’intensità dell’energia radiante in funzione della lunghezza d’onda. Per ottenere la concentrazione di una determinata sostanza in soluzione, partendo dai valori di trasmittanza o di assorbanza si possono utilizzare tre metodiche:

44  confrontando le letture dei campioni con letture standard a concentrazioni

note;

 estrapolando la concentrazione da curve di taratura ottenute con soluzioni di riferimento.

Le applicazioni di questa metodica sono le più comuni nei laboratori di chimica clinica; ad esempio per la determinazione di substrati quali glucosio, urea, colesterolo (con metodica end point), o per enzimi quali transaminasi, fosfatasi alcalina, LDH (con una metodica che valuta le variazioni di assorbanza nell’unità di tempo) (Boyd and Hawer, 2015).

La turbidimetria è una metodica ottica di analisi che permette di determinare il livello di torbidità di un liquido sfruttando l'assorbimento e la riflessione di raggi luminosi a determinata lunghezza d'onda. Tale metodica viene applicata quando la dimensione delle particelle che provocano torbidità è dell'ordine, o superiore, al micrometro, condizione nella quale l'assorbimento prevale sulla diffusione. Nel caso si abbia a che fare con particelle di più piccole dimensioni, dell'ordine di decine o centinaia di nanometri, prevale l'effetto diffusivo e viene pertanto utilizzata una metodica differente, chiamata nefelometria. Entrambe queste tecniche sono utilizzate per la misurazione della velocità di formazione degli immunocomplessi in vitro e vengono utilizzate per la quantificazione di proteine, antigeni e alcuni farmaci (Kricka et al., 2015).

L’ISE indiretto, o potenziometria indiretta (ISE o Ion Selective Electrode, elettrodo ionoselettivo o a membrana) impiega due elettrodi ionoselettivi, dei quali uno agisce come elettrodo di riferimento. Questo sistema viene utilizzato per valutare la concentrazione degli elettroliti, che viene misurata in seguito ad una diluizione del campione con della soluzione tamponata. Il tampone è utilizzato per stabilire un coefficiente di attività costante per gli ioni, calibrando l’elettrodo sui valori di concentrazione. Quando la diluizione viene a contatto con l’elettrodo e ha, quindi, luogo il processo di scambio ionico, si sviluppa una variazione di potenziale dell’elettrodo. Queste variazioni vengono messe in relazione con l’elettrodo di

45 riferimento. Il potenziale di riferimento consente di calcolare, per mezzo dell’equazione di Nernst, la concentrazione dell'elettrolita (Boyd and Hawer, 2015). Tra i grossi produttori di analizzatori automatici per il laboratorio vi sono: Abbott Laboratories, Beckamn Coulter (ex Olympus), Ortho Clinical Diagnostics, Roche e Siemens.

I vantaggi di eseguire test tramite analizzatori automatici sono: la velocità con cui si ottiene il risultato, il numero di campioni analizzabile per ora, la riduzione dei costi di analisi, la riduzione della variabilità dipendente dall’operatore e l’ottenimento di risultati di qualità (www.beckamcoulter.com).

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