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Brevi cenni introduttivi

CAPITOLO QUATTRO:

IL NO DELLA CORTE DI CASSAZIONE AI DANNI PUNITIVI IN ITALIA:

4.1 Brevi cenni introduttivi

sentenza n. 1183/2007 - 4.3 Corte di Cassazione civile, sezione I, n. 1781/2012 - 4.4 Conclusione

4.1 Brevi cenni introduttivi

Autorevole parte della dottrina italiana ha recentemente formulato l’espressione “grande freddo” per identificare la acclamata incompatibilità sistematica della figura dei danni punitivi con il principio dell’ordine pubblico secondo il consolidato orientamento interpretativo della Corte di Cassazione italiana.

Quest’ultima ha infatti negato la delibazione di sentenze di condanna al pagamento 114

di punitive damages pronunciate negli Stati Uniti e delle quali si chiedeva l’applicazione in sede di richiesta di risarcimento del danno in Italia. Infatti,

La delibazione, o exequator, consiste in una procedura giudiziaria con cui in un

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determinato Stato, su istanza di parte, si ottiene il riconoscimento di un provvedimento (giudiziario) emesso da un’autorità giudiziaria di un’altro Stato. In Italia questa procedura viene svolta di fronte alla pendenza della Corte di appello territorialmente competente, la quale ha il compito in primis di verificare che il processo straniero sia stato svolto conformemente e nel rispetto delle regole del contraddittorio; in secondo luogo deve verificare che la sentenza, di cui si richiede il riconoscimento, sia passata in giudicato e che non sia contraria ad un’altra sentenza pronunciata in Italia; infine deve sottoporre al proprio vaglio il contenuto della sentenza straniera ed accertarsi che il suo contenuto non sia contrario ai principi fondamentali cristallizzati nell’ordinamento italiano.

A ragion del vero, occorre anche sottolineare che con la l.218/1995 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale) sono state abrogate le norme di procedura civile che riguardavano proprio la delibazione delle sentenze straniere; infatti la normativa vigente non parla più di “delibazione” ma di “accertamento” dei requisiti della sentenza da parte della Corte di Appello territorialmente competente.

nonostante l’innegabile presenza, nel panorama giuridico italiano, di figure identificate come pene private e il loro confronto in termini comparativi con l’istituto di common law dei danni punitivi, la Suprema Corte di Cassazione ha sempre mantenuto un atteggiamento di chiusura verso questi ultimi.

Sul punto sono esemplari le sentenze n. 1183 del 2007 e n. 1781 del 2012 pronunciate dalla Corte di Cassazione, con le quali essa elimina qualunque dubbio o incertezza residua circa la possibile esistenza della funzione punitiva del risarcimento nel diritto privato italiano, ponendo l’accento sulla figura della clausola penale in materia di liquidazione preventiva del danno e della c.d. pena privata.

4.2 Corte di Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 1183/2007

La sentenza in esame ha ad oggetto il ricorso presentato dalla Sign.ra Judy Parrot contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia per chiedere la delibazione della sentenza emessa dalla Corte distrettuale della Contea di Jefferson (Alabama, Stati Uniti); in tale sentenza l’azienda italiana Fimez s.p.a. era stata condannata a risarcirle a titolo di danni punitivi una somma pari a ben 1.000.000 di dollari - oltre agli interessi ed accessori - per la morte del figlio Kurt. Infatti come la sentenza della corte americana aveva opportunamente accertato, quest’ultimo era alla guida di una motocicletta, viaggiando a velocità moderata e con il casco ben allacciato, ma un macchina, il cui conducente stava violando ogni norma di procedura del codice della strada, gli tagliò la strada e l’urto con l’autovettura fece sbalzare il giovane dal sellino della propria motocicletta. Il giovane, poiché nell’incidente aveva perduto il casco protettivo a causa di un difetto di progettazione e fabbricazione della fibbia di chiusura prodotta proprio da Fimez s.p.a., cadendo a terra aveva riportato gravissime lesioni alla testa che lo portarono immediatamente alla morte. Pertanto la Sign.ra

Parrot conveniva la Fimez s.p.a. davanti alla Corte d’appello di Venezia per fare dichiarare l’efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza statunitense.

La convenuta Fimez s.p.a. si difendeva eccependo in particolare il difetto di prova 115

del passaggio in giudicato e della esecutività della sentenza delibanda nonchè la contrarietà di tale sentenza all’ordine pubblico italiano sia per la mancanza di motivazione della sentenza in ordine alla prova del danno sia per la natura punitiva della condanna in quanto non contemplata nel nostro ordinamento giuridico.

Con queste motivazioni il convenuto chiedeva alla Corte d’appello di Venezia di rigettare la richiesta dell’attrice.

La Corte d’appello di Venezia con sentenza n. 1359/2001 respinse la richiesta dell’attrice motivando principalmente la sua decisione con la considerazione che la sentenza statunitense in questione si configurava come una condanna al risarcimento dei danni punitivi e pertanto in contrasto con l’ordine pubblico italiano.

Instauratosi il contraddittorio la Fimez s.p.s.s convenuta eccepiva preliminarmente il

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difetto di legitimatio ad processum e ad causam dell’attrice e, nel merito, denunciava la mancanza dei requisiti legittimanti la richiesta di delibazione della sentenza statunitense. Infatti il convenuto contestava che il procuratore dell’attrice - avv. Belvederi - era legittimato da un mandato alle liti redatto in lingua italiana ma privo dell’autentica di un pubblico ufficiale; inoltre l’attrice mentre in Alabama aveva agito in quanto amministratrice del patrimonio del figlio e quindi iure proprio, invece con l’atto introduttivo del presente giudizio di fronte alla pendenza della Corte d’appello di Venezia, invocava iure hereditatis il diritto al risarcimento dei danni per la morte del figlio. Pertanto l’impresa italiana ne dedusse che mancando l’autenticità dei provvedimenti giudiziari e la loro traduzione ufficiale, questi ultimi non fossero utilizzabili. La corte d’appello di Venezia affermò che tale eccezione era infondata in quanto non era necessario che la legalizzazione per la procura alle liti - come la procura in questione - fosse autenticata da un pubblico ufficiale e corredata dalla postilla ai sensi dell’art. 1 della convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 sull’abolizione della legalizzazione.

Inoltre la Fimez s.p.a. eccepiva che, nel caso pendente, si era di fronte ad un difetto di giurisdizione del giudice statunitense sia perché, omettendo ogni motivazione, aveva precluso la possibilità di individuare la sua giurisdizione sia perché non poteva essere convenuto davanti ad un giudice italiano un soggetto straniero, in quanto produttore del casco protettivo, per un incidente mortale avvenuto nel nostro Paese. Anche tale eccezione venne considerata infondata dalla Corte veneziana in quanto il giudice, dopo aver accertato la sussistenza dei requisiti relativi al diritto di difesa di cui all’art. 797 n.2 e n.3 cod. proc. civ., non deve accertare la pedissequa conformità delle regole procedurali del processo straniero a quello nazionale.

Più precisamente le motivazioni per le quali la Corte d’appello di Venezia rigettò l’istanza della ricorrente principale erano il difetto di motivazione della pronuncia delibanda e in secondo luogo per la mancata correlazione, nella figura giuridica anglosassone dei danni punitivi, tra il quantum risarcitorio e il danno effettivamente subìto dall’offeso.

Infatti dal tenore e dalle succinte motivazioni della sentenza pronunciata dal giudice statunitense non si era in grado di individuare quali fossero le norme o i principi con cui era stata quantificata la somma dovuta nè poteva dedursi la natura della somma stessa.

Tuttavia i giudici della Corte d’appello del capoluogo veneto ritennero che l’entità del risarcimento del danno “lascia presupporre che la condanna della convenuta rappresenti una vera e propria sanzione, comminata per finalità meramente afflittive e deterrenti, estranea ai principi della nostro giurisdizione”; pertanto la Corte considerò in via presuntiva che si trattasse di una sanzione attribuita per una finalità sanzionatoria e deterrente sulla base del fatto che l’ammontare della somma liquidata era considerevole e tenuto conto della particolare attività professionale svolta dal danneggiante, ovvero quella di produttore.

La difesa della Sign.ra Parrot negò che questa condanna fosse un’ ipotesi di risarcimento dei danni punitivi ma se così fosse stato - e la Corte era di questo parere - ci si sarebbe trovati di fronte ad una figura risarcitoria sconosciuta all’ordinamento giuridico italiano.

La Corte ha infatti concluso affermando la contrarietà dei danni punitivi all’ordine pubblico in quanto i principi che regolano il nostro sistema civilistico in materia di responsabilità da illecito extracontrattuale – e contrattuale – configurano il risarcimento dovuto dal danneggiante come mera riparazione del pregiudizio arrecato all’offeso. Infatti il nostro sistema di responsabilità civile si caratterizza per la finalità risarcitoria, e non punitiva o sanzionatoria, sulla base dello schema aquiliano della pura reintegrazione del danno.

È anche vero che eventuale impedimenti all’introduzione dei danni punitivi nel nostro ordinamento giuridico possono ad oggi essere ricercati esclusivamente utilizzando come giustificazione – o pretesto - la contrarietà di questi al concetto di ordine pubblico.

Allo stato attuale infatti non c’è alcuna fonte normativa italiana che impedisce specificamente l’applicabilità nell’ordinamento italiano delle sentenze che condannano al risarcimento dei danni punitivi. E nemmeno esistono in materia di mutuo riconoscimento delle sentenze, sul piano delle fonti di diritto internazionale, apposite convenzioni tra Italia e Usa, né Trattati di amicizia, navigazione e commercio, i cd. trattati FCN; questo perché alcuni tribunali americani tendono ad interpretare, in particolare, i trattati FCN come uno strumento in grado di assicurare una copertura normativa anche al reciproco riconoscimento delle sentenze che provengono da un altro Stato contraente. 116

Nel prospettare le notevoli differenze fra il sistema risarcitorio anglosassone e quello italiano, la Corte veneziana ha illustrato due distinguo. Il primo concerne il fatto che se è vero che anche nel nostro ordinamento ci sono le cc.dd. pene private, cioè ipotesi di quantificazione del danno avulse dalla precisa determinazione del danno effettivamente patito, nel sistema italiano questi strumenti quantificatori trovano fondamento nella volontà dei privati, mentre al contrario i danni punitivi non possono essere oggetto di un contratto determinato a priori dalle parti.

Quindi le pene private – tra cui si inserisce proprio la clausola penale ex art. 1382 c.c. - previste nel sistema italiano non sarebbero assimilabili ai danni punitivi ma in esse la quantificazione del danno precederebbe la concreta realizzazione dello stesso. Questa considerazione dei giudici veneziani deve però confrontarsi con alcune argomentazioni.

Secondo una corrente seguita da alcuni giudici americani ma molto contestata, la clausola

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del trattamento nazionale eleverebbe il foreign judgment proveniente dal Paese “amico” allo

status di sister state judgment e quindi gli assicurerebbe maggiori garanzie di riconoscibilità,

Infatti anche se si potesse condividere la tesi dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un istituto assimilabile ai danni punitivi, la proposta di un raffronto fra la clausola penale e il danno punitivo non sarebbe sufficientemente salda, come ha delineato autorevole dottrina. 117

Infatti i punti di contatto tra la clausola penale e i danni punitivi sono circoscritti alle modalità di quantificazione dell’importo dovuto che sono solitamente affrancate dall’entità della perdita effettivamente subìta; infatti l’effetto processuale precipuo della clausola penale si configura nella sottrazione all’onus probandi del quantum del pregiudizio, al punto che molteplici autori in dottrina ne hanno denunciato la natura vessatoria ex art. 1341 comma 2 c.c. 118

Ma anche questo possibile punto di incontro tra i due istituti sembra venire meno, in quanto nel nostro ordinamento la clausola penale è oggi riducibile, senza onere di eccezione delle parti, come affermato dalla Suprema Corte stessa nella sentenza n

Cfr. V. SARAVALLE, I punitive damages nelle sentenze delle Corti europee e dei

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tribunali arbitrali, in Riv. Dir. Int. Priv. e Process., 1993, pp. 867 e ss, il quale però ravvisa

un punto di accostamento tra clausola penale e danni punitivi ovvero la componente punitiva e deterrente comune ad entrambi.

Cfr. F. CARRESI, Il contratto, in Trattato Cicu Messineo, I, Milano, 1987, p. 253;

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G. MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Commentario UTET, Torino, 1980, p. 343; Magazzù, voce “Clausola penale”, ED,VII, 2002, p.192; T. AULETTA, Le clausole

vessatorie nella giurisprudenza, in Le condizioni generali di contratto,a cura di Bianca, I,

Milano, 1979, p. 25. Sulla deroga all’onere della prova nella clausola penale si veda Bianca,

10511/1999; pertanto non essendo più la sua vincolatività illimitatamente rimessa 119

alla volontà negoziale delle parti, la clausola penale ha visto in parte temperato il suo carattere di pena privata. 120

In conclusione la Corte d'Appello di Venezia non rinviene nel nostro ordinamento giuridico una figura normativa assimilabile ai danni punitivi di common law.

La seconda distinzione delineata dalla Corte d'appello veneziana trova come premessa il fatto che negli Stati Uniti la condanna al risarcimento dei danni punitivi “non beneficia la collettività o, se si vuole, un'associazione di categoria portatrice di interessi diffusi, ma il solo danneggiato che promuove l'azione e che, in tal modo, gode surrettiziamente di una ingiustificata (alla stregua dei princìpi generali del nostro ordinamento civilistico) locupletazione”. Pertanto la Corte ritiene che i danni punitivi si connotano come una fattispecie di esercizio privato della potestà pubblica e pertanto, anche sotto questo profilo, si esplica la loro contrarietà all'ordine pubblico interno.

La sentenza succitata ha stabilito che “Il potere di riduzione ad equità della penale

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previsto dall'art.1384 c.c. deve essere esercitata anche d'ufficio, indipendentemente da un atto di iniziativa del debitore, configurandosi come potere-dovere attribuito al giudice per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento”. Questa sentenza è stata

commentata da una nutrita schiera di voci dottrinali, tra cui si veda A.PALMIERI, La

riducibilità ex officio della penale e il mistero delle liquidated damages clauses, Firenze,

2000,I, pp. 1930 ss.; C. ABATANGELO, Clausola penale, Studium 2000, pp. 843 ss.; M. FANCELLI, Sulla riducibilità d'ufficio della penale manifestamente eccessiva, in Corr.

giur., 2000, p. 69; G.PONZANELLI, voce “pene private”, in Enc. giur. Treccani, XXII, Ed.Enc. it., 1990; U. STEFINI, Alcuni problemi applicativi in tema di clausola penale, NGCC 2000,I, pp. 511 ss.

Sulla riducibilità della clausola penale senza onere di eccezione delle parti, v. G. GIOIA,

Riducibilità ex officio della penale eccessiva, GI 2000, pp. 1155 ss. secondo la quale questa

interpretazione della S.C. è il risultato della presa di coscienza della perdita di valenza soggettiva della sanzione che ormai ha assunto un palese connotato di oggettività e dunque deve essere controllata nella sua funzione punitiva per evitare che si trasformi in un ingiusto aggravio per il debitore.

Questa perplessità sull'accostamento delle figure giuridiche dei danni punitivi e della

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clausola penale è condivisa anche dalle giurisprudenza del BGH; infatti anche la Suprema Corte tedesca ha rigettato l'istanza di exequatur di una condanna statunitense al pagamento dei punitive damages a motivo della contrarietà all'ordine pubblico e, parimenti alla Corte di Cassazione italiana, ha ritenuto che questo paragone fosse privo di significato.

Circa questo secondo distinguo la Corte veneziana ha dedotto la natura penale della sentenza di danni punitivi proprio dal fatto che l'attrice ha promosso l'azione quasi come se fosse una sorta di “p.m. privato” che agisce secondo interessi egoistici; la 121

condanna probabilmente sarebbe stata diversa se fosse stata la collettività a beneficiare della sentenza di condanna.

Ma veramente la decisione della Corte veneziana sarebbe stata diversa se ci si fosse trovati di fronte ad una decisione di condanna pronunciata in uno Stato che prescrive la devoluzione di una parte della somma, ottenuta a titolo di risarcimento, per scopi assistenzialistici? E ancora: se della condanna avessero beneficiato degli organismi sociali sarebbe stato possibile giungere alla conclusione di riconoscere la sentenza? Tali domande non sono di poco conto, essendo infatti sufficiente la riflessione sul fatto che negli USA - come analizzato nel secondo capitolo - sono sempre più frequenti - e in alcune realtà addirittura obbligatori per legge - le ipotesi di devoluzione di parte dei risarcimenti di danni punitivi a fondi di tutela diffusa (quali scuole, Università, orfanotrofi etc).

Ma se la risposta a tali domande fosse positiva, il rischio - o vantaggio - di dover riconoscere l’operatività dei danni punitivi nel nostro ordinamento determinerebbe un aumento delle sentenze di condanna volte al loro risarcimento.

Il punto cruciale di tale argomentazione si snoda nella considerazione che le sentenze che concernono il pagamento di danni punitivi contengono una sanzione che va a beneficio solo dell’attore; esse inoltre hanno natura penale e non sono riconoscibili a causa del contrasto con l'ordine pubblico.

Tale problematica sorge dal fatto che la stessa origine dei punitive damages nell'ordinamento di common law è dibattuta e oscilla tra la natura civile e quella penale ma anche l'acuta dottrina svizzera e tedesca sono giunte alla riconosciuta

G. BROGINI, Compatibilità di sentenza statunitensi di condanna al risarcimento di

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“punitive ramages” con il diritto europeo della responsabilità civile, in Europa e dir. priv.,

1999, pp. 479 ss. evidenzia che in tali casi, l’attore agisce come “Private Attorney General”, esercitando una funzione di Pubblico Ministero privato, nell’interesse della collettività.

matrice civile, e non penale, delle pronunce che contengono danni punitivi - sebbene in essi parte della dottrina ha ravvisato connotazioni penalistiche appunto perché servono a punire efficacemente l’autore dell’illecito in modo che non compia più nel futuro una condotta illecita di quel tipo e perché rappresentano inoltre una fattispecie di esercizio privato della potestà pubblica che rende palese la loro contrarietà all’ordine pubblico interno.

Siccome nel nostro ordinamento sia nelle ipotesi che concernono le sanzioni civili indirette sia in materia di danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. e quindi di 122

illecito aquiliano sussistono rimedi strettamente civilistici che presentano anche connotati di afflizione e deterrenza, si può affermare che nel nostro ordinamento quando questi istituti, come quello dei danni punitivi, perseguono finalità solo pubblicistiche in campo privatistico, risulta lampante la loro contrarietà all’ordine pubblico.

Un'altra considerazione che ha portato la Corte di Appello veneziana a negare l’operatività, nel nostro ordinamento giuridico, della sentenza statunitense in questione è il difetto di motivazione di quest’ultima.

Su tale considerazione occorre premettere che il provvedimento in questione è frutto di due diverse, anche da un punto di vista temporale, pronunce e solo la seconda è corredata di motivazione e tra l’altro solo in riferimento all’an della responsabilità e non anche al quantum del risarcimento.

Ma sia la giurisprudenza di legittimità sia di merito hanno chiarito che tale 123 124

difetto di motivazione non contrasta ex se con l’ordine pubblico interno. Infatti si è

Ne sono esempio quelle previste dall’art. 31 della legge sull’equo canone il cui utilizzo

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ha natura eccezionale e dimostrano che la funzione deterrente della sanzione civile, in limiti predeterminati, non si connota anche con il riconoscimento di un contestuale ed ingiustificato beneficio per il danneggiato.

V. Cass. n. 5678 del 30 ottobre 1979, n. 4618 del 22 maggio 1990, n. 3029 del 13 marzo

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1993, n. 5451 del 18 maggio 1995.

Tra le altre si veda App. Milano, 7 febbraio 1992.

sostenuto che l’obbligo di motivazione della sentenza, sebbene sia cristallizzato nel primo comma dell’art. 111 Cost., non rientri tra i principi inviolabili del nostro ordinamento perché, nonostante sia una norma di rango costituzionale, disciplina 125

solo un assetto organizzativo della giurisdizione dell’ordinamento interno.

Inoltre l’insufficienza o l’assenza di motivazione della sentenza assume rilievo specifico sulla base del fatto che la conformità va verificata in relazione alle affermazioni che sostengono la decisione, e non anche alle motivazioni o alla logica sottesi.

Tra l’altro, risulta palese che la motivazione della sentenza non è compresa tra i requisiti richiesti per la declaratoria di efficacia previsti dall’art. 797 cd. civ. prev., né ora dall’art. 67 della legge 218/95, né dalle Convenzioni di Bruxelles e Lugano sulla competenza giurisdizionale.

Nonostante queste doverose premesse occorre sottolineare che l’insufficienza o la mancanza di motivazione potrebbero concretizzarsi in un ostacolo alla delibazione della sentenza, non permettendo così di affermare la conformità all’ordine pubblico. E tale sbarramento è presente proprio nel caso in esame.

Infatti la riforma del diritto internazionale privato e processuale introdotta con la l. 218/1995, ha evidenziato la centralità della nozione di ordine pubblico, inteso come istituto-sentinella che controlla e garantisce che non ci siano interferenze, nel nostro ordinamento, da parte di provvedimenti contenenti principi incompatibili con quelli

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