• Non ci sono risultati.

Il primo passo per accostarsi a un autore come Charles Bukowski è quello di considerarlo come una figura a sé stante, in quanto rappresenta un unicum nella letteratura americana contemporanea. Bukowski è un autore contraddistinto da grande eccentricità e da una soggettività difficilmente accostabile a una corrente riconosciuta o filone letterario preciso. Lo scrittore è stato accostato ai Beat, ma sebbene ne condivida alcuni tratti, l‟ideologia del gruppo di San Francisco non gli è mai appartenuta. Lui stesso ha sempre sottolineato la presa di distanza dal circuito della letteratura fino alla volontà di emarginazione dall‟intera società: «Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte».1

La prima sostanziale differenza con i cannibali italiani sta proprio in questo, ossia mentre Bukowski è riconosciuto come un unicum, un individualista che disprezzava chiunque tentava di circoscrivere la sua produzione; i cannibali, per contro, sono stati definiti fin da subito con un abuso di etichette da parte dei critici, di cui gli autori in parte hanno giovato e in parte sofferto.

Nonostante le differenze, è innegabile l‟influenza trasmessa da Bukowski alla produzione italiana degli anni ‟90. Facilmente dimostrabile è l‟interesse di Tiziano Scarpa per l‟autore americano, infatti l‟autore veneziano ha curato la traduzione della raccolta di poesie intitolata Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere2.

Scarpa nella prefazione all‟antologia esprime con passionalità i meriti di Bukowski e accusa chi non ha saputo riconoscerli:

1

Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia (1972), trad. di P. F. Paolini, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 302. 2

C. Bukowski, Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere (1986), trad. di T. Scarpa, Roma, Minimum fax, 1999.

50 Questo non è un libro, è un'arma contundente. Lo voglio sbattere in testa a chi continua a dire che la letteratura è una faccenduola da falliti, masturbatori, pensionati. Eccolo qui uno splendido pensionato. A sessantacinque anni Bukowski era più che mai innamorato della poesia, si metteva alla macchina da scrivere cavalcando un toro infuriato, ringraziava gli dei per essere stato rosolato tutta la vita dall'incendio delle parole. Caro, vecchio, decrepito Charles. Gli chiedono di continuare a scrivere di sbronze e di puttane alla sua maniera, à la Bukowski e lui invece ti sforna un fascio di poesie straripanti di lettrici svenevoli, editor scassapalle, poetini laureati grandi musicisti e grandissimi scrittori morti o moribondi. Si mette in scena di fronte a questa incomprensibile fama di esistere che va sotto il nome di arte. Dimostra che si possono tirar fuori dei capolavori scrivendo versi ignorantissimi. Sa sfoderare insospettate tenerezze domestiche. Scrivendo vive molto di più, vive in quantità enormi. Questo non è vitalismo, è semplicemente vita. Chi l'ha detto che prima si vive e poi si scrive? Venga qui, mi porga la testolina di marzapane che gliela sbernoccolo con lo spigolo della rilegatura.3

Bukowski non è solo l‟autore che scrive «di sbronze e di puttane» come giustamente dichiara Scarpa. Come nei testi dei cannibali italiani, la superficialità tematica nasconde ideologie e motivazioni che a una lettura distratta passano inosservate. Nella scrittura di Bukowski la sfiducia verso il mondo è totale, feroci sono le critiche rivolte alla società americana e al suo conformismo. La concezione disillusa dello scrittore, a causa del suo temperamento irascibile e della sua vulnerabilità, si tramuta in alcuni passi in disprezzo, definendo la società in cui vive come «l‟epoca dell‟irrealtà sterilizzata e dell‟innacquamento dei cervelli alla tivù»4 e dichiarando una visione profondamente nichilistica della vita: «tutti

quanti abbiamo, sempre più, la dannata sensazione di aver perduto l‟anima, l‟orientamento, e cerchiamo d‟inventarci un qualche Cristo, prima della Catastrofe, ma nessun Gandhi, nessun Castro PRIMA MANIERA si fa ancora avanti».5 Dalla società e le sue

istituzioni, il cinismo dilaga fino a convogliare anche il genere umano:

La razza umana mi ha sempre disgustato. Ciò che, in sostanza, me la rende disgustosa è la malattia dei rapporti familiari, il che include il matrimonio, scambio di poteri e aiuti, cosa che, come una piaga, una lebbra, poi diviene: il tuo vicino di casa, il tuo quartiere, la tua città, la tua contea, la tua patria…tutti quanti che s‟abbrancano stronzamente gli uni ali altri, nell‟alveare della sopravvivenza, per paura e stupidità animalesca.6

3 C. Bukowski, Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere, cit. prefazione. 4

C. Bukowski, Storie di ordinaria follia, cit. p. 206. 5

Ivi, p. 283. 6 Ivi, p. 194.

51

Secondo lo scrittore americano gli uomini sono stati resi schiavi dalla società, e nel pensiero di Buk c‟è l‟amara consapevolezza di essere tutti, indifferentemente, «terrorizzati e schiacciati dalle banalità, siamo divorati dal nulla»7. Per questo motivo Bukowski è un

reietto, che ha volutamente deciso di rimanere ai margini della società e della vita. Lo scrittore non si intromette nel mondo, che lui stesso definisce “un horror show continuo”, corrotto e irrimediabilmente contaminato, da qui la ferma volontà di rimane alla periferia dell‟esistenza. La sua scelta di vita si riflette nelle sue opere, profondamente autobiografiche. Bukowski è interessato alle figure marginali, gli esclusi dal sogno americano e questo giustifica lo stuolo di personaggi pittoreschi quali senzatetto, alcolisti e prostitute, presenti all‟interno delle sue opere.

Lo scrittore americano è un ribelle ma non può essere considerato un rivoluzionario, nelle sue opere infatti non incita a prendere le armi contro l‟orrore della vita in quanto è più forte la sensazione di paralisi emanata dall‟autore. Questo atteggiamento si sposa con le parole di Scarpa che, interrogato a proposito della scrittura cannibale, parla, oltre di sarcasmo, di un atteggiamento “antipopulista”:

Mi sembra che al di là delle etichette […] la scrittura, se vogliamo continuare a chiamarla cannibale, abbia delle caratteristiche abbastanza precise che sono un certo sarcasmo creaturale verso i personaggi e un specie di sano antipopulismo, perché non c'è quella sorta di compassione neorealistica verso strati sociali o eventi di cronaca tragici. C'è un apparente cinismo che invece, secondo me, è una specie di vestito antipopulista, che è poi uno dei modi per criticare in maniera efficace le caratteristiche sociali della psiche dell'identità nazionale, dell'identità collettiva, di quella individuale […] Non c'è più un chinarsi carezzevole su questo tipo di personaggi; spesso anche le cose che gli si fanno passare, gli eventi che attraversano e che li vedono accoltellati, seviziati dal racconto stesso, sono parte di una trama che si accanisce e si diverte a fargli del male. Questo secondo me è un esempio di sarcasmo creaturale, di atteggiamento antipopulista.8

7

C. Bukowski, Il capitano è fuori a pranzo e i marinai prendono il comando (1998), trad. di A. Buzzi, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 10.

52

Una sorta di «sarcasmo creaturale e antipopulismo» si ritrova anche nella produzione bukowskiana. Lo scrittore americano è costantemente autoironico verso la moltitudine che popolano i suoi scritti. La sua ironia non è rivolta solamente verso sé stesso, ma si riversa anche nei personaggi da lui creati, dipinti tra compassione, solidarietà e humour. Per quanto riguarda l‟atteggiamento antipopulista, Bukowski è profondamente cinico nei confronti di quella che lui stesso ha definito la “pazza esasperante folla”. Ciò nonostante, essa rappresenta la fonte e il materiale principe per la sua scrittura. Per questo Bukowski individua alcuni luoghi chiave per poter studiare e spiare il comportamento della folla, soprattutto in momenti in cui essa sembra alterata. Da qui la sfilata di bar dove e soprattutto l‟ippodromo, che diviene il luogo privilegiato a cui assistere al teatro della vita, il quale offre una grottesca raffigurazione circense della folla, che Bukowski proietterà poi nella sue opere: «frequentare gli ippodromi t‟aiuta, però, a capire te stesso e la folla. […] io lo so perché Ernie [Hemingway] andava alle corride. Semplice: ciò l‟aiutava a scrivere. […] la corrida era per lui paradigma di ogni cosa».9

Nelle pagine dedicate alla folla Bukowski si limita a descriverla, senza crocefiggerla con moralismi. Come i cannibali italiani, sebbene fortemente avversi alla società dei consumi, non vi sono tracce nelle loro opere di arringhe o invettive, così lo scrittore americano lascia al lettore la volontà di trarre o meno le sue conclusioni, senza esigerle, senza costrizione. L‟atteggiamento che ha Bukowski con la folla è il medesimo che cannibali dimostrano avere nei confronti dei media: essi infatti non affermano mai esplicitamente che i media sono dannosi, si limitano semplicemente a ritrarli in tutta la loro invasività, sta poi al lettore la decisione di trarne o meno un giudizio morale.

53