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CAMPIONE DATAZIONE SITO PROVENIENZA FRAMMENTO OSSEO

Inumato 1 II a.C. Necropoli Frizzone tibia, femore, calotta, dente Inumato 2 II a.C. Necropoli Frizzone calotta, femore

Inumato 3 II a.C. Necropoli Frizzone calotta, denti, coste ,femore Inumato 4 II a.C. Necropoli Frizzone calotta, femore

Inumato 29 I d.C. Necropoli Frizzone calotta, fibula, tibia

Inumato 33 I d.C. Necropoli Frizzone radio, ulna, femore, calotta Inumato 34 I d.C. Necropoli Frizzone calotta, denti, femore, tibia Inumato 35 I d.C. Necropoli Frizzone coste, omero

Inumato 37 I d.C. Necropoli Frizzone calotta, denti, costa, femore Inumato 38 I d.C. Necropoli Frizzone calotta, denti, femore, perone Trincea

II-US 34

II d.C. Necropoli Frizzone fram. ossei

Trincea IV-US 66

II d.C. Necropoli Frizzone fram. ossei

Trincea IV-US 72

II d.C. Necropoli Frizzone fram. ossei

Tabella 1: Inumati presi in esame durante lo studio, la datazione presunta, il sito di provenienza e i frammenti ossei utilizzati per le analisi.

molecolare e in particolare negli studi sul DNA antico se ne illustrano brevemente le caratteristiche principali.

Il genoma mitocondriale umano è contenuto nei mitocondri, organelli citoplasmatici di origine endosimbiontica la cui funzione primaria è di fornire energia alla cellula attraverso la fosforilazione ossidativa.

Come nella maggior parte degli animali multicellulari, esso è piccolo, con un’organizzazione genica compatta e non presenta elementi come introni e sequenze ripetute presenti nel DNA nucleare, pertanto risulta facilmente caratterizzarbile.

E’ formato da molecole circolari chiuse di DNA a doppia elica lunghe 16.569 bp (basis pair= paia basi), che corrispondono allo 0,25% del geno- ma totale di un individuo. I due filamenti differiscono per la composi- zione in basi. Il filamento pesante H (heavy=pesante) è ricco in residui

2.2 il dna mitocondriale 27

Figura 13: Struttura schematizzata del DNA mitocondriale.

guaninici, mentre quello leggero L (light=leggero) in residui citosinici. Si è constatato che è in grado di replicarsi autonomamente e di codi- ficare per 37 geni, un numero ridotto rispetto ai circa 20.000 codificati dal DNA nucleare. L’ordine sequenziale è identico nell’uomo come nel topo. E’ composto da 2 geni per l’RNA ribosomiale (12S 16S), 22 geni per gli RNA transfer necessari per la sintesi proteica mitocondriale e 13 geni che codificano per polipeptidi di quattro subunità enzimatiche e della fosforilazione ossidativa: le subunità I, II, III della citocromo ossidasi C, e le subunità 6 e 8 dell’adenosintrifosfatasi (ATPasi), il cito- cromo b e le 7 subunità dell’NADH deidrogenasi della catena respira- toria (Wallace et al., 1987). Per questo motivo una mutazione avversa in uno qualsiasi di questi geni causa gravissime infermità sopratutto di carattere nervoso.

Come si è riscontrato per il genoma nucleare, le varie regioni che compongono l’mtDNA (codificanti e non) presentano tassi di evoluzio- ne differenti (Cann et al., 1984). I tratti che possiedono il tasso di so- stituzione più basso sono i geni per i tRNA e gli rRNA, mentre i tratti

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più variabili sono le regioni non codificanti (es. D-loop), i cui tassi di divergenza sono da 1 a 4-5 volte maggiori rispetto a quelli dei geni che codificano per le proteine.

La regione D-loop consiste in circa 1122 bp e di essa fanno parte le regioni ipervariabili I e II (HVRI e HVRII), il segmento I si colloca tra le posizioni nucleotidiche 16.024 e 16.365 ed il segmento II tra le posizioni 73e 340. In totale queste regioni si estendono per circa 900 bp localizzati vicino all’origine del genoma mitocondriale.

Nel DNA mitocondriale inoltre esistono meno meccanismi di ripa- razione rispetto a quelli presenti nel DNA nucleare, questo compor- ta quindi un tasso di mutazione più elevato dovuto alla perdita del- la capacità di proof-reading della polimerasi mitocondriale durante la replicazione.

La regione I risulta essere il segmento più informativo per confronti tra popolazioni che si siano separate in tempi evolutivi recenti, con- tiene infatti una regione lunga 110 bp chiamata “intervening sequence” che sembra variare per lunghezza e composizione in basi in maniera specie-specifica. Le HVRs rivelano il 3% della variabilità fra gli indivi- dui, e presentano un gran numero di siti polimorfici distribuiti in modo disomogeneo secondo cluster chiamati “punti caldi” (hot spot).

La sequenza del mtDNA è nota da oltre 20 anni (Anderson et al., 1981) e fu ottenuta a partire da un soggetto inglese. Oggi comune- mente viene indicata come “sequenza di riferimento di Cambridge” (CRS=Cambridge Reference Sequence) e viene utilizzata come riferimen- to per determinare le varianti polimorfiche del mtDNA, classificate in aplotipi (combinazione di alleli a loci concatenati) e a loro volta rag- gruppati in aplogruppi (gruppo di aplotipi di cui si ipotizza un’origine comune, grazie alla condivisione di mutazioni caratteristiche general- mente ad evoluzione lenta) che tendono a essere circoscritti a differenti aree geografiche e a differenti popolazioni umane, la cui analisi permet- te di ricostruire gli spostamenti antichi dell’uomo attraverso i continenti e le varie regioni del mondo.

3

M E T O D I

3.1 i l p r o b l e m a d e l l e c o n t a m i n a z i o n i

3.1.1 La degradazione dell’ aDNA

Il recupero del DNA fossile pone numerosi problemi a causa dell’insta- bilità chimica degli acidi nucleici. Dopo la morte di un organismo, il DNA contenuto nelle sue cellule va incontro ad una serie di processi degradativi, causati dalle rotture che interessano i legami nucleotidici e che comportano frammentazioni, alterazioni e delezioni irreparabili

(Lindahl,193). Gli acidi nucleici si decompongono spontaneamente in

soluzione, anche in condizioni fisiologiche, per effetto dell’idrolisi. Tut- tavia, mentre la cellula viva, avendo elaborato processi di riparazione del DNA (grazie all’intervento di enzimi quali la glicosidasi, la polime- rasi e la ligasi) può rimediare a questi danni, una cellula morta non è più in grado di far fronte ai processi di degradazione. Già dalla morte di un organismo, si attivano molti fenomeni che danneggiano, frammenta- no ed alterano le molecole di DNA. Infatti, in un mezzo acquoso, quali possono esse i liquidi di decomposizione, il DNA subisce soprattutto due tipi di attacco: un deterioramento chimico (idrolisi ed ossidazione) al quale si aggiunge un deterioramento di tipo enzimatico (autolisi e decomposizione batterica).

I deterioramenti chimici altereranno la struttura del filamento di DNA e l’idrolisi ne determina una rottura.

Il legame carbonio-azoto (C-N) tra le basi e gli zuccheri è particolar- mente fragile e la sua rottura determina la perdita progressiva delle basi azotate. Generalmente le purine (la guanina in particolare) si liberano rispetto alle pirimidine con una velocità di depurinazione di 20 volte inferiore le une rispetto alle altre.

30 m e t o d i

Figura 14: Sotto sezione trasversale di ossa archeologiche non trattate. Visione al mi- croscopio a trasmissione. (a) Tessuto osseo in buono stato di preservazio- ne, la freccia indica una microfrattura. (b) Tessuto osseo in cattivo stato di preservazione (Guarino et al.,2006).

In presenza di un sito abasico, in cui cioè una base si è staccata dal deossiribosio, il filamento è indebolito e va rapidamente incontro a rot- tura, poiché i residui di deossiribosio privi delle basi sono in equilibrio tra la loro originaria forma ciclica e stabile, e una forma lineare aldei- dica e reattiva. La reazione d’idrolisi è catalizzata dagli acidi, motivo per cui in condizioni di pH debole avviene un deterioramento più rapi- do del DNA, inoltre, è influenzata dalla temperatura che, se molto alta, può favorire una riduzione da 5 a 10 volte della velocità del processo. Quando un osso viene seppellito in un terreno con pH neutro o legger- mente basico la struttura piatta dell’idrossiapatite cambia e si avvicina a quella dell’idrossiapatite pura, cioè a forma di ago. Questo cambia- mento diminuisce la solubilità dell’osso perchè diminusce il rapporto superficie/volume (Berna, F. et al., 2004). L’adsorbimento del DNA su idrossiapatite dimezza la velocità di depurinazione contribuendo a ren- dere più probabile il recupero di materiale genetico a partire dalle ossa fossili.

Anche i gruppi amminici delle basi sono suscettibili di idrolisi, che può provocare deaminazione. Nel DNA a singolo filamento la velocità di deaminazione è simile per pirimidine e purine; la conformazione a doppia elica invece offre maggiore stabilità per le pirimidine (l’emivita

3.1 il problema delle contaminazioni 31

di un residuo citosinico in una molecola a doppio filamento a 37° e pH 7.4 è mediamente 30.000 anni). Per questi motivi la depurinazione può essere considerata come il principale meccanismo di degradazione del DNA in soluzione (Lindahl e Nyberg, 1972). D’altronde disidratare il DNA per impedire l’idrolisi sarebbe impossibile poichè le molecole d’acqua sono indispensabili per mantenere la struttura stessa del DNA, che una volta disidratato sarebbe ancora più vulnerabile.

L’ossidazione costituisce la forma principale di modificazione post mortem del DNA: nella cellula il nucleo è povero di ossigeno mentre do- po la morte, quando la membrana nucleare si rompe, ne contiene molto di più. L’ossigeno, attraverso la produzione di radicali liberi idrossi- lici, converte la guanina in 8-idrossi-guanina; così gli attacchi ossida- tivi danneggiano contemporaneamente sia le basi (in particola modo Timina e Citosina) che perdono un doppio legame e la loro originaria struttura ad anello, andando così incontro a frammentazione (Lindahl

e Andersson, 1972), sia gli zuccheri impedendo l’accoppiamento dei

nucleotidi danneggiati con quelli del filamento opposto.

Come già accennato prima sia variazioni di pH, che temperature ele- vate costituiscono un ostacolo alla conservazione del DNA: in partico- lar modo queste ultime, oltre a mettere alla prova i legami a idrogeno e le forze di Van der Waals, favoriscono il proliferare di batteri, muf- fe e altri organismi che contaminerebbero in modo molto consistente il DNA antico, degradandolo e rendendone particolarmente problematica l’analisi.

È comune opinione degli studiosi che la decomposizione cominci al momento della morte, immediatamente dopo di essa, anche se la visi- bilità esterna dei suoi effetti sia relativamente successiva. In questa fase la decomposizione è causata principalmente da due fattori: autolisi (la suddivisione dei tessuti dai propri prodotti chimici interni del corpo ed enzimi) e putrefazione propriamente detta (scissione degli elementi co- stitutivi dei tessuti operata dai batteri). L’ autolisi comincia subito dopo la morte di un organismo: la membrana nucleare si rompe ed i compo- nenti del citoplasma e del nucleo si mescolano. I vari enzimi, le nucleasi, normalmente isolate dal nucleo possono allora agire e “digeriranno” il DNA, fenomeno favorito ad una temperatura di 37 C°. Il funzionamen-

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Figura 15: Danni riportabili dal DNA antico. Con le frecce sono indicati i siti in cui le molecole di DNA subiscono modificazioni chimiche che ne determinano la degradazione. Le principali sono la depurinazione, la deaminazione ed i danni ossidativi (modificato da (Hofreiter, M. et al.,2001a).

to post mortem delle nucleasi cessa quando terminano all’interno della cellula le scorte di ossigeno. I micro organismi velocemente iniziano a fare il resto. Il processo è identico a quello autolitico con la liberazione di esonucleasi ed endonucleasi che deteriorano le molecole restanti.

Come si è visto, la maggior parte dei danni post mortem avvengono come rotture della doppia elica e modificazione ossidativa del nucleoti- de, impedendo, in entrambi i casi, la successiva replicazione enzimati- ca. Tuttavia, modificazioni minori della sequenza, come nel caso della deamminazione idrolitica e della depurinazione, permettono il corretto funzionamento della polimerasi e si manifestano con un numero limi- tato di basi variate all’interno dei cloni sequenziati (Krings, M. et al.,

1997).

I prodotti di amplificazione del aDNA sono caratterizzati comune- mente da errori, con una prevalenza generale verso le transizioni di

3.1 il problema delle contaminazioni 33

C-G in T-A ed una inferiore di A-T in G-C (Hansen, A. et al., 2001;

Hofreiter, M. et al., 2001b; Gilbert, M.T.P. et al., 2003). Il numero alto

di transizioni C-G in T-A sembra essere dovuto all’alto tasso di deam- minazione idrolitica della citosina ad uracile ed a timina. Nei primi anni del secondo millennio si è così provveduto a creare dei modelli di distribuzione dei danni post mortem a livello del DNA mitocondriale umano.

In uno studio condotto da Gilbert nel 2003 è stata analizzata la di- stribuzione del danno post mortem nel DNA mitocondriale recuperato, amplificato e clonato a partire da 37 campioni umani antichi; le sequen- ze dei cloni ottenuti sono stati paragonati ad una selezione di dati già pubblicati. Dopo aver calcolato il tasso relativo di danno per le posizio- ni del nucleotide all’interno della prima regione ipervariabile umana (HVRI) e dei geni dell’unità secondaria della Citocromo Ossidasi III, at- traverso il confronto dei loci danneggiati intra e tra le regioni, è stato rilevato che esistono degli hot spots di danno che, nella HVRI, sono cor- relati con siti noti per avere in vivo alti tassi di mutazione. Per contro, la sottoregione HVRI, con funzione strutturale conosciuta, come MT5, ha in vivo tassi di mutazione più bassi diminuendo così i tassi di danno post mortem. I dati post mortem, inoltre, hanno identificato una possibile sottoregione funzionale della HVRI, chiamata a “bassa-diversità 1“,con la mancanza di danno della sequenza. La quantità di danni post mor- tem osservata nelle regioni mitocondriali di codificazione risultava così significativamente più bassa che nell’HVRI.

La distribuzione di questi siti, regolarmente danneggiati negli esse- ri umani, è molto simile a quella osservata nelle normali sostituzioni evolutive, stando a significare che il danno dell’aDNA può generare sequenze artefatte che imitano i cambiamenti evolutivi previsti. Sulla base dello spettro dei danni post mortem osservati, è stato quindi intro- dotto un semplice metodo per l’identificazione di eventuali errori per l’attribuzione dei corretti aplogruppi (Gilbert, M.T.P. et al.,2003)

Nonostante questi accorgimenti, il tempo ed il modo in cui avven- gono i danni post mortem rimangono non del tutto compresi per poter progettare efficaci trattamenti enzimatici di riparazione in vitro per lo studio del DNA antico. Il continuo incremento di dati disponibili, e

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recuperati da una vasta gamma di substrati, potrà permettere di verifi- care le varie ipotesi al fine di determinare esattamente il filo specifico dell’origine degli eventi di danno osservati (Gilbert, M.T.P. et al., 2007).

Di recente è stato anche presentato un modello (Ho, S.Y. et al., 2007) che, usando uno studio di simulazione, valuta la quantità dei danni nei dati del DNA e rappresenta i relativi effetti in una struttura filogenetica bayesana. I risultati indicano che gli alti tassi di mutazione, precedente- mente valutati dai set di dati del aDNA, non sono completamente rela- tivi ai siti di danno della sequenza, ma sono probabilmente dovuti ad altri fattori quale, per esempio, la persistenza dei polimorfismi transito- ri. Tale modello sembra essere particolarmente utile per la collocazione dei limiti superiori di credibilità sulla quantità di danno di sequenza in fase di allineamento, motivo per cui questo modello potrebbe essere utilizzato sia per i futuri studi sul DNA antico, ma anche per la valu- tazione degli errori di ordinamento nel DNA moderno (Mallegni e

Lippi, 2009).

3.1.2 I Golden Criteria

I problemi legati agli studi sull’aDNA dati sia dalla struttura in sè della molecola, che da problemi legati alla metodologia di indagine, devo- no essere limitati il più possibile. Questo in parte è attuabile grazie a un rigoroso protocollo d’indagine basato principalmente su quelli che vengono definiti i Golden Criteria (Cooper e Poinar, 2000) che sono:

• separazione fisica delle aree di lavoro nelle fasi di pre e post amplificazio- ne;

• inserimento di controlli negativi in fase di estrazione e amplificazione; • valutazione del grado di preservazione biochimico delle molecole antiche; • amplificazione di frammenti corti di DNA;

3.1 il problema delle contaminazioni 35

Figura 16: Situazione ideale di scavo.

3.1.3 Il recupero dei reperti

La collaborazione fin dalle prime fasi di scavo tra antropologo moleco- lare e il resto dello staff è fondamentale. Se si decide di effettuare uno studio molecolare su determinati campioni è utile pianificare l’azione fin dall’inizio, in modo da individuare subito il campione destinato alle analisi.

La metodologia migliore è quella di assicurarsi che appena il reper- to viene riportato in superficie, si manipoli con guanti e mascherina (sarebbe appropriata anche una tuta sterile), si ponga in sacchetti ste- rili, si controlli lo stato di umidità dell’osso e si provveda a un’utile asciugatura schedandolo adeguatamente (è indicato, nel caso il cam- pione provenga da grotte o ghiacciai porlo in un contenitore termico isolato con ghiaccio, non deve infatti risentire di forti cambiamenti di temperatura).

36 m e t o d i

Al fine di far arrivare in laboratorio il maggior numero di informa- zioni bisogna prelevare anche un campione o più (nel caso di evidenti differenze) del terreno di giacitura così da permettere una possibile analisi di organismi presenti nel terreno ma anche una possibile analisi dei processi di diagenesi. Nel caso di utilizzo di consolidanti per l’a- sporto di terreno è bene conoscerne la composizione in modo da poter asportare prima il reperto di interesse.

È da evitare la pulizia con acqua e, anche se sporco di terra, il campio- ne andrebbe consegnato al laboratorio senza essere pulito. Per elimina- re eventuali incrostazioni calcaree bisognerebbe usare metodi meccanici anziché acidi in quanto questi ultimi distruggono il DNA.

Andrebbero privilegiati nella scelta dei campioni distretti scheletrici ricchi in tessuto osseo compatto e poco importanti per lo studio morfo- metrico come coste e falangi. Per le ossa lunghe è possibile ricavare un tassello a forma di cuneo che non pregiudichi le analisi morfometriche, da estrarre con un seghetto monouso o sterilizzato dopo ogni utilizzo. Per i denti è possibile prelevare il campione dalla parte interna usando un microcarotatore, avvantaggiando così l’analisi molecolare, in quanto è la dentina che contiene il DNA meglio conservato, e nel contempo evitando di alterare la morfologia del reperto in modo eccessivo.

Il campione deve pervenire velocemente al laboratorio di analisi con i dati relativi a tutte le persone che l’hanno manipolato (la cosa migliore è che sia una sola e che in ogni caso sia disposta a sottoporsi a tipizzazio- ne). Qualora non sia possibile inviarlo immediatamente al laboratorio di analisi del DNA, il campione andrebbe conservato in freezer a -20°

C (Pruvost, M. et al., 2007).

3.2 a n a l i s i d i l a b o r a t o r i o. metodologie applicate

3.2.1 Il laboratorio

Il lavoro di analisi del DNA antico è stato effettuato preso il labora- torio di Antropologia Molecolare dell’Università di Firenze, mentre la successiva analisi dei dati ottenuti si è svolta presso il Dipartimento di Biologia ed Evoluzione dell’Università di Ferrara.

3.2 analisi di laboratorio. metodologie applicate 37

Figura 17: Planimetria del laboratorio dove si sono svolte le analisi (Laboratorio di Antropologia, Università di Firenze).

Come già affermato precedentemente, per poter effettuare le analisi sul DNA antico e ottenere dati autenticabili è necessaria la divisione delle aree di lavoro. Per questo motivo il laboratorio dedicato a queste analisi deve essere strutturato, e tutte le attività svolte al suo interno ge- stite, nel rispetto dei criteri sopra citati. Il laboratorio di Antropologia Molecolare dell’Università di Firenze è pertanto organizzato secondo lo schema in Figura 17. Nella zona PRE-amplificato vengono svolte tutte le fasi di lavoro precedenti all’amplificazione del DNA: lo stoccaggio, la pulizia e la preparazione del campione, l’estrazione del DNA e la preparazione della miscela di reazione per la PCR. Mentre nella zona POST-amplificato vengono effettuate le analisi elettroforetiche, il clo- naggio e la reazione di sequenza. Questi due settori sono fisicamente separati, gli strumenti e tutti gli oggetti presenti nella zona POST non

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devono assolutamente mai essere introdotti nella zona PRE, così come gli operatori, una volta stati nella zona POST non possono più accedere alla zona PRE nell’arco della stessa giornata, per evitare di contaminare l’ambiente ed i campioni.

Ogni superficie di lavoro viene sistematicamnte sterilizzata mediante ipoclorito di sodio o nel caso vengano svolte attività con un alto potere contaminante (pulizia del campione ed estrazione del DNA, prepara- zione della mix per la PCR) vengono irradiate mediante raggi UV a 254 nm che inducono la formazione di dimeri di timina e la conseguente distruzione del DNA potenzialmente contaminante.

3.2.2 La pulizia del campione ed estrazione del DNA

Per poter procedere alla fase di estrazione è necessaria una fase pre- liminare di pulizia del campione. Entrambe le operazioni si svolgono sotto una cappa aspirante previamente sterilizzata dopo ogni utilizzo con raggi UV a 254 nm. Durante tutta la durata dell’esperimento l’o- peratore deve necessariamente indossare una tutta sterile o un camice monouso, una mascherina e un paio di guanti sterili che devo essere cambiati ogni qualvolta si tratti un campione diverso.

Per pulire il campione ed eliminare un possibile strato contenente DNA esogeno, si procede legivando la superficie dell’osso con carta abrasiva o nel caso di sporco di maggiori dimensioni con un bisturi mo- nouso. In seguito ogni superficie del frammento osseo viene irradiata ortogonalmente per 45 minuti con raggi UV a 254 nm.

La base di partenza dell’estrazione sono le polveri ricavate dal cam- pione pulito, per farle viene utilizzato un mortaio di ceramica prece-

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