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“Canadian Experience” è, evidentemente, ciò che Smaro Kamboureli non descriverebbe come una “multicultural fairy tale”, a dimostrazione del fatto che il Canada risulta, ai suoi immigranti, terra non ospitale: “Canada is hospitable to

immigrants”.204 Infatti, il racconto sostanzialmente descrive l’autodistruzione del protagonista, un immigrato proveniente da Barbados, che trascorre i primi cinque anni del suo soggiorno a Toronto, vivendo a stento di lavori sottopagati affidati solo ed esclusivamente ad immigrati: “in and out of low-paying jobs given

specifically to non-landed immigrants”.205 All’inizio del racconto, lo troviamo in

202

Non si può nascondere il sospetto che alcune limitazioni che accompagnano la lettura di Taylor dei concetti di identità e di multiculturalismo contenuti in “The Politics of Recognition” scaturiscano, in parte, non solo dalla fiducia che il filosofo ripone nella tradizione umanistica occidentale, ma anche, attraverso il suo esclusivo epicentro sul caso della minoranza del Quebec che insiste sulla propria autosufficienza, autonomia e originalità.

203

Cfr., L. Hutcheon, Other Solitudes, cit.. 204

S. Kamboureli, Scandalous, cit., p. 87. 205

procinto di andare ad un colloquio di lavoro, che sembrerebbe prestigioso, dopo aver risposto ad un annuncio di ricerca di un laureato in discipline economico- finanziarie: “energetic junior executive with a university degree in business or in

finance, or the equivalent in business”.206 Egli, pur non possedendo le qualifiche richieste, è soprattutto angosciato dal fatto di non possedere “l’Esperienza Canadese” (“Canadian Experience”), requisito richiesto per quel tipo di lavoro o per qualsiasi lavoro dignitoso a cui si possa ambire. È questo stato di angoscia che lo porta a rivalutare gli ultimi avvenimenti della sua vita, inclusa la decisione, presa contro la volontà di suo padre, di emigrare in Canada, trovandosi, altresì, a ragionare quanto cupa sia stata la sua vita a Toronto, fin dal suo arrivo. Alla fine, conscio di non possedere una “Esperienza Canadese” sufficiente e troppo intimidito dal “First Canadian Place”, il mostruoso edificio a torre, costituito da uffici, nel quale avrebbe dovuto avere luogo il fatidico incontro di lavoro, decide di non andare al colloquio. Successivamente, riflettendo sulla sua esitazione o vigliaccheria, il protagonista ricorda le parole di suo padre che lo esortavano a non lasciare Barbados per il Canada, così poco familiare: “you come telling me you are going to Canada as a’ immigrant? To be

a stranger? Where Canada is? What is Canada”,207 Ora, vagando disorientato per la città, entra in una stazione della metropolitana e, in modo enigmatico, perde la capacità di valutare qualsiasi distanza (“gauge any distance”).208 Il racconto si chiude con l’immagine del ragazzo che si incammina sui binari del treno in arrivo.

Intitolando questa short story “Canadian Experience”, Clarke fa, chiaramente, riferimento agli ostacoli ed alla discriminazione sistemica di fronte alla quale si trova quella minoranza etnica e razziale costituita dagli immigrati, nel momento in cui fanno domande di lavoro. Vi è l’allusione a come la capacità personale di svolgere un lavoro qualificato possa essere estremamente sottovalutata, semplicemente perché una persona non possiede l’ “Esperienza Canadese” o, simbolicamente parlando, non possiede il grado di ‘indigenità

206 Ibidem, p. 51. 207 Ibidem, p. 61. 208 Ibidem, p. 62.

immaginata’ che consentirebbe inconsciamente a ciascuno di varcare la soglia del “First Canadian Place”: il prestigioso regno della cultura e dell’economia. Se “Canadian Experience” non può essere considerata una “multicultural fairy tale”, non si tratta neppure di una “storia di protesta” convenzionale, da cui ci si potrebbe aspettare una chiara rappresentazione della discriminazione razziale o culturale, che spesso gli immigrati si trovano a dovere affrontare. Qui, il protagonista (contrariamente a molti immigrati recenti) non possiede, di fatto, le qualifiche necessarie per il lavoro che cerca; né la storia riporta apertamente atti di discriminazione razziale o culturale nei suoi confronti. Nessun ufficio gli sbatte la porta in faccia: il protagonista, la cui razza non viene neppure identificata, è il solo ed unico responsabile del proprio destino. Questi elementi rappresentano una marcata distinzione rispetto alle altre storie contenute in Other

Solitudes: storie che sono state selezionate come rappresentative della realtà

multiculturale del Canada perché, ad una lettura superficiale, sembrano annunciare e descrivere l’etnicità e la razza in modo molto diretto come nel “Racial Memories” di Matt Cohen, che inizia così: “The beard of my grandfather

was trimmed in the shape of a spade. Black at first, later laced liberally with white, it was also a flag announcing to the world that here walked an orthodox Jew”.209

Ciononostante, un’analisi più accurata dimostra che “Canadian Experience” possiede degli elementi importanti riguardanti la razza, l’etnicità e l’immigrazione, relativamente al contesto canadese. Quello che dovrebbe essere, a questo punto, sottolineato è il fatto che sia Dionne Brand che Austin Clarke fanno allusione alla storia, quando criticano (e non celebrano) gli sforzi “ufficiali” fatti per rappresentare le minoranze etniche o razziali in Canada. Dionne Brand nella prefazione al libro The Austin Clarke Reader ci mette in guardia sui pericoli di creare delle letterature di serie B che definisce come “sotto-letterature o letterature etniche” che trovano una loro definizione solo mettendo in luce le loro differenze nei confronti delle letterature di canone:

209

“What these literatures are required to do is constantly 'refer' to Canada

and refer to their own differences as anomalous. Anomalous, not challenging or equal to 'Canadian Experience.' One can say then that these literatures are only allowed one book. The same book, from its different ethnicities; versions of a Canadian myth of the perpetual newcomer/outsider. Versions which help in the project of shaping the elusive Canadian identity by pointing to its difference from it.”210

Come osservato precedentemente, Neil Bissoondath, nipote di S.V. Naipul, egli stesso autore di numerosi romanzi e testi critici, attacca il multiculturalismo poiché sembra mettere a repentaglio un forte senso di identità nazionale e patriottismo, Dionne Brand sostiene, al contrario, che sia proprio il riconoscimento “etnico” a rafforzare un senso di identità nazionale. Per la scrittrice, il riconoscimento dello stato di minoranza, etnica o razziale, non rappresenta più una soluzione alla propria emarginazione, o mancato affrancamento, ma, almeno potenzialmente, diventa un ulteriore problema. Inoltre, nel fare riferimento alle letterature “alle quali è concesso un solo libro” (only allowed one book”,211) la Brand forse ha in mente progetti letterari quali

Other Solitudes. Il suo riferimento acuto a “Canadian Experience” suggerisce,

altresì, la convinzione che gli scritti di Austin Clarke indichino qualcosa di più complesso e problematico di una mera rappresentazione “etnica”.

L’autore stesso fa riferimento al racconto nel dare voce ai suoi sospetti sul modo in cui individui e gruppi vengono automaticamente riconosciuti, nel contesto canadese, come “ethnic”, e “othered”. Nella sua prefazione a Nine Men

Who Laughed, la raccolta di novelle in cui “Canadian Experience” fu pubblicata

la prima volta, Clarke sostiene, da un lato, che l’uomo di “Canadian Experience” ha dimenticato di esercitare la propria identità, ma, dall’altro, che le sue storie nella raccolta non sono sui ‘Neri’:

“It would be suicidal to permit that categorization of these stories. The men are

black only because they live in Toronto, in a society which has officially branded them 'immigrants' from the West Indies. Their cultural ancestry is a greater force than their color of the branded status of' immigrant.”212

210

Si veda la Prefazione di D. Brand in B. Callaghan (ed.), The Austin Clarke Reader, Toronto, Exile Editions, 1996, pp. 15-16.

211

B. Brand, Bread Out of Stone, Toronto, Vintage, 1998, p. 78. 212

Clarke, chiaramente, non sta negando l’importanza di apprezzare l’ancestralità culturale di ognuno, sostenendo, apparentemente come Bissoondath, che per i nuovi immigrati in Canada sia preferibile assimilare velocemente ed ‘abbandonare’ il proprio bagaglio culturale; piuttosto, sta suggerendo che l’imposizione di una interpretazione sul lettore viene facilitata quando si definiscono, preventivamente, le persone – come il protagonista di “Canadian Experience” – con termini che significano (e garantiscono) la loro differenza rispetto alla maggioranza canadese.

Alludendo a “Canadian Experience”, perciò, sia Brand che Clarke criticano in modo importante il discorso multiculturale e, in particolare, il concetto di Taylor secondo cui il riconoscimento multiculturale o “etnico” è un processo trasparente e necessariamente positivo. I due scrittori evidenziano che la politica del multiculturalismo ufficiale può essere complice in quel processo che, in realtà, sostiene di volere rimediare: che è in grado, con modi molto sottili ma efficaci, di identificare gli individui come ‘etnici’ o ‘estranei’ per (ri)garantire l’appartenenza al gruppo culturale dominante. Tale giudizio sulle politiche multiculturali si trova in linea con il pensiero di Smaro Kamboureli secondo cui la Legge sul Multiculturalismo perpetua una politica che tende a riconoscere le differenti etnie per poterle gestire: “sedative politics, a politics, a politics that

attemps to recognize ethnic differences, but only in a contained fashion, in order to manage them”.213

“Canadian Experience”, di per sé, conduce, tuttavia, ad una critica al multiculturalismo leggermente diversa; una critica che mette in discussione la nozione di un sé culturale, così come è stato descritto da Taylor ed esposto in diversi altri discorsi multiculturali. Laddove, infatti, Taylor insiste che la autenticità culturale sia dipendente dall’atteggiamento di fedeltà alla propria originalità (“being true to my own originality, which is something only I can

articulate and discover”),214 Kamboureli ritiene che Taylor sostenga, in modo erroneo, che i sé o le identità culturali appartengano ad un “whole” e ad una

213

S. Kamboureli, Sandalous, cit., p. 82. 214

“unitary essence”.215 In“Canadian Experience” il sé intero ed omogeneo di Taylor è completamente assente. Nel brano in cui il protagonista si sofferma a guardarsi in uno specchio mentre sta andando ad un colloquio di lavoro, per la prima volta, egli ha la premonizione che la sua immagine sia incorretta, e non arriverà mai ad una piena consapevolezza di chi in realtà egli sia: “His eyes and

their reflection made four. He stood looking at himself, laughing, and seeing only a part of hisbody in the punishing reflection the glass threw back at him. He was cut off at the neck. He laughed again. This time, at the morbidness of his own thoughts. The knot of his tic was shiny with grease. He did not like himself. He was not dressed the way he had hoped to appear, and his image was incorrect. This made him stop laughing”.216 Per l’intera durata del racconto non riesce a riconoscere se stesso come “whole” o intero; ma, al contrario, si imbatte in una serie di riflessioni distorte o alterate, di se stesso. Il suo sé, fondamentalmente distorto, viene suggerito fin dal paragrafo iniziale del racconto, quando i suoi occhi si ‘intrecciano’ davanti ad uno specchio, provocando una visione sfocata; e, di nuovo, nel paragrafo finale, quando i suoi occhi si intrecciano nuovamente, ma, questa volta, seguendo i binari del treno della metropolitana. La mancanza di una rappresentazione visiva ‘completa’, o non distorta, del sé culturale e razziale del protagonista, acquista significato se lo si accosta ad una scena presentata in un capitolo di Black Skin White Masks di Fanon, intitolato “The Facts of Blackness”.217 In questo capitolo l’anonimo personaggio sembra avere dei problemi nel momento del confronto con il suo “bodily schema”. Sconvolto da rappresentazioni razziste, egli stranamente immagina il proprio corpo come mutilato o reciso (“an amputation, an excision,

a hemorrhage”).218 La chiave, per comprendere la visione negativa che il protagonista ha di se stesso, sembra risiedere nelle parole di apertura, nel grido anonimo: “Look a negro”. Avvalendosi del linguaggio psicanalitico, che ci aiuta nella comprensione del libro di Fanon, si potrebbe affermare che il protagonista cerca, in modo isterico e violento, di respingere l’identità spregiativa ed

215

S. Kamboureli, Scandalous, cit., p. 116. 216

A. Clarke, “Canadian Experience”, cit., p. 49. 217

F. Fanon, Black Skin White Masks, New York, Grove Press, 1967.

218

insoddisfacente che gli è stata attribuita. Già nelle teorie di Freud e Lacan, l’immagine del proprio corpo rovinato e distrutto è un classico sintomo di isteria, e, in questo caso, ci aiuta di più a comprendere la descrizione di isteria, fortemente politicizzata, fornita da Slavoj Zizek: “what is hysteria if not precisily

the effect and testimony of a failed interpellation…an articulation of the incapacity of the subject to fulfill the simboli identification, to assume fully and wiyhout restarint the simboli mandate”.219 Si può pensare (poiché pensare è tutto ciò che possiamo fare) che il protagonista di “Canadian Experience” stia attraversando semplicemente questa fase di rifiuto isterico di un’identità peggiorativa imposta. Nonostante l’effettiva imposizione di tale identità da parte degli altri non sia mai chiaramente articolata nel racconto, si può, tuttavia, dire che essa adombri l’esperienza generale, che Clarke drammatizza, e che possa essere adeguatamente codificata da una persona in grado di apprezzare la crisi generata dall’essere semplicisticamente identificato negativamente come ‘un immigrato’ o ‘un Negro’, specialmente quando si crede tragicamente che non sia possibile l’attribuzione di altre.

L’obiettivo, in questo lavoro, non è di arrivare ad alcuna diagnosi del protagonista di “Canadian Experience”, ma piuttosto di sottolineare che, quando si segue questa linea di ragionamento – quando si coltiva l’idea che il proprio sé culturale o razziale non è sempre evidente, globale ed unitario –, allora si abbandona un presupposto fondamentale della politica del riconoscimento definita da Taylor e condivisa dalla maggior parte degli esponenti del multiculturalismo. Secondo un’ottica multiculturale, l’‘autenticità’ delle identità culturali è manifesta per il singolo ed il suo intimo gruppo culturale; il potenziale del mancato riconoscimento o della distorsione emerge soltanto quando i singoli, o i gruppi culturali, si impegnano con “Altri” (“Others”) che non fanno parte della loro comunità. In “Canadian Experience” siamo forzati a confrontarci con la possibilità che le nozioni di un autentico sé culturale non combacino, in realtà, con le discordanti vite interiori di tutti i singoli, ma forse solo con quelle dei singoli immigrati, spaesati e non affrancati. Ironicamente, in “The Politics of

219

Recognition”, Taylor identifica Franz Fanon come uno dei maggiori esponenti intellettuali della politica di riconoscimento contemporanea. Di fatto Fanon rivela, nelle parole di Taylor, che “i gruppi dominanti tendono a fortificare la loro egemonia inculcando un’immagine di inferiorità nei soggiogati”;220 tuttavia, come già sottolineato, Fanon rileva che, a causa della violenza del colonialismo (razzismo, bigottismo, ecc.), la politica di resistenza non può essere predicata basandosi interamente sul recupero di un sé culturale ‘autentico’ ed immanente, che attende pazientemente di essere riconosciuto; ma, piuttosto, come ripete insistentemente in Black Skin, White Masks, il sé colonizzato/etnico diventa esso stesso il luogo di conflitto e discordia.221

“Canadian Experience”, pur essendo al contempo un racconto potente e una storia limitata, dati gli obiettivi di questo capitolo, ci permette di andare al di là delle nozioni di complessità, chiarezza, culturalità ‘autentica’ proposte dal multiculturalismo; tuttavia, non illustra realmente i complessi dialoghi sociali che cercano di tipizzare tutte le identità culturali, che, di fatto, costituiscono una critica importante al discorso multiculturale. Tale dialogismo appare, invece, in

The Toronto Trilogy. Nelle due sezioni immediatamente successive si cercherà,

perciò, di mostrare come Clarke esplori e rappresenti la natura dialogica dei nostri sé culturali attraverso l’esperienza dell’immigrazione e la collocazione spaziale della città. Inoltre, nell’ultima sezione, attraverso la rappresentazione che l’autore fornisce di un personaggio bianco – Mr. Burrmann – si arriverà a

220

“dominant groups tend to entrench their hegemony by inculcating an image of inferiority in the

subjugated”, F. Fanon, Black Skin, White Masks, cit. p. 66.

221

Homi Bhaba sostiene che la rappresentazione di Fanon della figura del colonizzato, presente in

Black Skin, White Mask, mette in crisi la nozione umanista di un io unico razionale ed essenziale.

Specificamente, mette in dubbio la formazione di un’autorità indiviaduale e sociale all’nterno di un discorso di sovranità sociale: “In articulating the problem of colonial cultural alienation in the psychoanalytic

language of demand and desire, Fanon radically questions the formation of both individual and social authority as they come to be developed in the discourse of Social Sovereignity” (“Remembering Fanon, Self Psyche and the Colonial Condition", in Patrick Williams and Laura Chrisman (eds.), Discourse and Post-Colonial Theory, New York, Columbia University Press, 1994, p. 115). Egli continua, poi, affermando la razionalità storica e la coesione culturare assumono un’identitò con il soggetto solo quando a quest’ultimo gli è conferito il proprio satus sociale: “The social virtues of

historical rationality, cultural cohesion, the autonomy of individual consciousness assume an immediate, utopian identity with the subjects upon whom they confer a civil status”, Ibidem, pp. 115-6. Questo modello illuminato dell’io in

società permea i dibattiti contemporanei sul multiculturalismo, come suggerisce il saggio di Taylor. Tuttavia, nelle parole di Bhabba, tale modello fallisce a causa di una alienazione psichica e sociale, della pazzia, dell’aggressività e della violenza che divide i cittadini e sfida le nozioni convenzionali di identità. (Cfr., Ibidem, p. 116.) In breve, il critico enuncia il processo psichico discordante che la stessa politica del riconoscimento non è in grado di riconoscere.

riconoscere l’identità culturale o razziale non come essenza unitaria, ma come complesso effetto di proiezioni, fantasie ed identificazioni intersoggettive. Si inizierà con il proporre una breve contestualizzazione storica ed un riassunto della trama della raccolta The Toronto Trilogy, per riuscire a fornire uno schema di massima che ci guiderà nelle successive discussioni.