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Le diverse comunità europee che si sono succedute, a partire da quelle costituite negli anni Cinquanta, trovano le motivazioni della loro istituzione in ragioni prettamente economiche. Non a caso, soprattutto nei Trattati originari è ben presente un orientamento e indirizzo strettamente legati al libero mercato europeo. Tuttavia, furono indirettamente interessati (e poi codificati), via via con maggior concretezza, anche i problemi del lavoro, nonostante le preoccupazioni sociali rimanessero secondarie rispetto a quelle di creare e promuovere un mercato unificato (prima a livello di Europa Occidentale, poi su scala continentale), fondato sulla concorrenza.

Infatti, il Trattato CECA, ideato da Jean Monnet e confluito nel Piano Schuman, allora Ministro degli Esteri francesi, non superava gli obiettivi comunitari dell’incremento dell’occupazione e della promozione del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera, permettendone l’uguagliamento nel progresso (art. 2 e 3). Tuttavia escludeva ogni competenza sovranazionale in materia sociale.

Nel Trattato di Roma sono delineate alcune clausole sociali, a partire da quella contenuta nell’art. 117, che ripropone – con maggiori precisazioni – l’art. del Trattato CECA. Infatti, “gli Stati membri convengono sulla necessità di promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la loro parificazione nel progresso”, che discenderà in primo luogo dal funzionamento del mercato comune.

Come ricordano Tiziano Treu e Massimo Roccella, era radicata – è tutt’ora persiste – “la fiducia nelle capacità spontanee del mercato di promuovere anche il miglioramento e l’armonizzazione dei sistemi sociali, come affermava testualmente l’art. 117 del Trattato di Roma”166. Solamente se non operasse l’ “automatismo di mercato”, potranno servire “disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative”. Queste scelte politiche riflettevano le teorie funzionaliste in voga negli anni Cinquanta, che hanno dimostrato –

nonostante alcune brusche crisi e frenate nel processo di integrazione – di essere quelle preferite dalla maggioranza delle classi politiche e dirigenti nazionali, spesso alla ricerca di un difficile e instabile equilibrio tra interessi prettamente nazionali ed europei. Comunque sia, la “parificazione nel progresso” doveva (e deve) attuarsi “verso l’alto” e non “verso il basso”, con allineamento alle condizioni ed alle normative migliori. L’art. 118 affidava alla Commissione il compito di promuovere una stretta “collaborazione” fra gli Stati membri nel campo sociale, riferendosi espressamente a materie precise: occupazione, diritto al lavoro e condizioni di lavoro, formazione e perfezionamento professionale; sicurezza sociale; protezione contro gli infortuni e le malattie professionale, igiene del lavoro; diritto sindacale e (in particolare) contrattazione collettiva. Come appare evidente, la sola “collaborazione” è uno strumento debole per l’armonizzazione, dal momento che ne deriva esclusivamente un vincolo alla consultazione reciproca. Tuttavia, l’articolo seguente del Trattato appariva più incisivo e applicabile: sanciva la “parità retributiva fra lavoratori e lavoratrici”. Ciò appare paradigmatico del “pensiero dominante” dell’epoca: anche questa indicazione sociale era derivata dall’ispirazione di fondo del Trattato, cioè dall’esigenza di parificare le condizioni della concorrenza. Infatti, fu la Francia a insistere sull’approvazione della norma, perché l’aveva già introdotta nel proprio ordinamento e temeva l’alterazione della concorrenza a suo sfavore nei settori ad alta occupazione femminile (ad esempio nel tessile), per la possibilità della compressione del costo del lavoro negli altri Stati (e in particolare in Italia). Ciononostante, l’art. 119 ha rappresentato una delle “fondamenta” giuridiche di alcune conquiste successive del movimento femminista, sulla strada per l’autodeterminazione delle donne nella società europea (e occidentale), anche se – come si è precedentemente rilevato dai dati statistici comparativi proposti – con risultati molto diseguali fra i Paesi membri e soprattutto fra i diversi modelli di Welfare.

Altri articoli del Trattato del 1957 si occupano di questioni sociali, come la libera circolazione dei lavoratori comunitari, il Fondo Sociale Europeo, la formazione professionale, il Comitato economico e sociale. In generale, i contenuti di queste norme si ispirano a due filoni che poi rimarranno presenti nell’evoluzione della costruzione europea:

1) le politiche di sostegno all’impiego e di regolazione del mercato del lavoro; 2) l’armonizzazione delle normative sociali dei Paesi membri.

I risultati migliori si sono ottenuti nel primo campo, tant’è che il concetto stesso di “armonizzazione” – piuttosto indeterminato – è ancora oggetto di (e viene messo in) discussione.

Dalla fine degli anni Cinquanta alla fine del decennio successivo, l’azione sociale della Comunità si focalizza prevalentemente nel raggiungimento della libera circolazione della manodopera comunitaria, completando le tre tappe previste entro il 1968 e rimovendo tutte le barriere giuridiche alla mobilità compresa quella riguardante la sicurezza sociale, in una congiuntura di quasi strutturale crescita economica sostenuta167.

Nel clima post-Sessantotto aumenta l’attenzione verso la dimensione sociale dell’Europa, giungendo all’approvazione, nel 1974 da parte del Consiglio, del primo “Programma d’azione in materia sociale”, che enfatizza l’interdipendenza fra azione economica e sociale. Propone tre obiettivi prioritari: 1) realizzazione del pieno e migliore impiego; 2) il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; 3) la partecipazione crescente delle parti sociali (quasi ignorate nel Trattato del 1957) alle decisioni della Comunità e dei lavoratori alla vita delle imprese. Lo strumento principale per il raggiungimento degli obiettivi sono le direttive approvate all’unanimità sulla base dell’art. 100. Ne derivarono importanti norme sulla parità fra uomo e donna in materia di retribuzione, condizioni di lavoro e previdenza, nonché sulla tutela della salute, con particolare riferimento a rischi specifici168.

Negli anni Ottanta si apre la congiuntura odierna, dove una parte delle istituzioni e le organizzazioni delle imprese chiedono deregolazione e flessibilità per rimediare all’eurosclerosi: la conseguenza è una consistente opposizione, o quantomeno ostilità, verso ogni ulteriore normativa sociale comunitaria. Tuttavia, faticosamente, si ottiene qualche miglioramento a partire dall’Atto Unico del 1986-87, con una progressiva espansione delle competenze europee in materie politiche e sociali e con una semplificazione dei vincoli nell’approvazione delle normative sull’ambiente di lavoro (passaggio dalla richiesta dell’unanimità alla maggioranza qualificata). L’Atto Unico presenta alcune innovazioni:

1) art. 118 A: si introduce la definizione – controversa – di “ambiente di lavoro”, specificando che le direttive sul tema potranno essere approvate a maggioranza qualificata in Consiglio. L’art. 100 A conferma l’unanimità per le disposizioni relative ai “diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti”, posto che fu bocciata la proposta di estendere il voto a maggioranza a tutte le materie sociali indicate nell’art. 118.

2) art. 118 B: impegna la Commissione a sviluppare il dialogo fra le parti sociali a livello europeo, prassi che fu finalmente codificata.

3) art. 130: si formula la nozione di “coesione economica e sociale” fra Stati membri e fra regioni intranazionali che le autorità comunitarie devono promuovere.

167

Idem, pp. 9-10.

Nel 1989 viene approvata la “Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali”, ovvero la “Carta sociale”, senza alcun valore normativo e senza introdurre aspetti particolarmente innovativi rispetto alla Carta sociale europea del 1961 e alle Convenzioni OIL169.

Purtroppo prosegue la “sfasatura tra la debole convergenza nei sistemi di regolazione sociale e di welfare e le accelerate convergenze del mercato finanziario”170: anche il vertice di Maastricht nel dicembre 1991 riflette questa “contraddizione”, nonostante si sancisca il passaggio dalle Comunità Economiche Europee alle Comunità Europee tout court. Inoltre, al Trattato e al Protocollo, viene allegato un Accordo sulla Politica Sociale (APS), che non è stato sottoscritto dalla Gran Bretagna, ma solamente dagli altri undici Paesi membri. L’art. 1 dell’APS amplia in modo significativo le materie sociali (oltre all’ambiente di lavoro) per le quali le decisioni possono essere prese a maggioranza qualificata (e non più all’unanimità): condizioni di lavoro, informazione e consultazione dei lavoratori, eguaglianza fra uomini e donne rispetto alle opportunità e al trattamento sul lavoro. L’Accordo, però, riconferma la regola dell’unanimità in particolare per la sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, mentre rimangono del tutto esclusi dalle competenze comunitarie i temi del diritto di associazione sindacale, di sciopero e di serrata171.

Dunque il processo di integrazione sociale ha riscosso maggiori successi in alcuni ambiti – almeno a livello di emanazioni legislative, in realtà non sempre prontamente applicate o fatte rispettare dagli Stati membri – come per le politiche dell’occupazione e della sicurezza e salute sul posto di lavoro; mentre ha inciso poco o nulla nell’area più generale del Welfare e dei rapporti fra istituzioni comunitarie e parti sociali, come – ad esempio – nella contrattazione collettiva. Dagli anni Novanta si è ridotto il peso dell’armonizzazione dall’alto, per via di direttive e regolamenti, mentre sono cresciute le spinte alla convergenza dal basso, promosse dagli attori sociali attraverso il metodo negoziale sponsorizzato a Maastricht. Quindi si è verificato uno spostamento dell’intervento comunitario da una “normativa legislativa” a un “coordinamento per obiettivi”, attraverso l’adozione di linee guida comuni, la promozione e il trasferimento di buone pratiche, la sorveglianza multilaterale dei governi nazionali, in concomitanza con l’esaltazione del principio di sussidiarietà sancita a Maastricht.

Si giunge così all’Agenda Sociale varata a Lisbona nel 2000 in cui si introduce il Metodo Aperto di Coordinamento (MAC). Tuttavia, a fronte di prese di posizione ottimistiche sul soft

power di questi metodi, emergono le debolezze intrinseche del MAC (ad esempio l’assenza di

169 Idem, p. 15. 170

Idem, p. 17.

procedure di verifica minimamente vincolanti, in stridente contrasto con quanto avviene per il Patto di Stabilità sul fronte finanziario), che potrebbe “coprire” la rinuncia a sostenere una vera europeizzazione delle politiche sociali. Nel 2000, a Lisbona, fu coniata anche la formula del “modello sociale europeo”, ripresa poi da politologi, geografi e sociologi. A Nizza nello stesso anno fu approvata la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, che enunciava pure i diritti sociali basilari, anche collettivi. Fra quest’ultimi è stato inserito lo sciopero che non era ancora riconosciuto in alcuni Paesi, con una scelta che va oltre il minimo comun denominatore172. Poi, la Carta è stata incorporata nell’ormai defunto “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” del 2004.

Treu e Roccella concludono che: “Sta qui l’asimmetria interna all’Europa sociale: al rafforzamento dei valori e degli obiettivi sociali non corrisponde un adeguamento degli strumenti di attuazione degli stessi173”. Inoltre si assiste all’affermazione di un ambiguo modello di “solidarietà competitiva”, che, secondo i due esperti, ha condotto negli ultimi anni addirittura ad un’ “accresciuta differenziazione – per settori e per territori” all’interno del mercato europeo, “esposto alle tensioni di un’economia sempre più internazionalizzata”174.

172 Idem, p. 30. 173 Idem, p. 31.

174 Per questo Treu e Roccella riprendono la tesi “che tali tensioni porterebbero all’affermarsi di un modello di

«solidarietà competitiva» fra regioni e settori del continente, diverso dalla «solidarietà distributiva» tipico della tradizione soprattutto socialdemocratica. La tesi segnala un problema reale, il cui esito non risulta però predeterminato in modo univoco. Nei vari ambiti delle politiche sociali coesistono elementi di convergenza – ove il coordinamento appare efficace – e aree in cui prevale e si accentua la diversificazione, non frenata dalle fragili procedure del soft law. […] Nelle relazioni industriali, la fissazione centralizzata delle dinamiche salariali di base e di alcuni grandi indirizzi normativi, realizzata nelle varie sedi della concertazione (nazionale), si accompagna a un crescente rilievo della contrattazione aziendale e della gestione aziendale delle risorse umane. […] Le tensioni e le difficoltà della convergenza sono acuite dall’allargamento della Comunità ai nuovi Stati dell’Est europeo, caratterizzati da esperienze storiche diverse e da condizioni economiche, sociali e istituzionali lontane dall’acquis communautaire, che pure questi paesi si sono impegnati a recepire”. Idem, pp. 36-37.

CAP. 7. LA CENTRALITÀ DEL CONFLITTO CAPITALE/SALUTE: IL NUCLEO DI