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CAPITOLO PRIMO L’ASCESA DELLE FACOLTÀ

1. Il transcensus dell’anima umana: dalla ratio all’intellectus

Cusano, nell’Idiota De mente, si sofferma sui vari poteri conoscitivi del- la nostra anima. Procedendo dal basso si trovano i sensi, legati indissolu- bilmente al mondo dell’esteriorità e della materia: gli organi predisposti alla sensibilità, attraverso lo “spirito sottilissimo che circola nelle arterie” (spiritus subtilis arteriarum), ricevono le species (o intentiones qualitatis)1

moltiplicate provenienti dagli oggetti esterni – quasi “nunzi delle cose vi- sibili” (nuntii visibilium) (Comp. VIII, 18; 339) –, e trasmettono l’urto (ob-

staculum) che esse offrono al moto di questo spirito corporeo all’anima ra-

zionale, che esercita sulle relative impressioni (o ‘segni sensibili’) la propria virtù discretiva per produrre un primo ordine di conoscenze: le no- zioni sensibili appunto, che sono obumbratae variabilitate materiae (Id.

De men. VII, 154); sicché, scrive Cusano, al livello dei sensi la mente co-

glie le forme delle cose in possibilitate essendi seu materia (ivi, 153).2

La ragione, rispetto al senso, concepisce “le immutabili essenze delle cose” astratte dalla materia, “usando per strumento se stessa senza spirito organico alcuno” (Id. De men. VII, 155; 149);3 essa ha la prerogativa di co-

gliere le forme “quali esse sono in sé e per sé”, per costruire su di esse le scienze e le arti matematiche. Si pensi a tal proposito alla geometria, me- diante cui la nostra mente, ad esempio, può costruire ‘notionaliter’ un triangolo idealmente perfetto e preciso, come non è dato trovare realizzato in natura, tra i cui elementi costitutivi (angoli e lati) possiamo stabilire vari 1 Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, In sententiarum IV, d. 44, q. 2.

2 Per la concezione cusaniana delle immagini sensibili (eidola), e sulla relativa pas- sività e ricettività della percezione sensibile si veda N. HENKE, Der Abbildbegriff

in der Erkenntnislehre des Nikolaus von Kues, Münster, Aschendorf, 1969, pp.

32-5.

3 CUSANO enuncia in proposito il principio aristotelico “nihil sit in ratione quod pri-

ordini di rapporti e di proporzioni numeriche, il cui valore dal punto di vi- sta della ratio è immutabile e apodittico. In tal modo, afferma Cusano, la mente concepisce le essenze delle cose in necessitate complexionis, vale a dire nella necessità dei loro rapporti eidetici vicendevoli, così come esse appaiono alla ragione “vere in sé medesime”, cioè misurabili e quantifica- bili in precise proporzioni matematiche (cfr. DI II, 84; 153s).

Il geometra non si preoccupa se le linee o le figure sono di bronzo, d’oro o di legno, ma delle linee come sono in sé, anche se non si trovano al di fuori del- la materia. Egli intuisce le figure sensibili con l’occhio sensibile, per poter in- tuire quelle mentali con l’occhio della mente. Né la mente scorge le figure men- tali con verità minore di quanto l’occhio scorga quelle sensibili, bensì con quanta più verità quanto più la mente intuisce in sé le figure astratte dall’alteri- tà sensibile. Il senso non le coglie mai al di fuori dell’alterità. La figura riceve l’alterità dalla sua unione con la materia che è necessariamente altra e diversa. A causa di essa, altro è il triangolo su questo pavimento, altro quello sulla pa- rete, e la sua figura è più vera in un triangolo che in un altro. E in nessuna ma- teria esso è con tanta verità e precisione da non essere più vero e preciso anco- ra. Il triangolo, astratto da ogni alterità variabile, com’è nella mente, non può invece essere più vero ancora. Perciò la mente stessa che intuisce in sé le figu- re, siccome le vede libere dalla alterità sensibile, si trova libera dall’alterità sen- sibile (Compl. II, 5-6; 611).

La matematica e la geometria, tuttavia, sono scienze d’ordine compara- tivo, che si aggirano intorno “al più e al meno”, e non sono in grado di at- tingere la precisione assoluta (o absoluta quidditas) della realtà. Nonostan- te la precisione raggiunta in questo ambito, secondo Cusano, la scienza razionale rimane ancora legata al mondo dell’alterità varia e della differen- za; infatti, finché si rimane al livello delle figure finite della ragione, la for- ma del triangolo non è quella del quadrangolo, e queste sono altra cosa ri- spetto a quella del circolo. Soltanto nella conoscenza intellettuale, scrive Cusano, “la mente intuisce tutte le cose in unità e intuisce se stessa come assimilazione di quell’unità”; essa giunge dunque alla forma suprema del sapere acquisibile naturalmente (la scientia scientiarum)4 e a quell’appren-

sione unitiva che vede tutte le forme complicate nell’unità semplicissima della stessa forma incontracta et absoluta, la divina Sapienza, “ipsa omnem

4 L’espressione, che CUSANO adotta nel De possest per indicare il sapere nostrae cre-

ationis o la “scienza di Dio” (nel senso del genitivo oggettivo) (cfr. ivi, 272), è im-

piegata anche da BERNARDODI WAGING nell’Elogium doctae ignorantiae (1451-52):

cfr. Introduzione a NICOLASDE CUES, Lettres aux moines de Tegernsee sur la docte

conceptum excedens ineffabilis forma” (ApDI 9; 216); così come tutte le figure geometriche tracciabili sensibilmente sono contenute virtualmente nel circolo infinito, il quale, risplendendo enigmaticamente in esso “la for- ma delle forme con più somiglianza che in qualunque altra figura” (Com-

pl. VII, 36; 623), è la praecisa mensura di ogni figura tracciabile sensibil-

mente.

Colui che intuisce l’infinito unitrino stesso, ascendendo dalle figure mate- matiche a quelle teologiche, aggiungendo l’infinità alle figure matematiche [...] per contemplare con la mente esclusivamente l’infinito unitrino, questi, per quanto gli sarà concesso, vede che l’Uno è tutto complicativamente e che tutto è l’Uno esplicitamente [...]. La mente ascende così dalle figure che hanno mol- ti angoli e dal circolo che complica tutti i poligoni formabili, fino alle figure te- ologiche e, poi, abbandonando tali figure, intuisce la virtù infinita del primo principio e delle altre [virtù] che vi sono complicate, le loro differenze e [la loro] assimilazione al semplice, e [intuisce] che il triangolo infinito è il circolo infinito, e il quadrangolo infinito è il circolo infinito, e così di seguito; se e per- ché il circolo infinito è la forma delle forme, ossia la figura delle figure (ivi III, 660-1; 616 e V, 666; 619).

La verità, l’oggetto proprio dell’intelletto, è dunque l’infinita assenza di

forma, simplicissima et perfectissima (ApDI 9; 216), in cui si risolve ogni

alterità e opposizione, complicandole nella sua assoluta semplicità metara- zionale, che altro non è che la coincidentia oppositorum: “Non vi è che una sola infinita forma delle forme, della quale tutte le altre forme sono imma- gini [...]; non vi sono dunque forme in atto se non nel Verbo, ove sono lo stesso Verbo, mentre nelle cose contratte esistono contrattamente” (DI II, 95; 165s).

Non c’è ente che non sia contratto tranne Dio e non c’è che una sola for- ma delle forme e una sola verità delle verità. La verità massima del circolo non è diversa da quella del quadrangolo. Perciò le forme delle cose sono di- stinte tra loro solo in modo contratto. Allorché sono in modo assoluto, sono un’unica forma indistinta che, nella sfera divina, è il Verbo [...]. Dunque, quando diciamo che Dio ha creato l’uomo per una ragione e la pietra per un’altra, l’affermazione è vera in relazione alle cose, ma non rispetto a colui che le crea (ivi 94; 164s).

Ora, afferma Cusano, l’intellectualis intuitus, che ha per oggetto quell’u- nità complicativa che è il Verbo, “promuove una visione simile a quella che si avrebbe da un’alta torre”: chi è posto lassù, con una simultanea visio, vede di già ciò che, con un discorso vario e per vestigia, va cercando colui che vaga per la regione della differenza e dell’alterità razionale. In questo

modo la mente umana, posta nell’alta regione dell’intelletto, “è giudice della ragione discorsiva” (ApDI 16; 227): la visione intellettiva può cioè il- luminarle il cammino logico, che trascorre di cosa in cosa, di ragione in ra- gione, di verità determinata in verità determinata, offrendo alla ratio quel filo sintetico e organico che fa sì che essa non disperda la propria ricerca nella frammentarietà di un discorso meramente analitico e indefinitamente frazionante, perdendo di vista l’unità di quel vero assoluto che, proprio in quanto unico, complica nella propria semplicità la molteplicità varia di tut- te le ragioni intelligibili: la verità intuita dalla mente, difatti, “non è altro che mancanza di alterità (carentia alteritatis)” (Compl. II, 7; 611).

Dio, afferma Cusano, in quanto unità semplice, è al di sopra di ogni va- rietà; pertanto, se vogliamo elevarci fino a lui,

dobbiamo di necessità respingere tutte quelle verità che cogliamo con il senso, l’immaginazione e la ragione, insieme alle loro proprietà materiali, per giunge- re ad una intelligenza più semplice ed astratta, ove tutto è uno; dove la linea è triangolo, circolo, sfera; ove l’unità è trinità, e viceversa; ove l’accidente è so- stanza, il corpo è spirito, il moto è quiete e così via. E quando una cosa qualun- que è intesa nell’Uno stesso, allora, si intende l’Uno e s’intende che l’Uno stes- so è il tutto e, di conseguenza, che in esso il tutto è qualsiasi cosa (DI I, 20; 74v).

In questa tripartizione delle facoltà conoscitive descritta da Cusano –

sensus, ratio e intellectus –, il primo vero e proprio punto critico e di svol-

ta è rappresentato dalla conversione della ragione, all’apice dell’esplica- zione delle sue virtù, nell’intuizione intellettuale, a cui si giunge attraverso la duplice via di una translatio ad infinitas figuras (nel passaggio dalla ‘matematica esatta’ a quella ‘teologico-speculativa’, che fa un uso simboli- co delle congetture razionali attraverso una transumptiva proportione) e, in secondo luogo, di una transumptio ad infinitum simplex (saltando dalla “matematica simbolica o speculativa”, che è “lo specchio delle figure teologiche”,5 a quella propriamente mistica, che ha per oggetto l’infinito in

atto puro e semplice). Qui, la scienza razionale, che ha come proprio mo- dello il sapere matematico procedente attraverso le ‘ombre’ delle figure ge- ometriche e dei numeri, scopre la propria inconsistenza e inadeguatezza ri- spetto all’infinitum posse divino, in cui non vi è traccia d’alterità, e che vive in uno stato di assoluta indifferenza (o absoluta complicatio) anterio- re a ogni alterità, opposizione e contrarietà: Dio, afferma Cusano nel De

non aliud (1461), in quanto “assoluto non-altro” (absolutum non aliud), è

ab alio aliud, ante aliud; ovvero esso, data la sua assoluta trascendenza e

incomparabilità con l’esistente finito e contratto, “è non-altro da una cosa qualunque ed è tutto in tutto” (Non al. XX, 50; 843). Tutto ciò che per la ra- gione è infatti in sé distinto, “cioè identico a se stesso e altro rispetto ad al- tro (alteri aliud)” (De gen. I, 106; 167) e si oppone radicalmente al proprio contraddittorio, nell’assoluto si riduce a quell’unità semplicissima che esi- ste eternamente nella propria identità con sé: l’ipsum idem absolutum, in quanto “superiore ad ogni diversità e opposizione” (omni diversitati et op-

positioni suprapositum):

L’ineffabile identico non è identico o diverso rispetto a nessun’altra cosa che costituisca per lui alterità, perché in lui tutte le cose sono identità. L’universale e il particolare nell’identico sono lo stesso identico, l’unità e l’infinità nell’i- dentico sono l’identico; e così l’atto e la potenza, l’essenza e l’essere. Anzi, ne- cessariamente, anche l’essere e il non-essere nell’identico assoluto sono l’iden- tico stesso (ibid.).

Ora, la ragione, se da un lato è consapevole della propria sufficientia nell’apprensione delle forme astratte dalla realtà, dall’altro sa di non poter oltrepassare la dimensione dell’alterità e l’instabile “vicenda dell’adom- bramento” del molteplice, all’interno di cui soltanto può esercitare la pro- pria virtù discretiva: “La nostra mente, sebbene manchi di ogni alterità sen- sibile, non è priva di ogni alterità” (Compl. II, 7; 611). La ratio, in modo del tutto paradossale (quasi contraddicendo il proprio operare), quanto più tenta di elevarsi a quell’unità semplice in cui tutti i contraddittori sono uni- ficati, tanto più diviene consapevole di questa sua impotenza costitutiva e del suo necessario legame col mondo dell’alterità, finendo così per traspor- tare la scissione e l’opposizione all’interno di sé: si tratta di quella tensio- ne fra il suo obiectum (la forma formarum, assolutamente semplicissima, verso cui la ragione è attratta “come il ferro dal magnete”)6 e i suoi stru-

menti d’indagine, gli entia rationis (i numeri, le figure, le proporzioni tra le grandezze), che sono concetti, sebbene puramente mentali e di ordine astratto, ancora legati alla regione dell’alterità e della differenza. Se da un lato, dunque, la ragione riconosce “che tutta la conoscenza razionale resta chiusa all’interno dei limiti della molteplicità e della grandezza quantitati- 6 “Così come il ferro, attratto dallo spirito del magnete, viene condotto alla vita, allo

stesso modo la ragione viene condotta alla Sapienza”: N. CUSANO, Sermo CLVIII,

Paraclitus autem (1454), in NICOLAIDE CUSA Opera omnia, cit., vol. XVIII, Ser-

mones III (1452-1455), fasc. 2 (Sermones CXLI-CLX), a cura di H. Pauli, 2001,

va”; d’altro canto, essa, sul limitare del proprio autotrascendimento intel- lettuale, “constata che il principio primo deve necessariamente essere un principio semplicissimo, altrimenti non sarebbe un principio primo”.7

La ragione, guidata dalla praegustatio ingustabilis di quel “cibo saporo- sissimo” che è la Sapienza – Cusano, non a caso, fa derivare sapientia da sa-

por, per cui essa “est quae sapit” (Id. De sap. I, 17)8 –, in cui tutte le opposi-

zioni logiche trovano la loro perfetta conciliazione, presente ‘quasi istintivamente’ che la sua posizione vacilla ed è del tutto instabile. Il massi- mo dell’esplicazione della sua virtù conoscitiva si trasforma difatti nel suo scacco definitivo, in cui urge il passaggio a un’altra facoltà, l’intellectus, la quale tuttavia si trova già in essa “secondo una partecipazione alterata” (in

alterata partecipatione) (Coni. II, 75; 292s); come una luce cioè, sebbene an-

cora fioca e di riverbero, che incomincia ad aprirsi un varco nell’ombra cali- ginosa delle figure, dei numeri e dei gradi proporzionali di grandezza. La ra-

tio, afferma Cusano (conformemente al principio eckhartiano “semper

divisum inferius unum est et indivisum in superiori”),9 è una sorta di esplica-

zione dell’intelletto, ovvero “il discorso dell’intelligenza” (sermo intelligen-

tiae) (ivi I, 32; 263s), un intelletto contratto nell’alterità varia del molteplice;

sicché, senza l’“immissione per partecipazione” (ivi II, 131; 330s) del lume dell’intelletto, la ragione non potrebbe discernere e giudicare alcunché, così come il senso, privo del lume spirituale offerto dalla facoltà superiore della ragione, non potrebbe distinguere le sensazioni tra loro:

L’intelligenza è giudice delle ragioni e diciamo che si muove in quanto sce- glie una ragione come più vera e ne rifiuta un’altra, e illumina coloro che ragio-

7 IDEM, Sermo XXII, Dies sanctificatus (1440), cit., p. 344B; trad. it. di P. Gaia, in

Opere religiose di Nicolò Cusano, cit., p. 687.

8 “È la sapienza che ha sapore, e di essa nulla è più dolce per l’intelletto. Non sono da ritenere sapienti coloro che parlano soltanto con la parola e non con il gusto. Parlano della sapienza con il gusto coloro che per mezzo di essa non sanno tutte le cose in modo che s’accorgono di non saper nulla di tutte; per mezzo della sa- pienza e da essa e in essa consiste ogni interno gustare. Ma poiché essa abita nell’altissimo, non è gustabile in nessun sapore. La si gusta dunque in modo ingu- stabile (ingustabiliter ergo gustatur), essendo più alta di ogni gustabile sensibile, razionale, intellettuale”: Id. De men. I, 17-8; 69.

9 Cfr. M. ECKHART, Prologus generalis in opus tripartitum, in Die deutsche und la-

teinische Werke, cit., Die lateinische Werke, vol. I, a cura di K. Weiß, Stoccarda,

Kohlhammer, 1964, p. 155. Per queste analogie tra Eckhart e Cusano, nonostante il loro differente concetto di partecipazione ontologica, si veda R. HAUBST, Niko-

laus von Kues und Meister Eckhart. Randbemerkungen zu zwei in der Schrift De

coniecturis gegebenen Problem, in “Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cu- sanus-Gesellschaft” (1964), n. 4, pp. 167-8.

nano o li induce a ragionare. Bisogna concepire le intelligenze come potenze universali, che reggono le contrazioni razionali e come se esercitassero nelle loro regioni la parte del Sole: come in questo mondo sensibile gli occhi, illumi- nati dalla forza del Sole sensibile, si volgono sensibilmente ad emettere un giu- dizio su ciò che è bello e ciò che è brutto, così l’intelligenza apporta al mondo razionale il potere che viene dalla conoscenza del vero. Dio stesso infinito è il Sole delle intelligenze, mentre le intelligenze sono come i lumi delle ragioni variamente contratti (ivi, 132-3; 331-2s).

La stessa costituzione immanente dell’intelletto, in quanto “seconda unità”, la quale ha prima di sé soltanto quella divina, che è “la stessa iden- tità incomunicabile, inesplicabile e, in se stessa, inattingibile” (ivi I, 55; 278s) da cui deriva per un’immediata “discesa teofanica”, è quella dell’‘in- differenza assoluta’, “nella cui semplicità di radice (in eius simplicitate ra-

dicali) gli opposti si uniscono in maniera indivisa e irresolubile” (ivi 29;

260s). L’intelletto, per unità e semplicità secondo soltanto a Dio nella ge- rarchia universale dell’essere, è una radice semplice (radix simplex), i cui nomi atti approssimativamente a designarla “non ammettono alcuna oppo- sizione che dia luogo a incompatibilità”. In tal senso, “i termini consueti, che sono enti di ragione, non riescono a raggiungere l’intelligenza” (ivi 32; 262s), perché essi si esplicano sotto forma di giudizi disgiuntivi “che sono come i numeri, dei quali uno è pari, un altro dispari, e mai sono contempo- raneamente pari e dispari” (ivi 35; 264s). Ora, l’intelletto “sta alla ragione come il potere dell’unità sta al numero finito”, la ratio derivando infatti da un’esplicazione nel molteplice della radice intellettiva (cfr. ivi II, 142; 335s); sicché risulta evidente che “la complicazione degli opposti, operata dall’unità intellettiva, risplende non nei termini usuali della ragione, ma nell’unità della ragione stessa” (ivi I, 32-3; 262), in cui si cela la virtù uni- ficatrice dell’intelletto:

Gli opposti non la [l’unità intellettiva] precedono di modo che essa proven- ga da loro, ma essa nasce in uno con loro, come è necessario che accada per il numero, la cui composizione è intellettiva. [...]. Tranne la prima unità [Dio], nessun’altra la precede, dalla cui moltiplicazione essa possa sorgere; ha origi- ne soltanto dalla prima unità, alla quale fa seguito ogni opposizione. Il suo ini- zio non implica nessuna delle diversità. Tutto ciò che nei momenti successivi va verso la divisione, non è disgiunto in quell’unità della radice [...]. L’essere intellettivo è infatti il più alto e il più semplice di quel modo di essere che è in- compatibile col non-essere. L’unità intellettiva è una certa qual radice che com- plica gli opposti, i quali poi risultano incompatibili quando essa si esplica. [Di- fatti] gli opposti che, nell’esplicazione del suo quadrato, ossia l’unità razionale, sono incompatibili, nell’unità intellettiva risultano invece complicati (ivi 28-9; 260s).

2. La figura paradigmatica P e lo “stupendo moto di reciproca progressione” Per descrivere il transcensus dell’anima umana appena abbozzato, Cusano, nel De coniecturis (1440-45), ricorre alla figura paradigmatica, tratta origina- riamente dall’Asclepius ermetico, ma rinvenibile anche in Alberto Magno:10

“La figura P ti servirà per tutti i modi della visione e per ciascuno: per la vista sensibile, se considererai come luce l’unità della sensibilità e come ombra l’al- terità dei sensi; per la visione della ragione, se chiamerai luce il potere discor- sivo, ossia l’unità della ragione; e ti servirai parimenti per la visione dell’intel- letto, considerando come luce l’unità intellettiva” (ivi II, 52; 291s), e come ombra l’alterità razionale. Questa figura è costituita da due piramidi conver- genti, contrapposte, e aventi l’altezza in comune, ciascuno dei cui vertici cade nel centro della base della piramide a essa giustapposta: una rappresenta la luce, l’essere o l’unità; l’altra l’oscurità, il nulla o l’alterità.11 Ora, afferma Cu-

sano, “fa che la piramide della luce avanzi nelle tenebre, e la piramide delle te- nebre nella luce; e riconduci ad una raffigurazione tutto ciò che può essere og- getto di ricerca, per poter rivolgere le tue congetture alle cose arcane mediante un procedimento sensibile” (ivi I, 45-6; 272s).

Cusano, descrivendo questa singolare figura, osserva ancora:

Poiché Dio che è unità, è quasi la base della luce, la base delle tenebre è come fosse il nulla. Tra Dio e il nulla congetturiamo che vi siano tutte le crea- ture. Il mondo superiore abbonda di luce [...]. Esso non è però senza tenebra, sebbene essa appaia assorbita nella luce a causa della sua semplicità. Nel mon- do inferiore regna, invece, la tenebra, sebbene la luce non scompaia del tutto. La figura mostra, però, che nella tenebra questo lume è nascosto e non vi si ma-

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