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2.1 Cenni storici del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): dal DSM III al DSM-IV-TR

La storia del trauma psichico è molto antica, al punto che la descrizione di quadri clinici assimilabili alla moderna denominazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) può essere già individuata nella letteratura dell’antica India e della Grecia classica.

Tuttavia, la prima descrizione che può definirsi clinica e che, in qualche modo, si avvicina al concetto di trauma, chiamato in seguito “nevrosi isterica”, è quella narrata da Erodoto (450 a.C.) storico greco, dove nel libro IV delle Storie, racconta la battaglia di Maratona e riporta i sintomi mentali causati da un’improvvisa paura (Crocq et al., 2000).

Poeti, come Omero nell’Iliade e Shakespeare nell’Enrico IV e in Macbeth hanno narrato eroi ed eroine i cui sintomi e comportamenti sono, ad oggi, indicativi di PTSD (Trimble, 1985; Shay, 1991).

In letteratura esistono descrizioni di casi singoli come quello raccontato da Ambroise Parè -considerato il padre della chirurgia moderna- in cui il re Carlo IX, in seguito alla famosa strage di San Bartolomeo (1572), manifestò per lunghi anni una sindrome classica da disturbo post-traumatico da stress contraddistinta da incubi notturni e allucinazioni (Lalli, 2005).

Similmente, anche la ricostruzione di P. Pinel, inserita nel suo trattato Nosographie Philosophique ou la méthode de l'analyse appliquée a la médecine (1798), in cui riporta il famoso caso del filosofo B. Pascal, che subì un forte trauma rischiando di precipitare nel fiume Senna e l’analisi degli otto anni successivi, caratterizzati da incubi ricorrenti, visioni allucinatorie di precipizi sul lato sinistro, tanto da costringerlo a posizionare una sedia su quel lato per evitare di cadere dal letto e da condotte evitanti (Crocq et al., 2000).

È interessante notare che sintomi simili al PTSD non erano limitati ai soli conflitti bellici ma comparvero in letteratura per merito degli scritti di Samuel Pepys, i quali descrivevano gli effetti del grande incendio che nel 1666 colpì la città e la popolazione di Londra (Daly,1983). Spesso furono citati e riportati, come prove dell’esistenza del

disturbo post traumatico, i sintomi di una famiglia intrappolata nella valanga di Bergemoletto in Italia (Parry-Jones et al.,1994).

Oltremodo, nel diciannovesimo secolo, l’avvento dei macchinari a vapore segnò l’inizio dei primi gravi incidenti ferroviari e i sopravvissuti ai disastri mostravano quadri clinici assimilabili al PTSD come ansia, disturbi del sonno e fobia del treno.

Tra i superstiti, si ricorda la testimonianza dello scrittore Charles Dickens, che nel 1868 fu vittima di un incidente ferroviario e che in seguito al trauma sviluppò numerosi sintomi di fobia e ansia (Forster, 1969).

All’epoca, gli incidenti ferroviari scatenarono un acceso dibattito riguardo la natura del danno, tra i clinici che ritenevano che i disturbi fossero di origine psicopatologica e tra coloro che sostenevano la tesi della teoria organica, secondo la quale i sintomi mentali erano conseguenze di lesioni fisiche a carico della colonna vertebrale o del sistema nervoso centrale, da qui il nome “railway spine sindrome” o “colonna vertebrale da ferrovia” o “Malattia di Erichsen”, descritta per la prima volta dal chirurgo inglese Eric Erichsen, nel 1866 (Löwe et al., 2006).

Nonostante tutto, sono ancora le guerre, sempre meno rispettose di quelle regole cavalleresche che avevano caratterizzato in passato i conflitti medioevali, che permettono di studiare, classificare e analizzare a fondo i quadri psicopatologici conseguenti a trauma a carico di soldati e di mercenari.

Nel diciassettesimo secolo, gli studi condotti dal medico svizzero Johannes Hofer (1669-1752), permisero di coniare il termine “nostalgia” o “sindrome del paese lontano” per descrivere i soldati svizzeri inviati in territori stranieri che mostravano uno stato di profonda disperazione, depressione, apatia, insonnia e ansia (Jones, 2006).

In effetti per lungo tempo questa denominazione divenne una diagnosi medica comune diffusa in tutti i campi, anche se alcuni medici militari distinguevano in questi sintomi un segno di “debole volontà”, di vigliaccheria e non un reale disturbo psichico (Battesti, 2016).

Fu durante la Rivoluzione Francese e le Guerre dell’Impero Napoleonico (1803- 1815) che lo psichiatra P. Pinel riuscì a classificare un elevato numero di casi clinici, definendoli come “nevrosi della circolazione e della respirazione” o melanconia, disturbi in cui i soldati mostravano sintomi di stupore prolungato, di congelamento fisico e immobilità psicologica. Saranno successivamente gli ufficiali medici napoleonici D.J. Larrey, P.F. Percy e N.R. Desgenettes che definiranno gli stati post- confusionali e di congelamento dei soldati scossi dalle palle di fucile che li sfioravano,

senza ferirli, lasciandoli fisicamente incolumi, come syndrome du vent de bullet (Crocq et al., 2000).

Il periodo della Guerra Civile Americana (1861-1865), caratterizzato dall’introduzione di nuove tecnologie e tattiche di combattimento, dall’uso di fucili a fuoco rapido, combattimenti notturni e obici a lunga gittata, consentì al medico statunitense J. M. Da Costa di evidenziare dei fenomeni particolari in molti veterani che soffrivano di problemi fisici non correlati ad alcuna ferita, come ad esempio palpitazioni, dispnea, vertigini e senso di oppressione toracica; si parlò per la prima volta di "cuore del soldato", "cuore irritabile" (soldier’s heart) riconoscendolo soprattutto nei periodi prolungati di intenso stress e identificandone una stretta relazione tra i fattori emotivi e fenomeni neurovegetativi (Da Costa, 1951; Paul, 1987).

Tuttavia, nel 1884, per la prima volta il neurologo tedesco Hermann Oppenheim, descrisse sotto il nome di “nevrosi traumatica”, un’entità clinica autonoma che comprendeva il ricordo ossessivo dell’incidente, la labilità emotiva e i disturbi del sonno, insorti conseguentemente al trauma. Oppenheim, in linea con i medici del tempo, riteneva che i problemi presentati da questi pazienti fossero prodotti da cambiamenti molecolari avvenuti nel sistema nervoso centrale. Dopo di lui fu pubblicato il manuale sulle “nevrosi da spavento” di Emil Kraepelin, basato sulla personale esperienza della prima guerra mondiale (Crocq et al., 2000; Holdorff, 2011).

All’incirca nello stesso periodo, all’Ospedale de La Salpêtrière di Parigi, il neurologo J.M. Charcot (1887) condusse molteplici studi sulle nevrosi e usò il termine di “isteria traumatica” per descrivere una condizione della mente non derivante dagli effetti fisici dell'incidente traumatico ma dalla sua psicologizzazione. Infatti, contrariamente ad Oppenheim, rifiutò la natura della nevrosi traumatica e dimostrò che i pazienti, che avevano subito incidenti ferroviari, avevano più probabilità di soffrire in seguito di nevrastenia o istero-nevrastenia (Crocq et al., 2000; Kienzler, 2008; Pitman, 2013).

Svilupparono ulteriormente quest’ idea, Pierre Janet e Sigmund Freud, che lavorarono con Charcot a La Salpêtrière.

P. Janet ipotizzò che i contenuti mentali traumatici venissero isolati nella mente secondo il meccanismo della disaggregazione e non potendo essere integrati nella coscienza ordinaria, si esprimevano sotto forma di "automatismi" patologici, ovvero di reazioni automatiche abnormi, svincolate dalla volontà del soggetto, che potevano prendere la forma di intense reazioni emotive, comportamento aggressivo, dolore fisico

e stati corporei che potevano essere tutti intesi come il ritorno di elementi riguardanti il trauma (Pitman, 2013; Van der Kolk, 2000).

Il concetto di disgregazione (désagrégation) proposto da Janet, non determinava una semplice separazione o dissociazione degli elementi di identità, memoria e coscienza ma piuttosto caratterizzava un fallimento dei normali processi di integrazione. Janet parla di “riduzione del campo della coscienza”, condizione che lascia spazio appunto agli automatismi, a causa di un calo della tension e della force psychologique vale a dire del grado di organizzazione dell’energia nervosa e della sua quantità (Van de Hart et al., 2006; Ellenberger, 1976).

Inoltre è importante sottolineare che, sia Charcot sia Janet, considerassero l'isteria e la dissociazione come un riflesso di difetti costituzionali sottostanti (Pitman, 2013).

Nel frattempo anche S. Freud iniziò a studiare attentamente le origini dei sintomi dei pazienti "isterici", che spesso erano caratterizzati da marcate anomalie motorie e sensoriali.

Condivise con Janet l’ipotesi della tendenza alla dissociazione e dell’affioramento di stati coscienti patologici a carico dei pazienti ma aggiunse che i ricordi, a differenza dei ricordi del resto della loro vita, non erano a loro disposizione e per questo il paziente era costretto a ripetere il materiale rimosso come un'esperienza contemporanea, invece di ricordarlo come qualcosa che apparteneva al passato. Infatti, attraverso queste constatazioni, Freud dedusse che tra conscio e inconscio esistesse un netto distacco e per questo motivo pensava all’esistenza di una barriera che aveva lo scopo di salvaguardare la coscienza dai contenuti inconsci. Questa intuizione seminale permane nella descrizione, successiva, delle due celebri topiche relative alla disposizione dei fenomeni psichici (Van der Kolk, 2000).

Nel XX secolo, nel corso del conflitto Russo Giapponese (1904), i medici militari riconobbero un gran numero di soldati sopravvissuti alla guerra che presentavano, ciò che fu definita come “demenza stuporosa”, uno stato di paralisi e di blocco emozionale. Il medico tedesco Honigman fu il primo a definirla come “nevrosi di guerra” - Kriegsneurose- e inoltre sottolineò la somiglianza tra questi casi e quelli riportati da Oppenheim dovuti agli incidenti ferroviari.

La Prima Guerra Mondiale, che condivide con la guerra civile americana e la guerra russo giapponese il ricorso a tattiche belliche di tipo difensivo e l’uso massiccio di risorse tecnologiche rese disponibili dal trionfo della rivoluzione industriale, rappresenta il periodo storico in cui, in maggior misura, la psichiatria cercò di definire l’enorme

quantità di disturbi psicopatologici dei soldati sopravvissuti agli eventi traumatici in seguito al combattimento (Crocq et al., 2000).

Tuttavia, per descrivere le sindromi riscontrate nei reduci delle trincee della prima guerra mondiale, i medici utilizzarono molte definizioni come “ipnosi da battaglia”, “vento della granata”, “ansietà da neurastenia”, fino alla denominazione di shell shock, ovvero un trauma determinato dal violento scoppio di artiglieria. Inizialmente fu considerata una sindrome conseguente ad un danno organico al sistema nervoso ma successivamente venne associata allo stress dell'esperienza di combattimento. Malgrado ciò, il primo atteggiamento da parte delle autorità militari fu quello di attribuirne un significato morale, di vigliaccheria e codardia, a cui fecero seguito numerosi ordini di fucilazione (Shepard,1996; Crocq et al., 2000; Friedman et al., 2011).

Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la drastica diminuzione dei casi clinici, gli studi sulla patologia post-traumatica realizzati fino a quel tempo, vennero ben presto dimenticati e solo nella fase avanzata della Seconda Guerra Mondiale furono riscoperti nuovamente.

Infatti, alla luce dell’esperienza consolidata durante la Seconda Guerra Mondiale, Kardiner pubblicò nel 1941 The Traumatic Neuroses of war, in cui identificava nei soldati un fenomeno chiamato fisionevrosi, ovvero una duplice alterazione della componente psicologica e di quella fisiologica, affermando che il nucleo della nevrosi riguardava prima di tutto il corpo, e solo secondariamente la mente (Kardiner, 1941).

Intorno al 1945, due psichiatri americani, Grinker e Spiegel pubblicarono due libri Nevrosi di guerra in Nord Africa e Uomini sotto stress, dove si mostra come il termine ‘stress’ inizi a comparire in quanto spiegazione fisiologica delle nevrosi traumatiche (Lalli, 2005).

Sempre nello stesso periodo, la diagnosi di shell shock fu sostituita dalla denominazione

Combat Stress Reaction (CSR), nota anche come "fatica da battaglia" in riferimento allo

sviluppo di alterazioni mentali in risposta alle impegnative e stressanti operazioni di guerra (Friedman et al., 2011).

Molte conoscenze riguardo al Disturbo Post-Traumatico da Stress si sono sviluppate principalmente basandosi sulle esperienze dei veterani della guerra del Vietnam, che furono i primi campioni di popolazione ad essere maggiormente studiati e che hanno, non solo promosso ma condizionato la rinascita del concetto attuale di trauma psichico. È infatti grazie a questi studi che si è giunti alla prima definizione di PTSD come singolo disturbo.

Nel 1952, nel pieno svolgimento della guerra di Corea (1950-1953), l’American Psychiatric Association (APA,1952) pubblicò la prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-I) in cui il trauma psichico fu incluso nella categoria di “reazione da stress estenuante” gross stress reaction, ovvero un disturbo temporaneo causato da uno evento traumatico come ad esempio, disastri naturali o esperienze militari.

Inizialmente questa diagnosi fu utile per classificare veterani di guerra, sopravvissuti all’Olocausto e vittime di stupro ma il problema che emerse fu che il disturbo per essere riconosciuto tale, doveva risolversi in tempi relativamente rapidi, oltre i quali sarebbe stato inquadrato in maniera diversa, come nevrosi d’ansia o nevrosi depressiva (Colombo et al., 2001; Friedman et al., 2011; Stein, 2015).

Nella pubblicazione del DSM-II (APA, 1968) tale diagnosi fu eliminata lasciando come unica dicitura quella di “disturbo da reazione situazionale” e anch’essa, come la precedente, era caratterizzata dalla durata limitata nel tempo. Inoltre, la nomenclatura del DSM-II usata dagli psichiatri, non faceva menzione di una nevrosi di guerra e conseguentemente, i veterani erano spesso considerati deliranti e indirizzati, il più delle volte, verso una diagnosi errata di schizofrenia paranoide o di epilessia psicomotoria (Stein, 2015).

Durante gli anni settanta, non rientrando nella diagnosi del DSM-II, cominciarono a comparire numerose sindromi, tutte chiamate in modo diverso in relazione all’evento traumatico che le aveva determinate come ad esempio “sindrome del soldato di marina”, “sindrome da abuso di bambino”, “sindrome del prigioniero di guerra” (Friedman et al., 2011).

Tra le molteplici espressioni usate, emersero anche “la sindrome da stress da stupro”, denunciata dal movimento femminista dell’epoca e “la sindrome post Vietnam” promossa dagli sforzi dei veterani del Vietnam e da gruppi di attivisti per la pace (Burgess et al., 1974; Wessely et al., 2004).

Gli effetti catastrofici della guerra del Vietnam e la necessità di classificare le numerose definizioni di trauma psichico, influenzarono lo sviluppo di una nuova diagnosi e così nel 1980 fu pubblicata la terza edizione del DSM e per la prima volta comparve la definizione di Disturbo Post-Traumatico da Stress - PTSD. La novità sostanziale introdotta dai curatori del DSM-III, fu quella di voler consolidare l’idea di una patologia psichica in cui l'agente eziologico si trova al di fuori dell'individuo e corrisponde all’evento traumatico, piuttosto che una debolezza individuale intrinseca

(cioè una nevrosi traumatica), ovvero come un disturbo mentale possa insorgere in seguito a gravi traumi, in individui senza alcuna predisposizione (Colombo et al., 2001; Friedman et al., 2011).

Per porre diagnosi di PTSD, il DSM-III (APA, 1980) prevedeva la presenza del criterio A, definito come “evento stressante che avrebbe causato sintomi significativi di disagio nella maggior parte delle persone” e per stressante e traumatico doveva essere considerato come “al di fuori della normale esperienza umana”, come la tortura, lo stupro, l'Olocausto, i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, i disastri naturali (come terremoti, uragani ed eruzioni vulcaniche) e disastri causati dall'uomo (come esplosioni in fabbrica, incidenti aerei e incidenti automobilistici). Inoltre, valutava anche la presenza di 12 sintomi, racchiusi nei tre criteri: il criterio B (sintomi di rievocazione), il criterio C (sintomi di ottundimento affettivo) e il criterio D (miscellanea).

Nella revisione del DSM-III (APA, 1987), all’interno del criterio A, rimase l’associazione fra trauma ed eccezionalità dell’evento ma si chiarì il concetto di evento stressante che venne adesso definito come minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o il venire a conoscenza di gravi minacce o danni a un amico o parente e si introdusse il concetto di risposta al trauma che comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore. Ulteriormente, gli Autori del DSM III-R quantificarono la durata dei sintomi, fissando in trenta giorni il loro periodo minimo di permanenza, necessario per porre diagnosi di PTSD.

Rientrarono in questa definizione non solo eventi bellici o catastrofi naturali, che risultavano i temi maggiormente considerati ma anche un’ampia serie di esperienze quotidiane sperimentate dalla popolazione civile (Colombo et al., 2001; Friedman et al., 2011).

Il DSM -IV (APA, 1994) apportò modifiche al criterio A, rimuovendo l’accento sulla “straordinarietà dell’evento” e suddividendolo in due componenti, una oggettiva (A1) e una soggettiva (A2). Questa divisione permise di ridimensionare le caratteristiche oggettive del trauma e di porre l’accento sulla diversa percezione e risposta che ogni individuo aveva di fronte all’evento traumatico (Breslau et al., 2001).

Il DSM-IV-TR (APA, 2000) mantenne la suddivisione, effettuata nel DSM-IV, in Criterio A1 e A2, aumentò il numero di possibili sintomi da 12 a 17 e i tre criteri in cui essi erano contenuti, vennero rielaborati.

2.2 Il PTSD all’epoca del DSM 5 2.2.1 I Criteri del PTSD

La quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ha apportato una serie di revisioni ai criteri sintomatologici del Disturbo Post Traumatico da Stress, con importanti implicazioni sia concettuali sia cliniche.

Il PTSD (APA, 2013) non è più classificato come Disturbo d'Ansia ma è stato incluso in una nuova categoria, ovvero i Disturbi correlati al Trauma e ad Eventi Stressanti - Trauma and Stress Related Disorders – dove il requisito fondamentale per fare diagnosi è rappresentato dall’esposizione all’evento stressante. In questa categoria diagnostica sono stati inclusi altri disturbi come il disturbo dell'adattamento, il disturbo reattivo dell'attaccamento, il disturbo disinibito dell’attaccamento, il disturbo acuto da stress e infine i disturbi correlati a trauma ed eventi stressanti non altrimenti specificati (Friedman et al., 2011; Carmassi et al., 2013; Pai et al., 2017).

Inoltre, il criterio A del trauma è stato nuovamente revisionato, il numero dei possibili sintomi è aumentato da 17 a 20 ed è sopravvenuta una ulteriore divisione e modifica dei cluster (Hoge et al., 2014).

Per fare diagnosi di PTSD è necessaria la presenza di tutti i criteri diagnostici, i quali vengono applicati sia agli adulti, sia agli adolescenti, sia ai bambini di età superiore ai sei anni.

Criterio A: propone l’esposizione a morte, reale o minacciata, a grave lesione, oppure a violenza sessuale. L’individuo può aver fatto esperienza del trauma in uno dei seguenti modi:

1. Esperienza diretta dell’evento traumatico;

2. Assistere direttamente ad un evento traumatico accaduto ad altri;

3. Venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto ad un membro della famiglia oppure ad un amico stretto. L’evento in questione deve essere stato violento o accidentale o inatteso;

4. Essere esposto ripetutamente e in maniera estrema a dettagli crudi dell’evento traumatico (come ad esempio primi soccorritori che raccolgono resti umani, agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli su abusi di minori);

Non si considerano esposizioni al trauma causate da media elettronici, televisioni, film o immagini, a meno che la testimonianza non sia legata al lavoro svolto.

Criterio B: prevede la presenza di almeno 1 (o più) dei seguenti sintomi intrusivi che si instaurano dopo l’evento traumatico:

1. ricordi ricorrenti, involontari, intrusivi e spiacevoli dell’evento;

2. sogni spiacevoli e ricorrenti, in cui il contenuto e le emozioni sono collegati all’evento traumatico;

3. reazioni dissociative (flashback) in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando. Tali reazioni possono comportare la completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante;

4. sofferenza psicologica intensa o prolungata scatenata da stimoli interni o esterni che simboleggiano o somigliano a qualche caratteristica dell’evento traumatico; 5. marcate reazioni fisiologiche scatenate da stimoli interni o esterni che

simboleggiano o somigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.

Criterio C: propone la presenza di almeno 1 dei seguenti parametri, relativi al persistente evitamento agli stimoli associati al trauma:

1. tentativi di evitare ricordi, pensieri o sentimenti spiacevoli strettamente associati all’evento traumatico;

2. tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitino ricordi, pensieri o sentimenti spiacevoli strettamente associati all’evento traumatico.

Criterio D: prevede, almeno 2 alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico iniziate o peggiorate dopo l’evento traumatico, ravvisati nei seguenti criteri:

1. incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico dovuto tipicamente ad amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcol o droghe;

2. persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri o al mondo;

3. pensieri persistenti e distorti relativi all’evento traumatico che portano l’individuo a dare la colpa a se stesso oppure agli altri;

4. persistente stato emotivo negativo come ad esempio paura, orrore, rabbia, colpa o vergona;

5. marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative; 6. sentimenti di distacco o estraneità verso gli altri;

7. persistente incapacità di provare emozioni positive come ad esempio, incapacità di provare felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore.

Criterio E: prevede almeno 2 sintomi di alterazioni dell’arousal e di reattività associate all’evento traumatico manifestate o peggiorate dopo l’evento, riconosciuti nei seguenti criteri:

1. comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti;

2. comportamento spericolato o autodistruttivo; 3. ipervigilanza;

4. esagerate risposte di allarme; 5. difficoltà di concentrazione;

6. disturbi del sonno come ad esempio, difficoltà nell’addormentarsi, nel mantenere il sonno oppure un sonno non ristoratore;

Criterio F: prevede che la durata delle alterazioni (criteri B, C, D, E) sia superiore a 1 mese.

Criterio G: descrive il modo in cui i sintomi dissociativi possano determinare disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

Criterio H: definisce come i sintomi dissociativi non siano attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza (ad esempio farmaci, alcol) o ad un’altra condizione medica (come ad esempio crisi epilettiche parziali complesse).

È necessario specificare se l’individuo, in risposta al trauma, fa esperienza di sintomi

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