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Gestione dei pazienti psichiatrici durante la Prima Guerra Mondiale: epidemiologia, istituzionalizzazione e società.

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area

Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in

Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

Gestione dei pazienti psichiatrici

durante la Prima Guerra Mondiale:

epidemiologia, istituzionalizzazione e società

Relatore

Chiar.mo Prof. Liliana Dell’Osso

Candidato

Daria Bartolini

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INDICE

PREFAZIONE

1. CAPITOLO PRIMO

1.1 Un breve sguardo alla storia della psichiatria 1.2 La mappa della follia in Italia nel Novecento 1.3 I folli di guerra 1.4 La mappa della follia nell’Università di Pisa (1886-1913)

2. CAPITOLO SECONDO

2.1 Cenni storici del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): dal DSM III al DSM-IV-TR 2.2 Il PTSD all’epoca del DSM 5

2.2.1 I Criteri del PTSD

2.2.2 Il Criterio A e i criteri sintomatologici

2.2.3 Approfondimento sui comportamenti maladattativi presenti nel Criterio E

2.2.4 Caratteristiche cliniche ed epidemiologiche. Fattori di rischio e comorbidità

2.2.5 Cenni su eziopatogenesi, prognosi e terapia

2.3 Il PTSD parziale e lo Spettro Post-Traumatico da Stress (TALS-SR)

3. CAPITOLO TERZO

3.1 Introduzione 3.2 Materiale e Metodo 3.3 Risultati 3.4 Tabelle 3.5 Discussione 3.6 Conclusione

4. BIBLIOGRAFIA

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PREFAZIONE

Il disturbo post traumatico da stress (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD) è una condizione caratterizzata da un peculiare quadro psicopatologico, dovuto all'esposizione diretta o indiretta ad un evento traumatico di gravità oggettiva estrema, che supera le normali capacità di adattamento come ad esempio, attacchi terroristici, guerre, catastrofi naturali, gravi malattie, episodi di violenza sessuale o fisica, morte violenta e inaspettata di una persona cara. Contraddistinta da un decorso tendenzialmente cronico con scarsa risposta ai trattamenti farmacologici e un considerevole peggioramento della qualità della vita. (APA, 2013)

Nel corso del tempo sono state effettuate numerose indagini sul PTSD per individuarne le eventuali basi neurobiologiche, le caratteristiche cliniche, le comorbidità e i potenziali fattori di rischio. Tra questi ultimi, i principali sono stati identificati nella gravità e tipologia dell’evento traumatico, nel sesso, età, condizioni di povertà e indigenza, professione lavorativa svolta e infine nell’anamnesi positiva per disturbi psichiatrici.

Nonostante la storia del trauma psichico sia molto antica, al punto che la descrizione di quadri clinici, assimilabili alla moderna denominazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), possa essere già individuata nella letteratura del passato, soltanto nella terza edizione del DSM del 1980 (APA,1908), in seguito agli effetti catastrofici provocati dalla guerra del Vietnam, compare nella nosografia psichiatrica moderna. La novità sostanziale introdotta dai curatori del DSM-III, fu quella di voler consolidare l’idea di una patologia psichica in cui l'agente eziologico si trova al di fuori dell'individuo e corrisponde all’evento traumatico, piuttosto che una debolezza individuale intrinseca (cioè una nevrosi traumatica).

Inizialmente, gli studi sul PTSD si incentrarono sui conflitti militari, tuttavia, nel corso del tempo, rientrarono in questa definizione anche le catastrofi naturali e un’ampia serie di esperienze quotidiane sperimentate dalla popolazione civile, come incidenti automobilistici, esplosioni di fabbriche, vittime di stupro, rapine, violenze e ritenute traumi psichici.

In seguito, alcuni autori, sono riusciti ad evidenziare come un gran numero di persone, nonostante fossero state esposte ad un evento traumatico qualificante, non

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riuscivano a soddisfare i criteri sintomatologici proposti dal DSM e quindi non sviluppavano un quadro di PTSD completo.

Per questo motivo è nata una collaborazione internazionale di ricerca che ha coinvolto la clinica Psichiatrica dell’Università degli Studi di Pisa e altri ricercatori di Università Americane, permettendo lo sviluppo di un nuovo modello di approccio clinico al PTSD: lo Spettro Post Traumatico da Stress o Trauma and Loss Spectrum (TALS). Il Trauma and Loss Spectrum (TALS) è stato sviluppato nell'ambito dello spectrum project e si basa su un approccio dimensionale alla psicopatologia che considera clinicamente rilevanti non solo le manifestazioni conclamate di PTSD ma anche i sintomi atipici e sotto soglia, talora espressione di tratti stabili comportamentali associati a costrutti diagnostici.

Il TALS prevede sia l’intervista clinica strutturata, la Structured Clinical Interview for Trauma and Loss Spectrum (SCI-TALS), sia il relativo questionario, il Trauma and Loss Spectrum – Self Report (TALS-SR). Entrambi gli strumenti sono costituiti da 116 voci con risposta dicotomica (sì/no), raccolti in 9 domini che indagano, nell’arco della vita, la presenza di sintomi di spettro riconducibili ad una serie di eventi potenzialmente traumatici e/o di perdita e inoltre analizzano le caratteristiche individuali e/o i fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo e di comportamenti maladattativi che potrebbero essere messi in atto dai soggetti.

Nel 2013 è avvenuta la pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), che ha apportato una serie di revisioni ai criteri sintomatologici del Disturbo Post Traumatico da Stress, con importanti implicazioni sia concettuali sia cliniche.

Il PTSD (APA, 2013) non è più classificato come Disturbo d'Ansia ma è stato incluso in una nuova categoria, ovvero i Disturbi correlati al Trauma e ad Eventi Stressanti - Trauma and Stress Related Disorders – dove il requisito fondamentale per fare diagnosi è rappresentato dall’esposizione all’evento stressante. In questa categoria diagnostica sono stati inclusi altri disturbi come il disturbo dell'adattamento, il disturbo reattivo dell'attaccamento, il disturbo disinibito dell’attaccamento, il disturbo acuto da stress e infine i disturbi correlati a trauma ed eventi stressanti non altrimenti specificati. Per fare diagnosi di PTSD è necessaria la presenza del Criterio A, riguardante l’esposizione al trauma, di quattro criteri sintomatologici (Criterio B, C, D, E), oltre alla durata (Criterio F) e alla compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio G e H).

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Sebbene oggigiorno la definizione di trauma nel PTSD comprenda numerosi eventi come le catastrofi naturali e un’ampia serie di esperienze quotidiane traumatiche, nel passato è stato determinante il contesto militare, che ha permesso di studiare, classificare e analizzare a fondo i quadri psicopatologici evidenziati sui soldati.

Infatti, in ambito psichiatrico, la Prima Guerra mondiale (1915-1918), ha rappresentato un’importante opportunità nel rilevare l’esistenza di una strana malattia, la nevrosi traumatica o da guerra, di fronte alla quale la psichiatria italiana iniziò a vacillare tra il vecchio e il nuovo. Il vecchio, era rappresentato dall’idea che la malattia mentale fosse determinata da una predisposizione ereditaria; il nuovo, indirizzava ad ammettere, seppur con fatica, che la possibilità del disturbo mentale potesse avere un’origine psichica, di natura emozionale.

Sia per la durata sia per la violenza del conflitto, la psichiatria fu obbligata a far fronte ad un’enorme massa di malati mentali provenienti proprio dalle trincee del fronte, massa che necessitava di diagnosi e possibili cure, ancora sconosciute alla medicina di allora. La maggior parte del personale sanitario si trasferì in trincea, e nei manicomi rimasero pochi psichiatri e infermieri che dovettero far fronte al notevole aumento dei ricoveri di soldati, in particolar modo avvenuti successivamente alle vicende del 24 ottobre 1917 – battaglia di Caporetto.

Lo scopo di questo studio è quello di investigare la correlazione tra le diagnosi e le caratteristiche sociodemografiche di una popolazione trattata fuori dal manicomio, ovvero in un reparto dell’ospedale universitario pisano del secolo scorso e di provare a fornire materiali utili per ricostruire una storiografia complessa e multifattoriale. L'obiettivo secondario è quello di provare a delineare la logica medica di gestione e dimissione dei ricoverati civili e militari, durante la Prima Guerra Mondiale.

I dati analizzati nei registri clinici dal 1907 al 1918 hanno fornito un’immagine della pratica clinica psichiatrica di Pisa estremamente intrecciata con il contesto istituzionale di questa specifica area geografica. La Clinica pisana ha cercato, nel tempo, di neutralizzare i problemi sociali e legali legati alle malattie mentali, salvaguardando sia i pazienti, sia la società durante le fasi più acute della malattia. Il ricovero dei soggetti, che principalmente giungevano dalle aree rurali della provincia di Pisa, risultava essere piuttosto breve e molto spesso mirava ad identificare un membro della famiglia che si assumesse la responsabilità legale del paziente, allo scopo di evitare il confinamento in un manicomio; infatti attraverso questa modalità di gestione del malato, nettamente a sfavore della istituzionalizzazione, è possibile rilevare come la

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Clinica anticipi l’attuale condotta direzionale della psichiatria territoriale. Tuttavia, nel periodo di sovraffollamento manicomiale, va considerata la sua importante funzione di “filtro” che permetteva il trasferimento di pazienti più cronici presso il Frenocomio di Volterra.

Sebbene la cura psichiatrica nella Clinica Pisana, era spesso orientata al trattamento dei disturbi acuti, analizzando i dati dal 1907 al 1918, è stato possibile individuare il razionale decisionale che spingeva a scegliere il trasferimento manicomiale piuttosto che la dimissione in prova.

Al riguardo, solamente in alcuni casi, riferiti a pazienti privi di supporto famigliare o con disabilità cognitive (sia senili, congenite o acquisite) invasive e croniche, si optava per il trasferimento in manicomio. Ciò tracciava la realtà di come, nei primi anni del XX secolo, l’affollamento manicomiale fosse rappresentato da pazienti affetti da patologie, che oggi (e in parte anche allora), si potrebbero definire più neurologiche che non psichiatriche.

Infatti, come sopra accennato, la tendenza della Clinica di Pisa, nei primi del Novecento, era quella di dimettere il paziente, valutando non solo la diagnosi clinica ma anche le contingenze individuali (demografiche e epidemiologiche) che al tempo stesso, consentivano un buon margine per le eccezioni.

In conclusione, la Clinica sceglieva il trasferimento manicomiale, attraverso una attenta valutazione dei fattori clinici e dei fattori sociali, ovvero dando importanza sia alla cronicità del quadro clinico del paziente sia all’isolamento sociale/famigliare (rilevato dalla mancanza di coniuge) piuttosto che alla pericolosità e dall’acuzie.

Tuttavia, sempre dall’analisi dei registri clinici, durante la Prima Guerra Mondiale, si evidenzia una logica gestionale dei pazienti differente rispetto al periodo non bellico. Nelle fasi più intense del conflitto, la cura psichiatrica nella Clinica, nei confronti dei malati ricoverati aumentò, così come aumentarono i trasferimenti in manicomio. Tra i pazienti ricoverati, i civili venivano maggiormente trasferiti in manicomio rispetto ai soldati; tuttavia, anche se il campione di soldati ricoverati risulta essere poco significativo, è possibile ipotizzare che l’assenza di un riconoscimento nosografico della patologia causata dall’ evento bellico potesse esser la causa di un’assenza di istituzionalizzazione e conseguentemente costringeva i militari a riprendere subito servizio dopo il congedo. Questo dato fa riflettere sulle motivazioni che hanno portato la psichiatria italiana e non, a dubitare dell’eziologia traumatica del disturbo.

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Sempre nello stesso periodo, i pazienti ricoverati risultarono essere più giovani, in prevalenza uomini e soprattutto la durata dei ricoveri risultò essere più breve. Così, all’aumento dei ricoveri, la Clinica pisana rispondeva riducendo la durata dell’ospedalizzazione, probabilmente da una parte cercava di evitare un conseguente sovraffollamento, dall’altra, nel corso della guerra la Clinica attraversò un periodo di crisi finanziaria che si rifletteva sulla capienza effettiva e sulla capacità di trattenere i pazienti; confermando così la linea l’aumento dei trasferimenti manicomiali e/o del licenziamento dei pazienti.

In conclusione, la Grande guerra, sia per la durata, sia per la violenza del conflitto, ha sicuramente fornito l’opportunità, ai medici del tempo, di mostrare l’esistenza di una malattia, fino ad allora priva di etichetta diagnostica specifica.

Le analisi dei registri clinici della Clinica Pisana hanno mostrato in maniera coerente con la realtà del tempo, uno spaccato delle difficoltà rilevate dalla psichiatria italiana nella gestione del trauma ad eziologia bellica, dovute principalmente al mancato sviluppo della psichiatria dinamica nel territorio nazionale e alla visione organicistica lombrosiana del disturbo. È oltremodo importante riflettere su come fosse comprensibile, leggere questo disturbo come sabotaggio o scambiarlo per fenomeno che si manifestava in militari che non riuscivano a controllare i propri contenuti psichici.

Prima di poter essere considerato in ambito psichiatrico, il concetto di trauma bellico subirà un processo di psicologizzazione lungo e complesso; sarà infatti necessario aspettare gli effetti devastanti della guerra del Vietnam, per permettere lo sviluppo di una nuova diagnosi e per riconoscere la patologia manifestata come Disturbo Post-Traumatico da Stress – PTSD.

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GESTIONE DEI PAZIENTI PSICHIATRICI

DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE: EPIDEMIOLOGIA,

ISTITUZIONALIZZAZIONE E SOCIETA’

1. CAPITOLO PRIMO

1.1 Un breve sguardo alla storia della psichiatria

Lo studio di quei fenomeni oggi noti come “patologie psichiatriche” ha storicamente impegnato moltissime culture, che di volta in volta hanno tentato di descriverla, classificarla e curarla con i termini, gli strumenti e i significati a cui si poteva accedere (De Nicolò et al., 1998). Ne risulta un percorso molto complesso, caratterizzato da nessi semantici il cui senso va ricercato nell’avvicendarsi dei contesti culturali, sociali e politici. La storiografia a riguardo è stata definita come “altrettanto estesa della disciplina stessa” (Shorter, 2008).

Come scrive De Bernardi:

la “forma- follia” ha subìto continue trasformazioni, perché lo spartiacque tra la normalità e la follia, tra la salute e la malattia mentale si è rivelato storicamente determinato (…) si è assistito cioè ad una variazione, ad una contrazione o dilatazione dei comportamenti individuali e collettivi che in epoche e strutture sociali differenti sono stati sussunti nello spazio della malattia mentale. (...) più che di storia della follia, si deve parlare di storia delle forme che hanno espresso e sancito nel tempo il giudizio sulle tipologie dell’anormalità e, d’altro canto, delle strutture istituzionali (De Bernardi, 1982 :12).

Già a partire dall’antichità classica, alcune alterazioni del funzionamento psichico furono considerate e analizzate come problema di natura medica, da ricondursi ad un’alterazione del soma: fu Ippocrate che nel mondo occidentale descrisse il primo caso di melanconia riconoscendolo come risultato di cause naturali, definendola nei termini di un’alterazione della fisiologia legata alla produzione ed allo smaltimento di uno dei quattro umori corporei, ovvero la “bile nera” (Akiskal et al., 2007).

In epoca medioevale, in risposta alle numerose epidemie, (lebbra e peste, fra le principali) si diffuse in tutta Europa la nascita di lazzeretti, lebbrosari. Si tratta di luoghi separati dal resto delle città, che avevano lo scopo di difendere dal contagio il resto della popolazione.

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La finalità principale di questi istituti non era tuttavia terapeutica ma solo d’esclusione dalla società. In questo senso, si può capire l’affermazione foucaultiana che vede nella scotomizzazione del malato dal corpo sociale, consegnato a tempo indefinito ad un luogo specifico e separato, come l’antefatto della segregazione cui andrà incontro, in modi e maniere che però non sono ancora stati specificamente definiti, quello che a partire dall’Illuminismo sarà il malato mentale (Foucault, 2016; Dell’Osso, Muti in press). Infatti, la malattia fu intesa come fatto metafisico, connesso con la sfera del divino e del provvidenziale: una “prova” da sopportare e superare con la fede, piuttosto che un disturbo da cui guarire seguendo apposite pratiche (Pazzini, 2015).

“Amico mio,” dice il rituale della chiesa di Vienna “Nostro Signore vuole che tu sia infetto da questa malattia, e ti fa una grande grazia quando ti vuole punire dei peccati che hai commesso in questo mondo. (…) In una strana reversibilità che si oppone a quella dei meriti e delle preghiere, essi sono salvati dalla mano che non si tende. Il peccatore che abbandona il lebbroso sulla porta gli offre la salvezza. (…) L’abbandono è per lui una forma di salvezza (Foucault, 2016: 62-63).

“Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale” con questa celebre e storica affermazione inizia la Storia della follia nell’età classica di M. Foucault, che permetteva di chiarire il motivo principale dell’abbandono di tutte queste strutture e il loro successivo riutilizzo per separare il malato di mente. Il personaggio medioevale del lebbroso, emblema dell’esclusione e dell’emarginazione, fu sostituito sia fisicamente, sia simbolicamente da quello del folle, nel tardo Seicento. A tal proposito D’Alessandro afferma:

se nel Duecento è la lebbra, la causa di esclusione sociale, intorno al Quattrocento e Cinquecento saranno le malattie veneree e solo successivamente i disturbi mentali. Al di là delle diverse cause di morbilità resta quindi costante la forma: quella di un’esclusione organizzata, socialmente imposta in base ai meccanismi della paura e dell’ignoranza (D’Alessandro 2008: 120).

Nel periodo rinascimentale il destino del malato di mente venne collegato alla “Nave dei folli” o “Sultifera Navis”, creazioni letterarie rappresentate da battelli, carichi di folli, che percorrevano fiumi vagando da una città all’altra. Le cronache del tempo, nella realtà dei fatti, narrarono di comitive di folli che –via terra o via acqua- raggiunsero le periferie dei borghi cittadini e lì sostavano fintanto che, raggiunto il limite di sopportazione, la comunità non si adoperava a trovare una nuova sistemazione.

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La navigazione dei folli simboleggiava non solo un allontanamento territoriale, ma soprattutto mentale dall’ordine della città. Lo spazio è definito dall’abitante, nell’argomento di Foucault, e quindi se la città è destinata al logos della nuova classe borghese, che si riflette nell’architettura e nell’urbanistica apollinea dei nuovi centri urbani, il folle è da consegnarsi ad un mezzo errante, a una dimensione sospesa, segregata, una deraison esclusa dalla partecipazione all’ordine sociale.

La sultifera navis non è ancora un ospedale, un dispositivo ordinato ma piuttosto un tentativo di sottrarre ogni diritto di cittadinanza alla dimensione della s-ragione:

in un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la situazione “liminare” del folle all'orizzonte della inquietudine dell'uomo medioevale; situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di essere “rinchiuso” alle “porte” della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può e non deve avere altra prigione che la “soglia” stessa, lo si trattiene sul luogo di passaggio. È posto all'interno dell'esterno e viceversa. Posizione altamente simbolica

(Foucault, 2016: 70).

Questa visione culmina nella coscienza critica di Descartes, che separerà categoricamente la follia dalla Ragione.

A seguito del celebre assioma “cogito ergo sum”, il soggetto pensante esclude da sé, con il dubbio metodologico, la follia, dunque esso non può essere folle proprio per il fatto che pensa: la follia non è pensiero. La ragione e la follia sono altrimenti in relazione ma quest’ultima è subordinata, ne diventa patologia, limite per l’uomo. Il cogito ergo sum potrebbe essere dubitato, soltanto, se si fosse folli: in tal caso si esisterebbe pur non pensando propriamente. Ma tale obiezione è liquidata dal filosofo proprio in ragione della follia in essa insita, con un procedimento che rivela una circolarità ermeneutica (Foucault, 2016).

Foucault osserva l’origine della distinzione inflessibile tra normalità e follia, che sarà preparatoria per l’istituzionalizzazione segregativa del disturbo mentale:

se l’uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità e da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l’esperienza, così familiare alla Renaissance, di una Ragione sragionevole e di una ragionevole Sragione (Foucault, 2016: 116).

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La Ragione dovrà essere resa immune dal morbo della follia attraverso l’edificazione delle prime grandi case da internamento, che spesso sfrutteranno le mura degli antichi lebbrosari.

A partire dal XVII secolo, in tutta Europa, la società borghese rispose con l’internamento di tutte quelle figure, come folli e vagabondi, che costituivano una minaccia per il mantenimento dell’ordine sociale:

l’istituzione psichiatrica trae le sue origini, ed i suoi primi pazienti, dal regime di segregazione (ospizi, carceri, ospedali ecc.) largamente, diffuso nell’Europa moderna ed assolutistica ed utilizzato, nella nascente società borghese, per controllare, reprimere e/o neutralizzare, settori sociali (poveri, inabili, emarginati ecc.) ritenuti potenzialmente, o di fatto pericolosi (Stok, 1983: 2).

Non vi era alcuna differenza tra mendicanti, poveri, eretici, criminali, alcolisti e matti, i quali venivano, in un modo o nell’altro, internati in istituti, case di correzione con aspetti ospedalieri e tratti penitenziari. Progressivamente il destino del folle si confuse con quello del povero e del criminale, cosicché al malato di mente non veniva offerta alcuna cura medica o assistenza, quasi che l’affacciarsi dell’epoca dei lumi ricacciasse l’umbratilità della follia in uno spazio ontologico e fisico dimidiato. Al riguardo Lippi evidenziava:

per lo meno nei secoli precedenti, le istituzioni, ma anche la gente comune non faceva alcuna differenza fra miseri, vagabondi e matti sia perché il criterio delle condizioni economiche oltre quello della pericolosità sociale sarà sempre determinate per stabilire l’intervento da operare sul folle sia dentro che fuori l’istituto manicomiale. Ma il motivo centrale dell’intervento pubblico è la legalità dell’internamento, cioè il pazzo deve essere rinchiuso perché pericoloso per sé e per gli altri e quindi i motivi di ordine e sicurezza pubblica devono essere adottati dal giudice in quanto unica autorità istituzionale che ha il potere di giustificare la perdita della libertà di un individuo (Lippi, 1996: 15).

Infatti, con l’intento di tutelare la sicurezza dei cittadini, si affidavano questi individui a enti di carità di natura ecclesiastica, istituti di ricovero, ospedali. Ci si riferisce a questo fenomeno di lunga durata con il termine “istituzionalizzazione”. L’istituzionalizzazione si diffuse a partire dal Settecento, e caratterizzò tutto l’Ottocento e il primo Novecento. Una dimensione, quella del collocamento dei malati in luoghi specifici, che è stata a lungo studiata in sede storica, soprattutto in connessione con problematiche sociali e politiche e con i temi dell’esclusione e della repressione della devianza.

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Per descrivere gli effetti della diffusione delle istituzioni psichiatriche in Europa, lo studioso francese Michel Foucault (1926-1984) ha coniato il termine di “grande internamento”, riferendosi ai numeri in costante aumento dei pazienti ricoverati presso morotrofi e manicomi (Shorter, 2007; Foucault, 2011).

Il motivo centrale dell’intervento pubblico statale era la legalità, la sicurezza sociale, difatti il fine terapeutico subentrò solo in un secondo momento, quando nelle strutture comparvero i primi medici deputati all’assistenza.

Circa a metà del Settecento, con l’organizzarsi di strutture statali più solide e centralizzate, i medici iniziarono ad avere una maggiore libertà di movimento all’interno di quelle realtà ospiziali (“Ospitali” e “ricoveri”) dove si trovavano ricoverati pazienti affetti dai disturbi più disparati, non ultimi quelli psichiatrici.

E se da un lato questa dinamica consentì l’approccio alla nuova medicina empirica e fisiologica del Seicento al problema delle malattie mentali, dall’altro essa diffuse la pratica di internamento del paziente all’interno di strutture speciali.

A cavallo dei due secoli, tra Settecento e Ottocento, la prima Rivoluzione Industriale (1760-1830), richiamò numerosi lavoratori dalle zone rurali verso gli stabilimenti industriali del tempo. Questa imponente migrazione elicitò la presenza dei “folli” nella popolazione generale. Da bizzarria isolata nel villaggio, figura che poteva essere sostenuta da uno sforzo collettivo, il folle diviene volto senza nome in una popolazione numerosa di devianti, turbamento nell’equilibrio di spazi pubblici e privati fattisi progressivamente più sorvegliati e parcellizzati nel contesto della più rigida società moderna.

L’ultimo scorcio del XVIII secolo, contraddistinto dalla vigorosa affermazione dell’Illuminismo in tutta Europa, portò al centro del dibattito culturale il primato della ragione e l’affermazione della libertà dell’individuo. L’onda di questo movimento filosofico, fu determinante per permettere l’apertura verso la trattazione terapeutica delle malattie, dando importanza al ruolo della cura morale, e per superare il limite rappresentato dal rigido custodialismo asilare; limite che poteva essere contenuto solo dall’entrata nella scena culturale di una scienza della non-ragione, di un discorso ordinato su ciò che eccede il logos. L’età illuministica determinò quindi l’inizio della medicalizzazione della malattia mentale, sostenuta dal forte ottimismo nei confronti del progresso dell’umanità e dall’assoluta fiducia nella possibilità di una terapia psichiatrica; e in ciò il sentire comune degli scienziati stabilì un netto distacco col

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passato, un cambiamento positivo nel rapporto con il malato mentale e nella gestione dell’istituto di ricovero (Martini et al. 2016: 74).

Pertanto, si riconobbe nell’istituzione manicomiale, sia lo strumento principe per il recupero dell’alienato, sia lo spazio idoneo per la guarigione. La soluzione asilare e medicalizzata appare in questo periodo come un palladio salvifico, un fatto di puro progresso morale che non viene ulteriormente problematizzato (Stok, 1983: 1).

Come rappresentanti delle istanze illuministiche emersero due illustri voci: Vincenzo Chiarugi in Italia e Philippe Pinel in Francia.

Chiarugi, direttore medico dell’Ospedale Bonifazio a Firenze, professava una convinta fiducia sulla base somatica della follia ma non dimenticava di porre al centro dell’attenzione la sofferenza del malato, andando a istituzionalizzare in senso ippocrateo il rapporto fra medico e paziente psichiatrico e per questo, riteneva che nei confronti degli alienati non dovessero essere usati né metodi crudeli di coercizione, né la forza fisica (Chiarugi, 1793).

Difatti, la legge toscana, già nel 1774 affermava in maniera specifica il dovere di rispettare l’ammalato mentale come persona (Martini et al., 2016: 75).

Il ruolo di P. Pinel, seppur successivo a Vincenzo Chiarugi, fu particolarmente significativo in tutta Europa.

A differenza del medico empolese, Pinel nella sua monografia, Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale ou la manie si riteneva che la causa più probabile dei disturbi mentali fosse determinata da eventi specifici, piuttosto che da una patologia cerebrale – organica, in quanto non veniva rilevata, a suo giudizio, alcuna anomalia morfologica degna di nota cosicché il trattamento messo in atto sui pazienti si fondava principalmente sul recupero delle emozioni umane, definendolo un traitement moral (Pinel, 1801).

Negli istituti di ricovero si sostenevano trattamenti “medici” tradizionali - come le purghe, i digiuni, i salassi, i bagni caldi o freddi - e trattamenti educativi e rieducativi: ovvero l’approccio “morale”, frutto per l’appunto del periodo illuminista.

Perciò esistevano realtà in cui i malati subivano rimedi fisici come isolamento, lavori inutili come ad esempio scavare buche per poi ricoprirle, imparare infiniti nomi a memoria oppure l’obbligo di partecipare a lunghissime funzioni religiose, a cui si aggiungevano esplosioni improvvise per distrarre i soggetti dalle loro idee fisse – perversioni - o anche tentativi di annegamento in apposite vasche.

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non vi può essere dubbio sul fatto che il principio della paura nella mente umana, quando sia suscitato moderatamente e giudiziosamente, come avviene mediante l’applicazione di leggi giuste e egualitarie, ha un effetto salutare sulla società. È questo un principio grandemente usato nella educazione dei bambini, la cui imperfetta conoscenza e imperfetta capacità di giudizio fanno sì che essi siano meno influenzabili da altri fattori. Ma quando la paura viene suscitata in modo eccessivo, o quando diviene il principale motivo per agire, essa certamente tende a impedire la comprensione, a indebolire le disposizioni benigne ad avvilire la mente (Tuke, 1813: 142).

Tuttavia non mancarono esperienze e testimonianze positive nei confronti dell’istituzione manicomiale, sia da parte dei pazienti, sia da parte dei familiari. Le analisi di J. Shepherd presenti in I am very glad and cheered when I hear the flute: The Treatment of Criminal Lunatics in
Late Victorian Broadmoor chiarirono in modo migliore la realtà del manicomio vittoriano di Broadmoor, descritta attraverso la corrispondenza di alcuni pazienti come luogo terapeutico e curativo:

in August 1883, Matthew Jackson Hunter, a patient at Broadmoor Criminal Lunatic Asylum, wrote to his sister: it is a splendid block of buildings. . . has an extensive view and is very healthy. . . the patients spend most of their time. . . exercising in the gardens, reading the daily papers, monthly periodicals etc., there is also a well selected library. . . a cricket club, billiards, cards and other amusements. In the wintertime we have entertainments given by the patients, such as plays, singing, etc. [We] have a good brass band which gives selections of music every Monday evening during the summer months on the terrace opposite the chapel. . . [We] are treat[ed] with kindness by the officials placed over us, [and] have free conversation among the other patients (Shepherd, 2016: 474).

Oltremodo, questo studio mostrava come l’ipotesi, sufficientemente diffusa in Europa, del pessimismo psichiatrico e della natura incurabile della follia, non colpisse tutte le strutture manicomiali:

Broadmoor also impressed some medical men. Whilst he was superintendent, Orange invited authorities on crime and insanity to the asylum, including, in August 1881, members of the International Medical Congress. Following his visit, French physician, Dr Motet, told the French Government: ‘We have returned from Broadmoor satisfied at having found the realisation of an idea that has always appeared to us to be right[...] The following year, as highlighted by British alienists T.W. McDowall and Daniel Hack Tuke, they hoped ‘that France will soon have its Broadmoor also (Shepherd, 2016: 482).

Nell’Ottocento, soprattutto nella sua seconda metà, si assistette ad un notevole sviluppo delle scienze della mente. È proprio nelle opere di Johann Christian Reil (1759-1813), che compare classicamente il primo impiego nel senso moderno della parola “psichiatria”. Nel frattempo, all’inizio del secolo, soprattutto negli ambienti

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anglosassoni, i medici specializzati in malattie mentali riuscirono ad organizzarsi in associazioni (un cambiamento che in Italia avverrà, ad esempio, solo a metà del secolo). In questo modo le diverse scienze della mente (neurologia e psichiatria prima, psicologia poi) avanzarono in “parallelo”, seguendo paradigmi eterogenei e presentando importanti contaminazioni, sia con altri rami della medicina sia –a partire dalla metà del secolo– con le scienze naturali e la biologia in particolare. Gli esponenti più famosi delle scuole francesi, rispettivamente Hippolyte Bernheim (1840-1919) e Jean-Martin Charcot (1825-1893), contribuirono a comporre un’evoluta tradizione di ricerca nosografica e a sviluppare lo studio sugli effetti della suggestione nelle condizioni psichiatriche (si pensi ai procedimenti ipnotici sulle isteriche) (Ellenberger, 1976). Nel frattempo, nel 1869, Paul Broca (1824-1880) attraverso i numerosi studi sulle lesioni cerebrali e le afasie, fondò la disciplina della neurofisiologia, nel senso contemporaneo del termine. Specialmente in ambiente mitteleuropeo, nacque un orientamento fortemente biologista che avrà poi un notevole rilievo sul finire del diciannovesimo secolo e che fu intrapreso nel 1860 da Benedict Augustin Morel (1809-1873), e infine completato da Emil Kraepelin (1856-1926) nel 1895. Contestualmente sorsero le basi della psichiatria, nella sua accezione contemporanea, in quanto essa verrà riconosciuta ed esercitata come una disciplina internistica che si occupa di patologie completamente soggette a leggi biologiche, con eziologia ambientale ma soprattutto genetica (Wallace et al., 2008; Kendrel, 2009).

La classificazione nosografica messa a punto da Kraepelin fu un’opera fondamentale perché rendeva comprensibili dati e fenomeni che fino ad ora erano stati inquadrati in modo confuso e disomogeneo (si pensi alla grande operazione sintetica rappresentata dal quadro clinico della dementia praecox). Valutando il disturbo mentale attraverso due chiari parametri: il decorso clinico e l’espressione sintomatica, questo approccio riavvicinava la psichiatria ad altre branche della medicina interna.

L’approccio kraepeliniano consentì di isolare due entità patologiche: la demenza precoce e la psicosi maniaco-depressiva, là dove l’“idiozia” e la “demenza senile” erano già descritte, mentre per quanto riguardava la “mania” e la “malinconia”, sussistevano classificazioni specifiche e criteri non condivisi. Questi due poli rimasero per molto tempo un punto cardine della cura delle malattie mentali e non a caso la sua opera segnò l’inizio e la nascita della Psichiatria, come disciplina autonoma (Ebert et al., 2010). Tuttavia è necessario rilevare che questo metodo di osservazione venne messo in crisi da diversi autori, poiché nonostante fosse una prassi ritenuta esatta sul piano clinico,

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invero si era dimostrata fortemente influenzata dalla particolare condizione di osservazione e quindi suscettibile ad interpretazione (Lalli, 1997). È possibile fare riferimento alle ben note pagine de L’io diviso di Laing, libro in cui cita e commenta una dimostrazione fatta in aula da Kraepelin su una paziente:

Signori! prenderemo oggi in esame dei quadri clinici veramente strani. Vedono anzitutto una donna di ventiquattr’anni, domestica, che reca sul volto e in tutta la persona i segni d’una denutrizione gravissima. Tuttavia la malata è in continuo movimento, fa passi innanzi, passi indietro; si attorciglia la treccia alle mani, poi la scioglie e così via. Provando a trattenerla in queste sue mosse, troviamo una forza di resistenza inattesa; se mi colloco a lei dinanzi con le braccia aperte per impedirle il passo, mi scappa di sotto il braccio continuando la sua corsa. La sua fisionomia è di solito immobile e priva di espressione; ma se la si tiene ferma a forza, allora essa contrae tutta la faccia, e dà in un pianto lamentoso, che cessa subito appena la si abbandoni. Vedano come tiene, stretto tra le ultime dita della mano sinistra, un tozzo di pane, e quanta resistenza oppone a chi glielo vuol prendere [...] (Laing, 1969: 24-25).

Laing commenta:

Siamo qui in presenza di un uomo e di una ragazza. Se vediamo la situazione unicamente in base al punto di vista di Kraepelin, tutto va subito a posto: lui è sano, lei è malata, lui è razionale, lei è irrazionale. Ciò comporta che si considerino le azioni della paziente come avulse dall’esperienza che ella ha della situazione. Ma se esaminiamo le azioni di Kraepelin separate dal contesto della situazione quale egli la esperimenta e descrive: cerca di fermare i suoi movimenti, sta davanti a lei con le braccia alzate, cerca di prendere un pezzo di pane dalla sua mano, la punge con un ago e così via. Lo psichiatra, nelle vesti di quello che è ipso facto sano di mente, (lo psichiatra diventa la pietra angolare del nostro senso comune di normalità - ecco il mandato sociale dello psichiatra) dimostra come il paziente non sia in contatto con lui: il fatto che egli è fuori contatto con il paziente può solo dimostrare che c’è qualcosa che non va nel paziente, ma non mai che ci sia qualcosa che non va nello psichiatra (Lalli, 2005:28).

Era di tutt’altro avviso Sigmund Freud, contemporaneo di Kraepelin nonché uno dei maggiori nomi della corrente psicodinamica. È noto che i due, nonostante condividessero lo stesso anno di nascita, in ambito professionale furono considerati agli antipodi. La dottrina freudiana ruotava indiscutibilmente attorno alla nozione di inconscio, a sua volta derivata da una tradizione di ricerca più francese che mitteleuropea (Ellemberger, 1976) nonché all’uso della psicoterapia, metodi che Kraepelin criticò fin da subito, perché li giudicava non sufficientemente scientifici (Ebert et al., 2010).

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1.2 La mappa della follia in Italia nel Novecento

La storia della psichiatria italiana messa a confronto con la scena europea, mostrò un duplice ritardo: cronologico prima e scientifico dopo.

Il primo, fu provocato, sia da un modesto sviluppo industriale, che generò miseria e tensioni, sia dal rallentamento nel processo di unificazione (Scartabellati, 2001: 18); il secondo, il ritardo scientifico, mise in evidenza, fin da subito, un’evidente subalternità alle esperienze straniere, inizialmente francesi e successivamente tedesche.

Fu la Scienza alienista in principio che influenzò una parte della psichiatria italiana: è del 1813 il trasferimento dei folli dalla sede dell’ospedale degli Incurabili ad un luogo più specifico come le Reali case de’ Matti di Aversa (Catapano,1986).

Nonostante l’entusiasmo iniziale, i padri fondatori del movimento alienista: A. Verga, S. Biffi, C. Livi, non riuscirono a superare il nichilismo terapeutico, basato essenzialmente su ergoterapie o interventi di persuasione morale (Scartabellati, 2001: 19).

Alla fine del XIX secolo, con il consolidarsi dell’influsso della cultura positivista e della psichiatria di matrice tedesca, in Italia si affermò una gestione del disturbo mentale di tipo repressivo. Il sistema dell’assistenza psichiatrica, si mosse verso un dispositivo di intervento classico, fondato sul modello manicomiale e sul principio dell’internamento del folle (Giacanelli, 1980: 18), strumento che si diffuse e si potenziò in tutta la penisola e specialmente nel nord Italia. I manicomi erano in questa fase eminentemente espropriazioni di precedenti strutture assistenziali cattoliche. Non mancarono in questo voci di dissenso, quale quella di Augusto Tamburini che, per molti anni, sostenne la necessità di una capillarità del sistema assistenziale (“molti manicomi di piccole dimensioni”) da dedicarsi eminentemente alla gestione delle acuzie (Tamburini, 1918: 220).

Allo stesso modo F. Giacanelli affermava:

si costituiva come sapere scientifico e come organizzazione e si formava partendo essenzialmente dall’esperienza manicomiale poiché in quel luogo e quel momento sono rappresentati i bisogni dello Stato nascente e le esigenze delle classi dominanti, e nella fattispecie della borghesia, che sente il compito di affermare il proprio potere rispetto alle forze cattoliche (Giacanelli, 1973).

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Proprio in questo contesto socio-politico, si affermò il pensiero di Cesare Lombroso, che indirizzò la psichiatria italiana verso un metodo di ricerca del “riscontro obiettivo” (Scartabellati, 2001: 20). Lombroso riuscì, oltretutto, ad oltrepassare i confini nazionali, contribuendo così a diffondere il suo imperativo metodologico, dichiarato in occasione dell’apertura degli studi nella Regia Università di Torino, nel 1887:

e prima di tutto dichiaro, che i fatti non possono essere né morali né immorali: sono fatti. Si tratta di una scienza tratta dai fatti, dove il ruolo di psichiatra si spoglia di ogni tendenza aprioristica, corazzandosi coll’anatomia, colla patologia, colla fine istiologia dei centri nervosi (Lombroso, 1888: 24).

In tal modo, in virtù dei numerosi insuccessi terapeutici e di una presa di coscienza degli evidenti limiti teorico-pratici della propria disciplina, il pensiero di Lombroso si impose prepotentemente nella realtà psichiatrica italiana.

Nell’Italia del Positivismo caratterizzata dal tentativo di Ardigò e Loria (Pironi, 2000; Perri, 2004) di assegnare alla cultura pubblica il carattere definitivo della scienza, antitetico alla mutevolezza del filosofare tradizionale (Garin, 1967), la scienza del disturbo mentale si divideva negli spazi e nei paradigmi fra un volto psichiatrico terapeutico ed un versante antropologico criminale che sarà una fonte di ambiguità sociali, politiche e culturali (Frétigné 1999).

Lombroso tracciò in effetti una differenza qualitativa fra “sani” e “malati”, una distinzione fra onesti e delinquenti che forse aveva più contatti con la cronaca d’epoca (e, in particolare, con la “questione meridionale”) che non con il tentativo, in senso medico, di lenire le sofferenze mentali (Ferracuti, 2013), e che smentiva nei principi quell’afflato illuminista che nella terapia della follia, e nella liberazione della s-ragione dalle catene del pregiudizio (e da quelle, più concrete, della reclusione fisica) aveva avuto la sua ragion d’essere storica.

In particolare, è nell’opera L’uomo delinquente (1876), che Lombroso affronta la teoria antropologica della delinquenza, evidenziando come il comportamento criminale dell’individuo, non fosse il frutto del libero arbitrio bensì di un’anomalia fisica, costituzionale e, conseguentemente, di una degenerazione psichica su base ereditaria da classificare con precise osservazioni e misurazioni antropometriche (Guidi, 2017). Attraverso il caso di Salvatore Misdea e l’indagine sul brigante calabrese Giuseppe Villella, Lombroso ritrova le prove concrete di forme somatiche ancestrali, non evolute, rafforzando così l’ipotesi atavistica del criminale-nato e l’interpretazione razziale dell’inferiorità meridionale:

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in genere i più fra i delinquenti-nati hanno orecchi ad ansa, capelli abbondanti, scarsa la barba, seni frontali spiccati, mandibola enorme, mento quadro o sporgente, zigomi allargati, gesticolazione frequente, tipo, insomma somigliante al Mongolico e qualche volta al Negroide (Lombroso, 1896: 278).

Bisogna inoltre menzionare come molti medici non sottoscrivessero in pieno il nucleo di evoluzionismo sociale che animava le tesi lombrosiane. Scrisse ad esempio Eugenio Tanzi (1856-1934), psichiatra autore del famoso Trattato delle Malattie Mentali:

io credo che l’immoralità del carattere, anche se raggiunge il grado di una anomalia costituzionale, non vada necessariamente associata ai segni di degenerazione che Lombroso e i suoi seguaci hanno raccolto e classificato con tanta cura. Il valore di questi segni antropologici è piuttosto discutibile; non è ben certo che essi siano più frequenti nei criminali anziché in altre categorie; […]. L’espediente è utile, ma non ha che un valore pratico e del tutto estraneo alla psichiatria (Tanzi, 1905: 649-650).

Una posizione molto simile è assunta da Enrico Morselli, in apertura al Manuale di Semejotica delle Malattie Mentali:

né debbo tacere come d'altra parte vi abbiano alienisti così poco severi in fatto di metodo da azzardarsi ad emettere un diagnostico sulla semplice indicazione del luogo di nascita (per esempio nei casi di presupposta pellagra o di preconcetto cretinismo); ovvero così superficiali nello studio clinico del pazzo, anche quando intendono procedere con norme scientifiche, che si arrestano alla pura misurazione del cranio ed all'esame dei più tenui ed insignificanti caratteri morfologici, attribuendo loro fallacemente un valore diagnostico che non hanno, né possono avere (Morselli, 1891: 19).

Come chiarisce anche Napoleone Colajanni:

mi distacco soprattutto da Lombroso e dai suoi più ciechi discepoli nell'accordare la massima importanza ai caratteri psichici, dei quali ritengo non sia dimostrata la corrispondenza con quelli fisici. Perché manca la corrispondenza tentai spiegarlo; non la respingo, però, a priori e sarò pronto ad accettarla quando fatti bene assodati la dimostreranno (Colajanni, 1890: 59).

Affermando che, il motivo del delinquere poteva essere rintracciato non su basi puramente biologiche ma esaminando altri fattori come quelli ambientali e quelli socio-economici:

colla eredità, colla educazione e coll’azione infinitamente complessa dell’ambiente si spiegano le innumerevoli variazioni individuali, senza ricorrere né al caso, né a qualsiasi altro principio misterioso

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Soprattutto, fu evidente come l’antagonismo tra Cesare Lombroso e Napoleone Colajanni fosse rivelatore della contrapposizione tra cultura positivista conservatrice e cultura positivista progressista (Frétigné, 1999).

Tuttavia, nonostante le teorie lombrosiane rappresentino un’importante punto di riferimento per l’indirizzo della psichiatria italiana, sarebbe un errore considerare gli psichiatri italiani di fine Ottocento un gruppo omogeneo.

A vent’anni dall’ unificazione, causa l’assenza di una regolamentazione normativa, i manicomi risultarono essere profondamente disorganizzati. Nello specifico, non disponevano delle prerogative necessarie per il corretto funzionamento delle strutture e da ciò ne risultò, la scarsità di personale medico, l’inadeguatezza dei locali e delle condizioni igieniche, la cattiva o insufficiente alimentazione dei degenti (Babini, 2011: 9).

Significative difficoltà emersero specialmente nella gestione del sovraffollamento e furono per lo più causate dall’ accrescimento della popolazione e dalle limitate dimissioni, spesso correlate agli scarsi successi terapeutici. Risultò mediamente, sulla base di un censimento ministeriale del 1898, un’eccedenza tra i 200 e i 600 individui, rispetto alla capacità ottimale degli istituti (Tamburini, 1902: 671-687).

L’illustre psichiatra Augusto Tamburini, menzionò, in un articolo nella Rivista sperimentale di freniatria del 1902, l’importanza di avviare su scala nazionale, moderne formule assistenziali atte a ridurre la popolazione manicomiale: ad esempio con l’istituzione di colonie agricole o con la custodia domestica per malati cronici innocui, gestite da infermieri o ex addetti al manicomio oppure con un’assistenza organizzata in piccoli asili di cura per malati acuti o pericolosi.

A tal proposito nel 1902, l’inchiesta sulla realtà manicomiale della provincia di Venezia realizzata dalla commissione presieduta dal professor Belmondo e pubblicata sulla prestigiosa Rivista sperimentale di freniatria, fu destinata a segnare un’epoca nella psichiatria italiana:

infermieri rozzi, maleducati e in cinica attitudine di carcerieri, una quantità di malati tenuti colle catene, coi ceppi e le balze di ferro alle mani e ai piedi, sulle nude carni contuse, intormentite e sanguinose, per settimane, per mesi, per anni, senza alcuna vigilanza medica […].

I passi più atroci e disumani della relazione finirono sulle pagine della pubblica stampa, nel Corriere della Sera del 2 dicembre 1902, e ciò permise di sospettare che il manicomio di Venezia non fosse un caso poi così isolato.

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Infatti, lo scandalo manicomiale portato alla luce dal giornalismo italiano ebbe un importante e prezioso effetto sulla politica e sulla società: si giunse alla presentazione al Senato - da parte del ministro Giolitti – della proposta di legge sui manicomi e gli alienati, intitolato “Disposizione sui manicomi pubblici e privati” del 6 dicembre 1902. Finalmente, dopo quarant’anni di discussioni e inchieste, il 12 febbraio del 1904, la legge n.36, fu approvata e promulgata il 14 dello stesso mese e attribuiva agli psichiatri la piena autorità e responsabilità sul servizio sanitario, l’alta sorveglianza sulla gestione economica e il potere disciplinare, cioè la responsabilità per tutte le trasgressioni della stessa. Nonostante tutto gli psichiatri, pur riconoscendone i risultati, evidenziavano ancora un forte controllo di natura gestionale-amministrativa da parte delle provincie (Babini, 2011: 18-20).

È importante sottolineare che la legge Giolitti 36/1904 stabilì, come condizione principale di internamento, la pericolosità sociale e il “pubblico scandalo” pertanto era evidente che si entrava in manicomio, non perché si era malati, ma perché nocivi, pericolosi a sé o agli altri o improduttivi.

Scrive Guarnieri, “la pericolosità non era qualità intrinseca alla patologia mentale (come invece nei più duraturi pregiudizi)”, (Guarnieri, 2007: 483) ma rappresentava un criterio restrittivo di ospedalizzazione in risposta all’eccessivo aumento dei ricoveri.

La legge così espressa, imponeva un limite, definendone appunto la tipologia degli ammissibili, all’ammissione in manicomio.

Tuttavia, solamente nell’agosto del 1909, la legge, entrò a pieno regime, con l’approvazione del dettagliato Regolamento per l’esecuzione della legge 14 febbraio 1904, n.36, in cui si prevedeva la creazione di nuovi manicomi, il rinnovamento di quelli esistenti ma soprattutto si ammetteva il collocamento dei pazienti cronici (che rappresentavano la maggior parte della popolazione manicomiale) in ospizi, ville della salute o case familiari, contesti considerati indispensabili per il processo terapeutico, sempre vigilati dallo stesso Ministero degli Interni (Guarnieri, 2007:484; Bongiorno, 2013:210).

Quest’ultima proposta appariva conveniente, ma non sempre praticabile, poiché nel momento in cui l’assistenza domestica da soluzione solo privata passava ad essere istituzionalizzata, allora diveniva obbligatorio stabilire dei criteri selettivi dove si distinguevano quali fossero i pazienti che dovevano essere accolti in manicomio e quali invece potevano rimanere in famiglia (Guarnieri, 2007:482).

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Pertanto sarebbe stato doveroso che il manicomio diventasse uno spazio utile per il trattamento delle malattie mentali in acuto, piuttosto che uno spazio per neutralizzare la pericolosità dei pazienti, come era stato considerato fino a quel momento. Bongiorno asserisce che:

la logica da seguire era quella secondo cui la malattia mentale è una malattia che può essere trattata come una qualsiasi, specialmente acuta, quindi curabile in molti casi. Solo come ultima risorsa il manicomio doveva essere considerato la mera risposta al pericolo, il concetto che in precedenza aveva prevalso

(Bongiorno, 2013: 211).

Sempre in riferimento alla legge, Giovanni Mingazzini, direttore del manicomio di Roma agli inizi del Novecento osservò:

il continuo sovraffollamento era determinato dall’ammissione degli scemi, degli imbecilli, dei vecchi rammolliti, degli epilettici i quali non trovano nelle loro famiglie assistenza. Senza che neppure potessero trarne giovamento – si spiegava – i poveri dementi finivano per intralciare il regolare funzionamento dei nosocomi [...] i quali devono essere istituti di cura, non di inerte degenza o di sequestro, aperti a malati di mente che fosse possibile curare. Quelli congeniti e cronici fossero dunque assistiti in istituti a cura ospiziale [...] non attiva, oppure si tenessero a casa, in famiglia (Relazione della Commissione per la Riforma del regolamento amministrativo ed organico, 1911: 36-37) (Guarnieri, 2007: 482).

Visti gli accadimenti, fu evidente come gli psichiatri non furono assolutamente soddisfatti della norma dai caratteri fin troppo esclusivi, poichè costringeva a ridurre il manicomio a luogo di contenitore di soli malati “disturbanti l’ordine pubblico”, inoltre, molti di essi denunciarono come la legge del 1904/36 non fosse stata veramente applicata:

se si applicasse rigorosamente la legge [...] questo inconveniente non si verificherebbe, predicò per esempio il direttore del manicomio di Roma nel 1911. Ma quando un malato si presenta con un certificato medico [...] [come] è possibile rifiutarlo, sapendo che sarà abbandonato a se stesso? Quando la famiglia non lo teneva, in mancanza di quegli «Istituti adatti» che la legge raccomandava per i malati di mente cronici, ma che né lo Stato né le Province trovano soldi per aprire, si è costretti quindi ad ospitare questa folla di poveri dementi: senza beneficio per loro, a scapito degli altri malati per i quali la scienza poteva invece fare qualcosa. La colpa era delle famiglie, si sfogava il professor Mingazzini, o piuttosto della Autorità giudiziaria che con soverchia leggerezza invia ai manicomi malati innocui, senza nemmeno un certificato medico regolare, dal quale si possa giudicare se il malato sia o no pericoloso (Relazione

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della Commissione per la Riforma del regolamento amministrativo ed organico, 1911: 36-37) (Guarnieri, 2007: 486).

In conclusione, tra gli psichiatri crebbe il timore di rimanere intrappolati dentro il manicomio e di essere, loro malgrado, carcerieri non solo dei ricoverati ma anche di loro stessi (Moraglio, 2006:18). Nel 1925, Leonardo Bianchi, autorevole psichiatra e neurologo, precisò come la legge del 1904 non era riuscita a svincolarsi dal vecchio criterio della “pericolosità […] e che il pregiudizio e la storia troppo spesso incatenano il legislatore” (Bianchi, 1925:257).

Tutto ciò influenzò negativamente l’immagine del trattamento psichiatrico in Italia e fornì le basi per il successivo dibattito che settant’anni dopo si concluse con l'emanazione nel 1978 della Legge 180, comunemente nota come "Legge Basaglia" (Bongiorno, 2013:210).

Mentre da una parte, la vita professionale degli psichiatri era animata da dibattiti di natura politica che ebbero il loro apice con la pubblicazione della legge n.36 del 1904, dall’altra, la stessa comunità scientifica, si cimentava con la necessità di un rinnovamento sulle prospettive di cura, trattamento e conoscenza dei disturbi mentali. Pertanto, nei primi anni del Novecento, fu la figura e il pensiero dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin a determinare una sorta di spaccatura generazionale all’interno della psichiatria italiana.

A quel tempo Clodomiro Bonfigli, medico curatore della versione italiana del Compendio di psichiatria per uso dei medici e degli studenti di Emil Kraepelin, dichiarava di non trovarsi del tutto d’accordo con il collega tedesco sull’abolizione totale dei mezzi di contenzione e nemmeno sulla mancanza di fiducia di Kraepelin nei confronti della classificazione dei disturbi mentali su base anatomo-patologica. Bonfigli si fece promotore per armonizzare i due indirizzi scientifici: quello anantomo-patologico, dominante nella psichiatria italiana a quel tempo – e quello clinico, di matrice tedesca. Oltremodo, i resoconti di Jacopo Finzi, giovane medico ferrarese, che aveva viaggiato e vissuto le nuove realtà tedesche, riconoscevano all’osservazione clinica dei malati, ovvero la strada ormai percorsa da Kraepelin, la base salda per la costruzione di una psichiatria scientifica in Italia.

Di fatto l’opera di Kraepelin determinò nei primi anni del Novecento un acceso dibattito ed evidenziò la scarsa propensione alla clinica, all’interno della psichiatria italiana, giustificata da un illustre tradizione anatomica (Babini, 2011: 21-29).

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Precisava Alberto Vedrani, che sul Giornale di psichiatria clinica del 1907, scriveva: i professori di psichiatria, non sapevano bene se essere medici del midollo spinale o della mente umana, occuparsi di malattie della memoria o dell’infiammazione del nervo sciatico, investigare il decorso di fibre morte o lo svolgimento di processi psichici vivi (De Giovanni, 1963: 78).

La psichiatria italiana cercava quindi di difendere ostinatamente il proprio organicismo, piuttosto che seguire la clinica di matrice kraepeliniana.

Nel 1907 si costituì la Società italiana di neurologia, che di fatto sottraeva rappresentatività alla psichiatria, lasciandola in una crisi di identità scientifica e, sempre nello stesso periodo Tamburini pubblicò Il Trattato di psichiatria di Kraepelin, la cui edizione fu da lui stesso curata. Nella prefazione Tamburini insisteva nell’unire l’impostazione clinica dell’autore tedesco e le istanze anatomo-patologiche della scuola italiana ma soprattutto evidenziava come ci fosse un desiderio comune, di individuare per qualsiasi forma morbosa le corrispettive lesioni anatomiche. Seppur in un esiguo numero di medici, prevalentemente coloro che avevano studiato in Germania, si andava formando l’idea che istologia e istopatologia non erano che una parte integrante della psichiatria, dunque era assurdo pensare di sostituire lo studio psicologico della malattia mentale con la conoscenza istologica, questo dichiarava Perusini e aggiungeva inoltre, che ambiti di indagine anche lontani contribuivano, ognuno per la sua parte, alla produzione del sapere, purché condotti con rigore scientifico e chiarezza metodologica (Babini, 2011: 32-39).

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1.3 I folli di guerra

In campo psichiatrico, la Grande guerra (1915-1918) rappresentò una nuova realtà su cui confrontarsi. Sia per la durata sia per la violenza del conflitto, la psichiatria fu obbligata a far fronte ad un’enorme massa di malati mentali provenienti proprio dalle trincee del fronte, massa che necessitava di diagnosi e possibili cure, ancora sconosciute alla medicina di allora (Moraglio, 2006: 19).

La maggior parte del personale sanitario si trasferì in trincea, e nei manicomi rimasero pochi psichiatri e infermieri che dovettero far fronte al notevole aumento dei ricoveri di soldati, in particolar modo avvenuti successivamente alle vicende del 24 ottobre 1917 – battaglia di Caporetto.

Il conflitto mondiale si rivelò un importante opportunità per i medici, e nello specifico, mostrò l’esistenza di una strana malattia, la nevrosi traumatica o da guerra, di fronte alla quale la psichiatria italiana iniziò a vacillare tra il vecchio e il nuovo. Il vecchio, era rappresentato dall’idea che la malattia mentale fosse determinata da una predisposizione ereditaria; il nuovo, indirizzava ad ammettere, seppur con fatica, che la possibilità del disturbo mentale potesse avere un’origine psichica, che poteva venir innescata da condizioni ambientali od addirittura emotive, come suggerivano Janet in Francia e Freud, per il momento, a Vienna (Babini, 2011).

Nonostante l’iniziale fermento teorico del panorama scientifico internazionale, in Italia, la realtà positivista e l’impostazione lombrosiana della medicina militare, ostacolarono le possibili tracce di riflessione e impedirono possibili ripensamenti critici nei confronti delle tradizionali categorie nosologiche della disciplina stessa (Scartabellati, 2005).

Difatti, Arturo Morselli, medico e capitano-consulente della I Armata, riscontrò come causa certa delle manifestazioni morbose dei soldati al fronte, una predisposizione congenita, ereditata oppure acquisita “indicata in questo caso dal carattere, dalle consuetudini ed abitudini del soggetto durante la vita passata (Morselli, 1917:45-52). In pratica, dietro quei disturbi, egli vi lesse la simulazione di individui scarsamente motivati dai grandi ideali della nazione oppure per dirla come il Ferrari di pellandroni (Ferrari, 1917; Scartabellati, 2003:128). Inoltre, l’analisi di Scartabellati evidenzia come:

la terapia perdeva quella carica positiva, illuministica direi quasi, che da sempre ne aveva indirizzato le strategie, per divenire profondamente altro: la condanna, cioè, di quei presunti folli al ricovero coatto in

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depositi immediatamente a ridosso delle prime linee, dove il rumore e soprattutto gli effetti delle artiglierie erano ben chiaramente percepibili ed inevitabili.

Nella realtà dei fatti l’esclusione del disturbo mentale, questa volta, non era più un chiudere fuori, ma un chiudere dentro le spaventose realtà della morte di massa. Il messaggio era dunque univoco: alla guerra non si poteva scappare, se non con una vera pazzia.

Tuttavia è importante ricordare la figura di Gaetano Boschi, che fu richiamato alle armi con il grado di maggiore e per la sua fama di clinico neurologico fu invitato a fondare, a Ferrara, il primo Ospedale Militare Italiano per nevrosi di guerra-Villa del Seminario. Fu in questo Ospedale, che Giorgio De Chirico (1888-1978), nel 1915, fu ricoverato per crisi depressive e riconosciuto inabile alle fatiche di guerra. Successivamente, nella primavera del 1917, fu di nuovo accolto in Ospedale, dove in una di queste stanze, incontrò Carlo Carrà (1881-1966), anch’esso ricoverato (De Chirico, 2015).

Giorgio de Chirico raccontò: con Carrà ci ritrovammo in una specie di ospedale o piuttosto convalescenziario dove in una cameretta io mi misi a lavorare un po’. Lui si mise a rifare le stesse cose che facevo io. E Carlo Carrà parlava di forte insonnia […] cupa malinconia, deperimento organico (Germano, 1998:111-116).

Entrambi furono spinti dal prof. Boschi a dipingere, e lì realizzarono alcune delle loro opere più famose del periodo metafisico come: Le muse inquietanti, Ettore ed Andromaca, La camera incantata. Durante il conflitto bellico, Gaetano Boschi, nel 1915 pubblicò per l'editore Rava, “La nevrosi traumatica in guerra”, dove mise in evidenza come la predisposizione individuale dovesse considerarsi fattore certamente presente ma nel complesso delle cause eziologiche, valutato come secondario, minore, rispetto all’agente patogeno della guerra (Boschi, 1917:156; Scartabellati, 2003:165). Eppure, nonostante questi spunti, l’alienista ferrarese, non effettuò ulteriori approfondimenti ma anzi, in un secondo momento, preferì riporre le proprie precedenti supposizioni adeguandosi ad una analisi del fenomeno in maggior misura conforme alle opinioni dominanti, pubblicando:

l’esperienza clinica di guerra ognor più ci persuade che, di fronte a tutto ciò, sono colpiti dalla pazzia solamente soggetti che vi erano predisposti. Nessuna umiliazione dunque alla psicologia del nostro soldato, ma soltanto reazione patologica di chi era quasi ammalato in potenza (Boschi, 1931:203).

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L’evoluzione del pensiero del Boschi, che inizialmente si era orientato verso una promettente capacità clinica, si concluse omologandosi al pensiero comune; e questa vicenda concentrò in sé, la parabola del pensiero psichiatrico italiano nei confronti della relazione tra guerra/disturbo mentale (Scartabellati, 2003: 165).

La guerra continuava, produceva nuovi malati e richiamava con veemenza l’attenzione degli psichiatri sul ruolo delle emozioni, dove di fatto i soldati provenienti dalla trincea non portavano solo segni di deperimento fisico ma qualcosa di più:

i soggetti per la massima parte ci giungevano dal fronte denutriti, affaticati, sofferenti usciti da forti emozioni e traumi psichici (Antonini, 1917:10; Scartabellati 2003: 72).

E ancora:

sono ammalati confusi, attoniti smarriti, […] inerti, depressi, pallidi, con sguardo spento, con espressione stanca, stordita, preoccupata, triste. Presentano insonnia, cefalea, parestesie visive, acustiche, vertigini, oscuramenti visivi […] Altri sintomi neuropatici somatici sono cardiaci, circolatori, a carico dei riflessi: tachicardia, aritmia, talora bradicardia, ipotensione […] (Pellacani, 1919 :440).

Il merito che ebbe la Grande guerra fu quello di aver portato davanti agli occhi degli psichiatri europei, questa “strana malattia” e di aver preso finalmente in considerazione anche il ruolo di dinamiche psichiche che sembravano sfuggire alle consuete categorie nosografiche.

Ad esempio, in Inghilterra questo evento aprì le porte alla psicoanalisi. In Italia, invece, si delinearono due posizioni: una più aperta all’interpretazione psicogenetica ma in fondo poco propensa ad accoglierla definitivamente; l’altra, orientata ad interpretare i fenomeni all’interno di una prospettiva strettamente biologico-istologica (Babini, 2011: 51-57).

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1.4 La mappa della follia nell’Università di Pisa (1886-1913)

Le vicende nazionali influirono in modo rilevante sulla storia della psichiatria presso l’ateneo pisano. Tuttavia, si può far coincidere l’inizio della storia della psichiatria pisana nell’anno 1886, con l’amministrazione da parte del professor Beniamino Sadun, del “Gabinetto di medicina legale e psichiatria”. Egli, in quanto medico legale, nonché professore ordinario di Igiene, coordinava la psichiatria come un ramo speciale di questa e gestiva “le stanze di osservazione” per malati di mente, alle quali si collocherà in seguito una piccola “pazzeria”, situate nei Regi Spedali Riuniti di Santa Chiara.

Infatti, l’amministrazione di queste stanze era suddivisa fra i Regi Spedali stessi, l’Università di Pisa e l'amministrazione provinciale e il personale risultava quindi essere in parte in parte sanitario, in parte accademico, ed in parte ecclesiastico.

Tuttavia, per il professor Sadun, la freniatria rimase un insegnamento marginale, istituita nel 1886 solo perché tra tutte le università del Regno, Pisa non aveva ancora un corso di Freniatria (Muti et al., 2018).

Dalle testimonianze scritte del professore, è possibile dedurre quanto avesse assunto di mala voglia la responsabilità di questo insegnamento, considerandolo secondario rispetto all’Igiene, la sua vera inclinazione. Infatti, dedicò alla psichiatria un piccolo investimento sia in termini di personale clinico, sia di spazi, e nonostante si trattasse di modeste risorse, per circa un ventennio furono assicurate le prime esperienze freniatriche a Pisa.

Nel 1904 la legge sulle Disposizioni sui manicomi e sugli alienati, obbligò una radicale riprogrammazione delle strutture psichiatriche in tutta Italia e, in occasione del Consiglio di Facoltà del maggio 1904, Sadun colse l’occasione per rivendicare la necessità di attuare al più presto tali modifiche nel Gabinetto di Frenjatria Pisano, lamentandosi esplicitamente di come la psichiatria da tempo sarebbe dovuta rendersi indipendente dalla cattedra di Igiene (De Peri, 1984; Muti et al., 2018; Dell’Osso, Muti in press).

La legge aveva creato nuovi spazi per i degenti e l’impossibilità per Sadun di mantenere le direzioni di questi, fu superata con la nomina di Giovanni Battista Pellizzi (1865-1950), il quale divenne anche lo stesso anno professore ordinario (Sarteschi,1950:892). Egli fu allievo di Augusto Tamburini e medico psichiatra di stampo prettamente neurologico e istologico, rispetto all’approccio più “antropologista” e forense di Sadun.

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