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Capitolo sesto

Nel documento Storie di sindacalisti (pagine 188-200)

I comprimari

Rinaldo Scheda

Rinaldo Scheda se ne è andato in silenzio, con il riserbo e la solitudine che avevano caratterizzato gli ultimi anni (sarebbe più corretto parlare di decenni) della sua vita. Eppure per tanto tempo Scheda era stato uno dei dirigenti più importanti, autorevoli e temuti della Cgil. Bolognese e comunista, poco più che ragazzo aveva preso parte alla Resistenza. Nell’immediato dopoguerra era stato un dirigente della Camera del lavoro della sua città e contemporaneamente aveva ricoperto il ruolo di vice presidente dell’Amministrazione provinciale (nel manuale Cencelli della sinistra sotto le Due Torri il sindaco era del Pci, mentre il presidente della Provincia era attribuito al Psi; i vice avevano un’appartenenza invertita). Più tardi era stato chiamato a Roma a dirigere la potente federazione degli edili. Da lì il salto in Cgil, nella segreteria confederale, dove per tanti anni ricoprì il ruolo di responsabile dell’organizzazione. Si trattava di una posizione-chiave, che consentiva – nell’assetto del centralismo democratico vigente anche in Cgil – di tenere sotto tiro l’apparato e di svolgere una funzione determinante nella formazione dei gruppi dirigenti. Allora i sindacalisti non andavano tutte le sere in televisione e non rilasciavano interviste

ai quotidiani. La comunicazione interna si basava sulla partecipazione dei dirigenti nazionali alle riunioni – anch’esse riservate – degli organismi periferici. Il rapporto con i lavoratori era più diretto, anche se non erano ancora stati riconosciuti quei diritti sindacali introdotti nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori. I viaggi si facevano in treno o in automobile. Rinaldo, poi, soffriva della “paura di volare”. Tanto da cimentarsi in un lunghissimo viaggio in treno – sia all’andata che al ritorno – quando fu chiamato a guidare una delegazione della confederazione in Unione Sovietica. Proprio perché i suoi compiti lo mettevano in contatto permanente con le istanze territoriali e il «quadro attivo», Scheda era molto sensibile agli stati d’animo della base. Se mai, partecipando ad una riunione di un comitato direttivo di una qualche sperduta provincia, gli fosse capitato di fiutare un clima di malcontento tra i lavoratori (allora sempre molto contenuto nel contesto di una struttura organizzata gerarchicamente e rispettosa dei dirigenti), sicuramente quell’impressione – magari appena percepita – lo avrebbe indotto a svolgere un intervento fortemente autocritico alla prima occasione presentatasi a livello nazionale. Fu proprio questa sua caratteristica – pochi conoscono la vicenda – a costargli – benchè favorito – l’investitura per la segreteria generale. Nel 1970, Agostino Novella scelse a succedergli Luciano Lama, l’altro «cavallo di razza» del gruppo dirigente comunista. Rinaldo restò a dirigere l’organizzazione, mentre Lama divenne leader della Cgil proprio nel periodo in cui esplose, dopo l’«autunno caldo», la questione sindacale. Ma la convivenza tra i due – che sicuramente non si amavano – era destinata a durare solo pochi anni. Scheda accettò una candidatura al Consiglio regionale del Lazio, poi sparì di scena. Salvo consumare la piccola vendetta nei confronti del suo avversario in occasione di un Congresso del partito,

denunciando dalla platea che Lama, abusava del tempo concesso per ogni intervento.

Nella Marcellino

Il mio amico Cesare Calvelli (scomparso alcuni anni or sono) era dotato di un senso spiccato dell’umorismo. Sapeva cogliere, con eleganza e garbo, e tutto sommato con affetto e simpatia, quegli aspetti normali e quotidiani delle parole o degli atti delle persone che osservate da un diverso punto di vista destano ilarità. Era nella segreteria nazionale della Filziat (la federazione dei lavoratori alimentaristi della Cgil, poi confluita nella Flai) quando Nella Marcellino era sua collega in segretaria. Mi raccontò che una volta, dopo aver chiamato al telefono il marito, Arturo Colombi (un anziano dirigente comunista che allora, se ben ricordo, presiedeva la Commissione di controllo del partito), continuava a rivolgersi a lui per cognome. Quando Calvelli le chiese spiegazioni, Nella rispose: «Non vorrai mica che lo chiami Arturo». Nella Marcellino morì, a 88 anni, nella notte tra il 22 e il 23 luglio del 2011; Bruno Ugolini – decano dei giornalisti sindacali, il solo di cui Bruno Trentin si fidava, da quando, durante l’autunno caldo, pretese dalla direzione de L’Unità che fosse lui a seguire la vertenza – scrisse un articolo di commiato, ricordando ciò che essa volle dire in un libro autobiografico (a cura di Maria Luisa Righi) dal titolo Le tre vite di Nella. Un titolo che riassume tre aspetti della sua lunga esistenza. Quello di giovanissima partigiana, poi di dirigente del Pci e infine, di dirigente della Cgil. Nata a Torino nel 1923 da genitori operai, il padre, Guglielmo, si adoprò nella lotta antifascista anche per incarico dell’Internazionale comunista (finirà arrestato dai tedeschi a Parigi). La madre, Maria Busso, aveva preso parte

all’occupazione delle fabbriche nel 1920. Nella trascorse parte dell’infanzia e dell’adolescenza in Francia e in Belgio, seguendo gli spostamenti paterni. A 15 anni fu incaricata di compiere la sua prima missione clandestina, intraprendendo un viaggio, per conto del padre, da Bruxelles a Parigi. Negli anni ‘40, a Parigi, partecipò alle iniziative contro la guerra dei primi gruppi di giovani antifascisti, per aiutare i maquis francesi, per fare propaganda contro i tedeschi. Conobbe, in quel periodo, i dirigenti del Pci fuoriusciti come Giorgio Amendola, Luigi Longo, Gian Carlo Pajetta, Giuseppe Di Vittorio, Arturo Colombi (che poi divenne suo marito). Nel 1941 tornò in Italia, a Torino, dove si mise in contatto con gli esponenti della lotta antifascista. A soli venti anni fu tra gli organizzatori degli scioperi del 1942 e del 1943 e, con l’avvio della Resistenza armata, a supportare le azioni dei GAP in città e dei partigiani nella regione.

Scrisse la stessa Nella Marcellino: «Chiamammo la popolazione ad una lotta senza quartiere – come ricordò Ugolini – contro tutti coloro che si macchiavano di collaborazione coi fascisti, coi tedeschi. Sostenemmo i partigiani e cercammo nuove forze per rimpiazzare i caduti falcidiati dai rastrellamenti, dai combattimenti e dalle malattie, rese letali dal freddo intenso e dall’impossibilità di cure adeguate. Furono molte le formazioni che non ressero all’urto e dovettero ridurre i loro effettivi, che tuttavia venivano rimpiazzati da lavoratori già protagonisti di scioperi e manifestazioni e che, essendo più esposti alle rappresaglie, raggiungevano la montagna. Quei mesi furono veramente terribili. Comunque, resistemmo e ci preparammo all’urto finale»: l’insurrezione di Torino nell’aprile del 1945.

Cominciano qui le altre due vite di Nella, dirigente della Commissione femminile del Pci a Bologna, poi la più giovane deputata nel Parlamento del 1948, per due volte responsabile

della Commissione nazionale femminile e poi, nel 1951, a Milano, responsabile della Commissione di organizzazione del Pci. Una vicenda umana intensa che la vide a Yalta, intenta a battere a macchina un documento che diventerà famoso: il “Memoriale” di Palmiro Togliatti, reso noto dopo la sua improvvisa dipartita, nel 1964, durante il soggiorno in URSS. La terza vita la condusse nel cuore dell’attività sindacale: dapprima nel 1961 – lo abbiamo ricordato – come segretaria nazionale della Filziat-Cgil; quindi, nel 1969, come segretaria generale del Sindacato dei tessili (in condomio con il socialista Ettore Masucci). Dal 1986 al 1992 fu presidente dell’INCA l’Istituto di patronato della Cgil e venne designata a rappresentare la Confederazione nel Cnel.

Sergio Garavini

Figlio di Ida Rina Ferraris e del noto industriale torinese Eusebio, Sergio Garavini nacque a Torino nel 1926 e morì a Roma nel 2001. Da ragazzo di buona famiglia frequentò il Liceo Gioberti, per poi accedere alla facoltà di di Ingegneria del Politecnico. Dopo la morte del padre, interruppe gli studi universitari e, nel 1948, decise di lasciare la conduzione dell’azienda di famiglia al fratello Aldo e di abbracciare la carriera politica, iscrivendosi al Partito Comunista Italiano e alla Cgil. Nello stesso anno si sposò con Maria Teresa detta “Sesa”, sorella del dirigente comunista Antonio Tatò. Dalla quale si separò anni dopo. Sesa Tatò fu poi compagna di Vittorio Foa fino alla morte.

In seguito alla sconfitta della Cgil nelle elezioni sindacali alla Fiat del 1955, non ancora trentenne fu nominato segretario provinciale della Fiom. Venne eletto consigliere comunale del capoluogo piemontese nelle liste comuniste. Fu poi chiamato alla

segreteria regionale della Cgil del Piemonte. Dopo quell’incarico che lo aveva messo in evidenza come un dirigente di notevoli qualità, venne eletto segretario generale della Federazione dei tessili e abbigliamento, in un periodo molto difficile caratterizzato da un imponente processo di ristrutturazione, decentramento e delocalizzazione del settore. Entrò poi a far parte della segreteria confederale nel 1975. Ancorchè su posizioni di sinistra, Sergio Garavini fu molto critico (toccò a lui la relazione al Comitato direttivo della Confederazione) con la conduzione e la gestione della vertenza Fiat del 1980 (che si concluse con una grave sconfitta dei sindacati dopo lo shock della manifestazione dei Quarantamila). La sua battaglia principale negli anni Settanta ed Ottanta, politica e sindacale insieme, fu quella di criticare la “Svolta dell’Eur” (famosa fu la sua presa di distanza da una celebre intervista di Lama ad Eugenio Scalfari) e di agire contro la liquidazione della scala mobile. Garavini, a questo proposito, assunse una posizione intransigente (diversa da quella di Lama e Trentin) in linea con quella del Pci di Enrico Berlinguer. Quando Luciano Lama decise che il suo sostituto sarebbe stato Antonio Pizzinato e lo chiamò a far parte della segreteria confederale in vista del passaggio di consegne al Congresso, Garavini non la prese bene e chiese di andare a dirigere la Fiom. In verità i due “cavalli di razza” della Confederazione (Garavini e Trentin si erano esclusi a vicenda, mentre un altro possibile candidato, Giacinto Militello, era divenuto presidente dell’Inps). Quella di Sergio è comunque una storia che merita di essere raccontata. Favorevole ad uno sganciamento del Pci dall’Unione Sovietica, fu l’unico membro del Comitato Federale del Pci di Torino a votare, nel 1956, contro l’appoggio del Pci all’invasione sovietica dell’Ungheria. Dopo l’invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia nel 1968, ad un congresso internazionale (convocato

non a caso in quella capitale) della sua categoria, allora affiliata alla Fsm di stretta osservanza moscovita, Garavini, nel suo intervento, non esitò a condannare quell’aggressione. Rientrato in albergo trovò un anonimo mazzo di fiori ad attenderlo. Vicino al gruppo del Manifesto, ma non volle mai abbandonare il suo partito. Egli divenne per la prima volta deputato nel giugno del 1987, per poi essere confermato cinque anni più tardi. Non aderì alla “svolta della Bolognina” di Achille Occhetto e non partecipò al progetto del Pds. Insieme ad Armando Cossutta, Rino Serri, Nichi Vendola, Lucio Libertini ed altri (tra i quali i suoi compagni torinesi) fondò il 15 dicembre 1991 il Partito della Rifondazione Comunista, di cui fu segretario nazionale fino al 27 giugno 1993, giorno in cui fu costretto alle dimissioni dopo che Armando Cossutta si era alleato con Lucio Magri per eleggere, al suo posto, Fausto Bertinotti. Nel 1995 Garavini, che in quel momento era deputato, votò insieme ad altri 12 deputati dissidenti del PRC, la fiducia al governo Dini, sostenuto dalla coalizione di centro sinistra per il timore di un ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Garavini si contrappose alla volontà massimalista di Cossutta e Bertinotti, che per attirare il mero voto di protesta ruppero l’unità dell’alleanza dei Progressisti, nelle liste della quale erano stati eletti la maggioranza dei parlamentari del PRC, e uscì dal partito per continuare ad impegnarsi senza risparmio, da uomo libero per una causa che non fosse più quella del Prc. Dal 1995 e fino alla morte, Garavini partecipò al dibattito politico come presidente dell’Associazione nazionale “per la sinistra”. Sergio Garavini ha scritto numerose opere di carattere politico, storico e sindacale. La sua ultima opera è intitolata Ripensare l’illusione. Una prospettiva dalla fine del secolo del 1993. In precedenza aveva scritto: Gli anni duri della Fiat (1982) e Le ragioni di un comunista. Scritti e riflessioni sullo scioglimento del PCI e sulla nascita di una nuova forza comunista in Italia (1991).

Con Garavini ho avuto parecchie occasioni di incontri e frequentazioni. Purtroppo, durante la vicenda della scala mobile, l’essersi schierato su posizioni più intransigenti lo aveva trasformato in un avversario dei socialisti. Ricordo però che nel 1985, quanto la partita si era conclusa con la sconfitta del referendum abrogativo promosso dal Pci, che aveva di nuovo divisi i sindacati e la stessa Cgil, Sergio Garavini mi chiese di incontrarlo nel suo studio. Prima di riferire del colloquio è necessario un breve antefatto. Allora – l’ho rammentato più volte in questo scritto, ma lo ripeto per inquadrare meglio l’evento – io ero segretario generale della Cgil emiliano-romagnola (un caso eccezionale che quell’incarico fosse toccato ad un socialista). Ma per tante ragioni, anche personali, erano maturi i tempi per passare ad altro (ero lì da 11 anni di cui 5 come segretario generale e come tale avevo attraversato la bufera del 1984 e 1985). Il posto che spettava storicamente ai socialisti nel manuale Cencelli della Cgil era la segreteria generale della federazione dei chimici, la seconda per importanza dopo la Fiom destinata ai comunisti (il solo socialista che l’ha diretta nel dopo guerra per un breve periodo è stato Fausto Vigevani; poi sono scomparsi anche i comunisti). La soluzione che mi era stata proposta era importante, anche se nasceva da una sconfitta. Ero stato in corsa qualche tempo prima (nel 1983) per entrare in segreteria confederale. Mi aveva tagliato la strada Fausto Vigevani, il quale aveva preteso che la nomina di Ottaviano Del Turco ad “aggiunto”, al posto di Agostino Marianetti fosse “compensata” dall’ingresso in segreteria – come quarto socialista – di un suo fedele, Alfonso Torsello, segretario della Calabria. La pretesa di Vigevani si fondava su di una delle tante sub-costituzioni materiali esistenti in Cgil: i socialisti dovevano essere due autonomisti e due della sinistra lombardiana. Io ero allora lombardiano (confesso i miei peccati giovanili!), ma amico di Del

Turco, perciò non “designabile” da parte di Vigevani. Quando mi presentai a lui, Garavini mi disse pressappoco così: «Io non posso essere il sostituto di Lama; a te non hanno permesso di entrare in segreteria. Andiamo insieme alla Fiom. Ti vogliono mandare ai chimici – continuò – ma lì c’è Cofferati che conosce le fabbriche, gli attivisti e i padroni». E aveva ragione. L’uomo forte della Filcea era proprio un giovane di Cremona, che tutti giuravano sarebbe stata una promessa futura della Cgil. Era Sergio Cofferati, il quale, però, non era neppure il “primo” dei comunisti. Quella posizione era occupata da Neno Coldagelli, anche lui in uscita. Il segretario generale era Ettore Masucci, socialista, in procinto di assumere un incarico a livello europeo. Cofferati mi mandò un segnale di gradimento attraverso il suo amico Gaetano Sateriale che era segretario dei chimici emiliani. Volle che io sapessi che mi avrebbe accolto volentieri come suo segretario. Eppure non ci conoscevamo affatto. Quando ci parlammo per la prima volta il suo ragionamento fu molto semplice: «Con un segretario socialista coraggioso – mi disse – la Filcea ha dei margini di riformismo maggiori di quelli fino ad ora utilizzati». E aggiunse: «Io sono pur sempre un comunista». Come a dire che, purtroppo, aveva dei vincoli di cui tenere conto. Tornando alla proposta di Sergio Garavini devo ammettere che fui parecchio tentato di rimettere piede nella categoria che avevo tanto amato e dalla quale ero uscito a malincuore una decina di anni prima. Da segretario generale dei chimici, tuttavia, mi capitò una piccola polemica con Garavini, allora alla Fiom. Il segretario regionale dei metalmeccanici della Lombardia, aveva fatto una dichiarazione molto critica nei confronti di Luciano Lama (ormai in procinto di lasciare la guida della Confederazione). Il gli risposi con un commento durissimo definendolo «un ragioniere prestato alla politica». Garavini scrisse

una lettera di protesta alla segreteria della Filcea, precisando, tra le altre cose, che il suo dirigente era un perito industriale.

Agostino (Dino) Marianetti

Agostino (Dino) Marianetti non è stato solo un grande leader sindacale socialista; Dino era una forza della natura, dotato di un’intelligenza particolare che gli consentì di acquisire un profilo culturale assai vivace e complesso, pur disponendo di un livello di scolarizzazione più che modesto. E godeva di un grande prestigio. Era un dirigente coraggioso, con tanta voglia di fare, di portare avanti battaglie riformiste, razionali, coerenti. Il suo è stato un cursus honorum iniziato fin dalla giovane età. Era nato a Tripoli il 2 maggio 1940. Operaio figlio di operai (Lorenzo, il padre socialista, lavorava alla Bombrini Parodi Delfino di Colleferro) raccontava Dino stesso: «La mia era una famiglia socialista. Mio padre fu licenziato nel 1950 in seguito all’occupazione della fabbrica e la nostra famiglia venne a trovarsi in una situazione difficile. Con quattro figli era dura andare avanti. Abbiamo sofferto la fame vera e mia madre si mise a vendere la cicoria al mercato». Quando Dino entrò in fabbrica, a sedici anni, divenne «l’unico sostentamento della famiglia». Ma lì incontrò il suo destino: la politica e il sindacato. Venne assunto alla Fiom. «La mia decisione di andare alla Fiom e di trasferirmi a Roma – scrisse – preoccupò non poco i miei genitori, soprattutto la mamma. Ero ancora ragazzo e poi la situazione del sindacato non era certo florida. Ricordo che con Franco D’Onofrio facevamo il giro – a volte in motocicletta a volte con una giardinetta – di tutte le piccole fabbriche romane per riscuotere il pagamento dei bollini del tesseramento in modo da poter prendere un acconto sullo stipendio». Poco più che ventenne era

già entrato a far parte del Consiglio comunale di Roma (dopo un’esperienza amministrativa a Colleferro) dal 1966 al 1969. Nel 1964, il suo nome fu trovato nella lista degli “enucleandi” (quelli che dovevano essere prelevati e messi in condizione di non nuocere) del “Piano Solo” in caso di colpo di Stato. In quei tempi un tale evento era di per sé il riconoscimento di essere un sindacalista importante. Nel 1969 (al Congresso di Livorno) entrò a far parte del comitato direttivo nazionale della Cgil, di cui diventò segretario confederale nel 1971. È in questi anni che si verificò, a mia insaputa, una singolare vicenda che coinvolse il sottoscritto. Nel Congresso del 1969 Piero Boni – ci aveva inutilmente provato già nel 1965 – riuscì ad entrare a far parte della segreteria confederale. Il “primo” dei socialisti divenne naturalmente Elio Pastorino che stava già nella segreteria nazionale della Fiom. Dino Marianetti, allora nella segreteria della Camera del lavoro di Roma si candidò per entrare alla Fiom (da cui come abbiamo visto proveniva). Ma Marianetti non piaceva a Trentin e faceva ombra a Pastorino. Gli fu posta la condizione di dimettersi dal Direttivo della Cgil, ma Dino rifiutò. Si fece strada, allora, l’idea di puntare su di un giovane e venni scelto io, che peraltro ero uscito da alcuni mesi dalla Fiom di Bologna per approdare alla segreteria della Camera del lavoro. In sostanza, a mia insaputa, avevo “fregato” il posto a Marianetti, il quale un paio di anni dopo fu eletto nella segreteria della Cgil. Nel 1977, poi, divenne segretario generale aggiunto della Cgil (e di Luciano Lama) al posto di Piero Boni (il quale non fu proprio felice di andarsene): carica che mantenne fino al 1983, quando fu eletto deputato per il Psi, secondo nel collegio di Roma dietro Craxi (venne poi rieletto alla Camera nel 1987 e nel 1992). A proposito della collaborazione con Lama disse: «Ho avuto un rapporto speciale, una sintonia personale e politica con lui. Luciano dimostrava un’ampia apertura riformista e non avrebbe

disdegnato l’ipotesi di unità socialista». Nel ruolo di numero due della Confederazione si trovò ad affrontare momenti difficili come il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (quando sostenne la linea della trattativa); e momenti importanti come l’apporto che, su suo impulso, la componente socialista volle dare, con il contributo di alcuni intellettuali, al Progetto socialista di Bettino Craxi, allo scopo di rilanciarne l’elaborazione culturale e la

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