Il destino ha voluto che i padri fondatori e primi dirigenti della Cgil costituita con il Patto di Roma, siano stati anche i protagonisti della fine della esperienza unitaria. Nata da una costola della politica (si vedrà di seguito, nei profili dei leader, la loro frequente provenienza dai partiti e il ritorno a tale esperienza a conclusione di quella sindacale), la Confederazione unitaria non resse a lungo la divisione del quadro politico antifascista, quando le maggiori forze politiche, in un mondo che si divideva in due persino nelle famiglie e nei condomini, vennero condannate anch’esse a schierarsi. Il casus belli fu l’attentato al leader del Pci Palmiro Togliatti il 14 luglio del 1948 e la proclamazione dello sciopero generale da parte della Cgil. In verità si trattò di una mossa tesa a recuperare un movimento di protesta ormai scappato di mano. Lo stesso Togliatti, benché ferito al capo, trovò la forza di dire ai suoi «non perdete la testa». I dirigenti democristiani non si presentarono più alle riunioni degli organismi, mentre il Consiglio nazionale delle Acli, il 22 luglio, prendeva atto della «definitiva ed irreparabile rottura dell’unità sindacale». Più di 40 anni dopo, in un pomeriggio del giugno 1989 (l’episodio è raccontato nel libro «Il sindacato nel
dopoguerra» di Aldo Forbice per i tipi di Franco Angeli),
dopoguerra si trovarono – ormai hors de combat – a commentare i motivi della rottura della Cgil del Patto di Roma. Rinaldo Scheda, già numero due di Agostino Novella (poi di Luciano Lama) nella Cgil social-comunista, sostenne che «la ragione vera della scissione è da ricercare nella fragilità del Patto di Roma. Era assurdo pensare che sull’onda dell’unità antifascista, sulla base di un’intesa partitica potesse nascere una duratura unità sindacale […] Il Patto di Roma è stato un atto generoso ma quell’atto non poteva reggere, anche perché è difficile realizzare un’unità organica tra forze diverse e poi contarsi. Oggi io riconosco – concluse Scheda visibilmente commosso – che le motivazioni di coloro che diedero vita alla Cisl erano giuste». Sulla stessa linea, Italo Viglianesi, in pratica il fondatore della Uil: «La verità è che eravamo diversi […] e queste differenze ideologiche, le intolleranze della guerra fredda, la necessità di schierarsi politicamente certamente accelerarono scelte che non erano maturate». Più candidamente Bruno Storti, segretario della Cisl dopo Giulio Pastore, ammise che «la scissione la facemmo perché fummo cacciati dalla Cgil, anche perché eravamo convinti che l’attentato a Togliatti non avesse alcun connotato politico». I protagonisti della rinascita del sindacalismo libero furono sicuramente tre: Giuseppe Di Vittorio per la Cgil, Giulio Pastore per la Cisl, Italo Viglianesi per la Uil. Con loro tanti comprimari, il più importante dei quali fu Fernando Santi, il leader più prestigioso della corrente socialista della Cgil, la quale ha sempre avuto un rilievo particolare. Merita di essere segnalato anche il repubblicano Raffaele Vanni, il più longevo dei «padri fondatori», allora già membro del gruppo dirigente nazionale della Uil (in tale veste firmatario di numerosi accordi) e rimasto in attività a lungo, fin quasi ai nostri giorni. Su quel pezzo di storia è rimasta una domanda: quale sarebbe stata la leadership
sindacale (e di conseguenza come sarebbero andate le cose) se Bruno Buozzi non fosse stato assassinato subito dopo aver preso parte al negoziato per la costituzione della Cgil unitaria? Buozzi era nato a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, nel 1881. Operaio e poi capo reparto alla Marelli e alla Bianchi iniziò ben presto attività sindacale nella Fiom (Federazione italiana operaia metallurgici). Con Ludovico D’Aragona, dopo la Grande Guerra, fu uno dei massimi protagonisti sindacali durante il “biennio rosso” e l’occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920. Da sempre di fede socialista venne eletto al Parlamento nel 1919, 1921 e 1924. Nel 1926 espatriò in Francia dove continuò l´attività politica nella Concentrazione antifascista in cui assunse posizioni riformiste in continuità con la tradizione migliore del socialismo italiano, quella di Turati e di Treves. Nel 1941 fu arrestato dai tedeschi e consegnato al governo fascista italiano che lo condannò al confino da cui fu liberato, dopo la caduta del fascismo, e nominato, dal Governo Badoglio, commissario alle organizzazioni sindacali corporative. Tra i protagonisti del Patto di Roma (sottoscritto tra i rappresentanti del Pci, della Dc e del Psi il 9 giugno 1944) non partecipò all’attività della Cgil unitaria, perché fu giustiziato dai tedeschi in località La Storta sulla Cassia a pochi chilometri dalla Capitale (per onorare la sua morte il Patto venne retrodatato al 3 giugno, il giorno in cui Buozzi era stato assassinato). Nell’immediato dopoguerra, Buozzi era il solo leader sindacale che avesse ricoperto – come segretario della Fiom – un ruolo di rilievo nazionale prima dell’avvento del fascismo. Sul piano elettorale, poi, il Psi godeva – prima della scissione del 1947 – di un maggiore consenso del Pci. Il suo assassinio conferì a Buozzi l’aura e il rispetto dovuto ad un martire antifascista. Ma la pubblicistica di sinistra del dopoguerra (si legga per tutte «L’occupazione delle fabbriche: settembre 1920» Einaudi 1968, di Paolo Spriano, lo storico ufficioso del
Pci) avanzò parecchie critiche alla linea di condotta del Psi e della Confederazione generale del lavoro durante l’occupazione delle fabbriche, come se si trattasse di un importante occasione rivoluzionaria, sprecata dall’agire confusionario dei massimalisti e «tradita» dall’azione rinunciataria dei riformisti, che, d’intesa con Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, chiusero la vicenda con un accordo sindacale (come accadde mezzo secolo dopo con gli accordi di Grenelles che in pratica spensero (per fortuna) la fiamma del “maggio francese”). Nel 1920 (Pietro Nenni coniò una definizione azzeccata di quel periodo: “Il diciannovismo”) furono ritirati i licenziamenti e le punizioni demandando ad una commissione paritetica l’esame dei casi di incompatibilità assoluta tra datori, dirigenti ed operai; vennero concessi aumenti salariali di quattro lire al giorno, dei miglioramenti dei minimi di paga, del caroviveri, delle maggiorazioni per lavoro straordinario, un periodo di ferie di sei giorni annuali, l’indennità di licenziamento. Furono retribuite le giornate in cui gli operai avevano praticato l’ostruzionismo, mentre per le giornate di occupazione si fece rinvio ad una valutazione caso per caso, tenendo conto dell’utilità del lavoro compiuto durante tale periodo. Quanto all’aspetto politico della vicenda (quella del «potere operaio» dal momento che in quella lotta era stata evocata l’esperienza dei soviet) Giolitti, nello stesso giorno dell’accordo, istituì per decreto legge una commissione paritetica con il compito di formulare una proposta. L’accordo fu sottoposto ad un referendum vittorioso tra gli operai, ma rimase la sensazione, in taluni settori, più radicali, della «rivoluzione mancata», un complesso ricorrente – purtroppo – nella storia del movimento operaio. Buozzi e i sindacalisti riformisti della Cgil diedero uno sbocco ed una prospettiva ad una lotta senza speranza e che segnò «la fine senza gloria del massimalismo socialista». Come è stato scritto: «Dopo l’occupazione delle
fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte ma non vedevano chiaramente né come né da chi».
Ma quella stagione aprì le porte alla reazione degli industriali e degli agrari che non perdonarono al premier Giolitti e alla borghesia liberale la gestione accorta e prudente della vertenza e diedero il loro appoggio al fascismo, che «sfrutterà lo stato di stanchezza degli operai e la sete di vendetta della borghesia proprietaria».