• Non ci sono risultati.

CAPITOLO TERZO ESSERE DISABILE

Il presente capitolo analizza il processo di inserimento scolastico individuando nella scuola “speciale” uno dei luoghi fondamentali in cui sia i bambini disabili sia i genitori hanno l’occa-sione di fare una diversa esperienza della disabilità. Da un lato, infattoi, i ragazzi hanno la possi-bilità di godere delle opportunità formative di un sistema di istruzione altrimenti inaccessibile, ma anche di avere occasioni di socializzazione e risocializzazione con i coetanei. Dall’altro lato, i genitori entrano a far parte di un contesto che si fa carico di una parte dell’onere assistenzia -le, che altrimenti graverebbe esclusivamente su di loro; e nel quale i signifigcati associati alla di-sabilità vengono condivisi, messi in discussione e rielaborati.

La prima parte del capitolo è dunque dedicata alla questione dell’inclusione scolastica a partire dai contesti studiati. Infattoi, se è vero che l’Eden Centre e la Mary Chapman School for the Deaf Children sono istituti “speciali” e che la loro offaerta educativa è rivolta unicamente a persone disabili, è anche vero che entrambi gli istituti ambiscono a raggiungere l’ideale dell’inclusione scolastica, e cioè la possibilità per gli studenti disabili di inserirsi, una volta ter-minato il proprio percorso di studi, nel sistema educativo governativo (pubblico), accanto agli studenti non disabili. Là dove questo ideale si realizza, non mancano difficcoltà e ostacoli di in-serimento. Nonostante tali inconvenienti, tuttoavia, la speranza che in un futuro prossimo il si-stema educativo nazionale possa essere organizzato sulla base del principio dell’inclusività per-mane.

Da dove deriva il modello dell’inclusione scolastica? Partendo proprio da questo quesi-to, la seconda parte del capitolo affaronta la questione dell’influuenza di modelli educativi esoge-ni, cioè provenienti da contesti internazionali. Queesti modelli spesso, ma non in tuttoi i casi, de-rivano il proprio linguaggio da quello del “dono”; un linguaggio mutuato da quello di alcune Organizzazioni Non Governative (ONG) straniere. Che cosa distingue dunque queste concezio-ni da quelle locali? Queali rappresentazioconcezio-ni della disabilità sono veicolate dal linguaggio umaconcezio-ni- umani-tario? E in che modo tali rappresentazioni si discostano da quelle locali? Queesti sono gli inter-rogativi a cui cerca di rispondere l’ultima parte del presente capitolo.

1. La scolarizzazione: tra processi di inclusione ed esclusione

Nel sistema scolastico italiano l’inserimento di disabili a scuola si struttoura secondo un modello cosiddettoo integrativo, basato cioè sulla compresenza di alunni con e senza disabilità all’interno delle stesse classi. Tale modello è considerato all’avanguardia anche a livello internazionale, in ragione del fattoo che in gran parte del mondo, e anche in molti paesi europei, l’educazione de-gli alunni disabili in contesti segregati resta la norma (D’Alessio in Medeghini et al. 2013:106). Il modello integrativo in Italia è stato progressivamente attouato grazie ad alcune di queste in-novazioni: il superamento delle cosiddettoe scuole “speciali”; l’inserimento degli alunni con di-sabilità nelle classi ordinarie; il potenziamento del corpo docente con personale specializzato; l’adeguamento dei programmi didattoici in modo da rendere partecipi all’interno delle classi an-che gli alunni con disabilità (Medeghini et al. 2013).

Tuttoavia, se è vero che in Italia il modello dell’educazione integrativa è stato fortemente promosso e implementato a livello legislativo1, non si può dire che l’inserimento dei bambini disabili nei contesti scolastici, figanco a figanco dei compagni di classe “normali”, abbia effaettoiva-mente portato alla loro piena integrazione. La prospettoiva dei Disability Studies on Education (DSE)2, infattoi, ha mostrato come in campo educativo permangano sia un forte stigma sociale nei confronti dei bambini disabili, sia talune preconcezioni legate alle loro diverse capacità di apprendimento (Goodley et al. 2018). In particolare, le ricerche condottoe tra il 2005 e il 2008 da Simona D’Alessio hanno messo in evidenza diverse forme di micro-esclusione degli alunni con disabilità, che permangono nonostante la loro integrazione scolastica. Di più, secondo D’Ales-sio ed altri, il motivo principale di simili criticità sarebbe da ricercare nei presupposti epistemo-logici delle stesse politiche di integrazione (D’Alessio 2013:111).

Nonostante le critiche appena menzionate, quello dell’integrazione è rimasto uno dei principi fondanti del sistema scolastico italiano, e ha inoltre “viaggiato” per i continenti diven-tando un riferimento per l’organizzazione scolastica di altri paesi. Tale modello ha lasciato un’impronta indelebile anche nei contesti, come quello birmano, nei quali non è stato possibile – o non si è voluto – realizzarlo a livello istituzionale. Il suo presupposto principale, infattoi, consiste nell’individuazione della scuola come uno dei luoghi chiave per tentare di ricomporre quella frattoura socio-culturale, politica, ma anche simbolica che si instaura tra le persone consi1 In applicazione dell’art. consi13 della legge consi104 del consi1992 (o leggequadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i di -rittoi delle persone handicappate).

2 I DSE sono una disciplina di studio formatasi alla figne degli anni Novanta negli Stati Uniti e in Europa. Essa uti-lizza l’approccio dei Disability Studies applicandolo nello specifigco alla scuola e all’educazione e privilegiando una comprensione del fenomeno a partire dal modello cosiddettoo sociale della disabilità, contrapposto al modello me-dico-individuale: mentre il primo considera la disabilità essenzialmente come una costruzione sociale, il secondo come un malfunzionamento bio-psico-figsico. I DSE hanno inoltre informato gran parte degli studi sui risultati del-le politiche di integrazione scolastica in Italia.

derate “normali” e quelle invece ritenute “defigcitarie” sottoo il profiglo cognitivo, psichico o figsico. Come ho potuto constatare nel corso della mia ricerca a Yangon, tale presupposto permea oggi gran parte dei discorsi che circondano e giustifigcano l’operare di istituzioni come l’Eden Centre for Disabled Children e la Mary Chapman School for the Deaf Children.

1.1. La scuola in Myanmar: verso l’inclusione

Nel periodo in cui ho svolto ricerca a Yangon, tra il 2017 e il 2018, il governo del Myanmar sta-va ancora lavorando all’implementazione di una legge (e dei relativi regolamenti attouativi)3 che aveva come chiaro intento quello di rendere maggiormente inclusiva la scuola birmana. Da poco aveva aderito al raggiungimento di alcuni obiettoivi prefigssati (Sustainable Development Goals) dall’Agenda 2030, tra cui quello di “assicurare un’educazione inclusiva ed equa e di pro-muovere opportunità di apprendimento di lunga vita per tuttoi” [trad. mia]. Ma diversi passi in questa direzione erano stati fattoi ben prima di quegli anni. Nel giugno 2015, ad esempio, era stata emendata la National Education Law, nella quale compariva una defignizione di “educazio-ne inclusiva” che assicurava a tuttoi i bambini, inclusi quelli con disabilità, l’opportunità di acce-dere all’istruzione di base. La stessa Costituzione birmana (2008)4, tutto’ora in vigore, prevedeva che ogni cittoadino avesse il dirittoo di ricevere un’educazione di base. Nel 2017 era stata poi isti-tuita una commissione ad hoc – la National Committoee on the Rights of Persons with Disabili-ties (CRPD)5 – per rendere effaettoiva l’applicazione di tali regolamenti e per tradurre in pratica i principi contenuti nella Convenzione di Ginevra sui Dirittoi delle Persone con Disabilità (United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities)6. Successivamente, nel mese di agosto 2019, la stessa commissione si era riunita a Naypydaw, alla presenza del Ministry of So-cial Welfare, Relief and Resettolement, con l’obiettoivo di dar vita a un vasto programma di rifor-me. Tuttoavia, in quell’occasione, il progettoo di una scuola inclusiva non era stata ancora preso in esame, e il modello della scuola cosiddettoa “speciale” rimaneva la norma.

Riguardo ai contesti di ricerca presi in esame, sia il Direttoore dell’Eden Centre, sia la Direttorice della Mary Chapman mi fecero notare come i loro istituti scolastici non possedessero risorse fignanziarie e sociali adeguate a sostenere lo sviluppo di un modello integrativo simile a quello italiano o di altri paesi. Entrambi i direttoori scolastici, d’altra parte, conoscevano per-fettoamente tale modello e, in anni recenti, avevano compiuto degli sforzi in questa direzione. 3 La Law on the Rights of Persons with Disabilities (2015), cui hanno fattoo seguito le Rules on the Rights of Per-sons with Disabilities (2017).

4 Articolo 366 della Costituzione.

5 Presieduta dal Vice Presidente del Myanmar, U Henry Van Thaio. 6 Ratifigcata dal governo del Myanmar nel 2011.

Gli studenti della Mary Chapman, ad esempio, una volta terminato il grade 7, avevano due op-zioni: proseguire gli studi in una scuola normale o intraprendere un percorso di vocational training professionalizzante (per diventare cuochi, o estetisti, o meccanici, o massaggiatori shiatsu). La possibilità e la scelta di proseguire (o di interrompere) dipendevano anche dal fattoo che, al tempo della mia ricerca, alla Mary Chapman le classi di insegnamento non proseguiva-no oltre il grade 7. E ciò era a sua volta dovuto alla mancanza di insegnanti formati e capaci di insegnare nel linguaggio dei segni materie più complesse, come la storia o la geografiga.

Ad ogni modo, coloro che sceglievano di proseguire gli studi non avevano altra scelta che richiedere l’inserimento in una scuola normale. Una di queste si trovava nelle immediate vicinanze della Mary Chapman e, a dettoa della Direttorice, era uno dei pochi istituti a Yangon disposto ad accogliere ragazzi sordomuti. Quei, tuttoavia, i genitori mi raccontarono di come i processi di apprendimento e di inserimento dei ragazzi fossero costellati di difficcoltà, col risul-tato che, dopo neanche qualche mese, questi ultimi erano spesso costrettoi ad abbandonare gli studi.

Queanto all’Eden Centre, invece, dal 2013 il Direttoore stava lavorando, assieme ad altre charity birmane e internazionali, a un progettoo-pilota di educazione inclusiva nelle scuole. In seguito, grazie al fignanziamento e alla collaborazione di una ONG tedesca, lo stesso istituto aveva condottoo un’indagine qualitativa sul progettoo, i cui risultati erano stati resi pubblici pro-prio nel periodo in cui stavo conducendo la mia ricerca a Yangon. Intitolata “Thae First Golden Seeds of Inclusive Education”, la conferenza per la presentazione di questi risultati, a cui parte -cipai su invito del Direttoore, si svolse in un albergo del centro, in una sala resa gelida dall’aria condizionata, alla presenza di più di un centinaio di insegnanti a nettoa maggioranza femminile. Il progettoo-pilota, avviato nel 2013, era consistito principalmente nella formazione da parte di un gruppo ristrettoo di insegnanti cosiddettoi “speciali” (o di sostegno) di alcuni insegnanti delle scuole pubbliche e private (comprese alcune scuole monastiche). Si trattoava di un tentativo pio-nieristico, realizzato non senza difficcoltà ed ostacoli, ma che, non di meno, era riuscito ad ottoe-nere ulteriori fignanziamenti negli anni seguenti e a proseguire figno al 2017. Il risultato comples-sivo consisteva nella formazione di circa 100 insegnanti e nel raggiungimento di un totale di 55 scuole sparse per 10 diverse township dell’area urbana di Yangon (ECDC 2017).

Attoraverso l’utilizzo di metodologie qualitative, la ricerca condottoa su questo progettoo sperimentale si prefigggeva l’obiettoivo di indagare tre dimensioni diverse, connesse con i tre diffaerenti punti di vista dei soggettoi coinvolti nello studio: (i) le conoscenze acquisite dagli inse-gnanti rispettoo alle pratiche di insegnamento per bambini disabili; (ii) le rappresentazioni

so-ciali dei genitori rispettoo all’educazione inclusiva; (iii) e infigne il ruolo degli amministratori del-le township nel favorire (od ostacolare) l’impdel-lementazione di innovazioni neldel-le scuodel-le normali che andassero in una direzione sempre più inclusiva; implementazione che, come abbiamo vi-sto, era favorita dalla legislazione vigente, oltre che a livello locale, anche a livello nazionale e sovranazionale.

Rispettoo al punto (i), il rapporto descrive di come il processo di formazione del corpo insegnante si fosse svolto senza particolari ostacoli. Rispettoo ai punti (ii) e (iii), invece, la rea-lizzazione del progettoo si era scontrata con due problemi principali: da un lato con la reticenza o resistenza di molti genitori (soprattouttoo genitori di bambini non disabili) alla possibilità di creare delle classi miste all’interno delle scuole normali. Dall’altro lato con la mancanza di di-rettoive legislative nazionali chiare, carenti rispettoo alle indicazioni per i rappresentanti locali sulle modalità pratiche per rendere le scuole inclusive (ECDC 2017).

In realtà, la maggior criticità messa in luce dai risultati della ricerca emergeva dal con-fronto tra l’ambiente urbano e rurale: fattoa eccezione per Yangon, infattoi, e per alcune regioni (come il Kayin), nella maggior parte del paese non esistevano come non esistono tuttoora scuole inclusive, e inoltre non era previsto un programma di formazione per insegnanti di sostegno. Anche a Yangon esisteva un problema analogo, sebbene in modo meno accentuato, dal mo-mento che tra i già pochi insegnanti formatisi all’estero pochissimi erano in grado di tradurre in pratica i principi teorici dell’educazione inclusiva7.

Un’insegnante dell’Eden Centre che incontrai in treno di ritorno verso casa confermò queste criticità raccontandomi di come, per diventare insegnante di sostegno, si fosse dovuta recare per lunghi periodi di studio all’estero, prima in Cina e poi a Singapore. A suo avviso, in-fattoi, quello era l’unico modo per acquisire competenze pedagogiche adeguate nel campo della disabilità. Poiché però non tuttoi gli studenti potevano permettoersi questo investimento econo-mico (ed affaettoivo), pochi riuscivano ad ottoenere questa qualifigca e, di conseguenza, il numero di insegnanti di sostegno rimaneva molto basso8. Un’altra criticità da lei sollevata riguardava poi la mancanza di un riconoscimento formale di questa professione; professione che, tra le al-tre cose, veniva scarsamente retribuita (il salario medio di un insegnante di sostegno oscillava di norma tra i 50100 euro al mese). D’altro canto, il mancato riconoscimento di questa catego -ria professionale poteva essere lettoo, a mio avviso, come ulteriore conferma di un perdurante 7 Tale scarsità a sua volta era dovuta alla mancanza sia di università sia di centri di formazione specifigci (ECDC 2017).

8 L’insegnante stimava che ci fossero 5 mila insegnanti “speciali” in tuttoo il Myanmar: un numero troppo basso se considerato in rapporto al numero di bambini disabili (circa 4 milioni di disabili su una popolazione complessiva di quasi 60 milioni).

stigma sociale nei confronti della disabilità e, di conseguenza, nei confronti di qualsiasi misura di sostegno nei confronti di persone disabili.

1.2. La partecipazione scolastica dei disabili

Riguardo la partecipazione scolastica degli alunni disabili, un’indagine del 2010 condottoa dal Ministry of Social Welfare, Relief and Resettolement rivelava che solo circa la metà delle perso-ne disabili in Myanmar aveva frequentato qualche istituto. A cosa era dovuta questa scarsa partecipazione scolastica? A mio avviso, essa poteva essere in parte dovuta a due criticità, solo in parte connesse tra loro. Da un lato, infattoi, la scarsa partecipazione poteva essere spiegata con la mancanza, o con la scarsità stessa, di scuole normali attorezzate ad accogliere bambini di-sabili: dal momento che le struttoure scarseggiavano o erano ritenute inadeguate, i genitori era-no poco propensi a mandarvi i figgli. Dall’altro lato, però, la bassa partecipazione scolastica po-teva essere spiegata proprio con questa stessa reticenza da parte di molti genitori a mandare i propri figgli a scuola. Per molti di essi, l’ingresso scolastico rappresentava un momento critico dal punto di vista sociale ed emotivo: signifigcava infattoi ammettoere e dichiarare pubblicamente la condizione di disabilità del proprio figglio. Tale momento si inseriva pertanto in un quel dolo-roso e talvolta controverso processo di accettoazione della disabilità. Pur di evitarlo, quindi, la maggior parte dei genitori preferiva tenere i propri figgli a casa (e nel migliore dei casi provve-dere essa stessa alla loro istruzione) mentre solo una minoranza si arrischiava ad iscriverli a una scuola normale.

D’altro canto, se si analizzano di nuovo le normative vigenti, dal punto di vista legislativo non vi erano espliciti vincoli o restrizioni riguardo l’iscrizione di bambini disabili alla scuola normale. E ne è conferma il fattoo che alcuni genitori, sia della Mary Chapman che dell’Eden Centre, erano riusciti ad iscrivervi i propri figgli, fosse anche per un breve periodo di tempo. Tuttoavia, stando alle stesse testimonianze dei genitori, i ragazzi disabili che frequentavano la scuola normale dovevano fare presto i conti con difficcoltà e problemi. Innanzituttoo, il processo di scolarizzazione, basato su criteri di valutazione e aspettoative di apprendimento uguali per tuttoi, rimarcava, invece di attoenuare, le diffaerenze tra studenti “normali” e “disabili”: mentre i primi erano ritenuti capaci di adeguarsi ai ritmi di studio dettoati dai programmi scolastici, i se-condi erano incapaci di “stare al passo”. A dettoa di alcuni genitori, i ragazzi più lenti venivano lasciati indietro dalle insegnanti, talvolta anche in modo intenzionale. In secondo luogo, sia la mancanza di risorse scolastiche da un lato (insegnanti di sostegno), sia il perdurare di certe concezioni e pratiche discriminatorie dall’altro, rendevano impossibile per gli studenti disabili

inserirsi in modo armonioso nelle classi: quando non apertamente presi in giro dai compagni, essi fignivano comunque per essere marginalizzati. E solo quando la situazione diventava intol-lerabile, solamente allora i genitori si decidevano a trasferirli in un’altra scuola, fignendo per orientarsi verso l’iscrizione a una scuola speciale.

1.3. Inserimento scolastico e risemantizzazione della disabilità

I bambini disabili potevano iniziare il loro percorso educativo con la frequentazione di una scuola normale o speciale. In entrambi i casi, il momento del loro inserimento veniva vissuto dai genitori come un momento critico: entrare a scuola signifigcava infattoi accedere a un nuovo contesto di signifigcati, nel quale il fattoo di essere “diversi” veniva sancito sul piano pubblico. Al momento dell’ingresso a scuola, la disabilità del bambino poteva essere ridefignita in due modi: o come un suo “limite” insuperabile – come in genere avveniva nella scuola normale – o come un attoributo “speciale”, su cui poter intervenire attoraverso l’educazione e le pratiche di riabilita-zione – come sostenuto invece dalla scuola speciale.

Queale che fosse l’accezione positiva o negativa attoribuita alla disabilità, entrare in una scuo-la signifigcava comunque per le famiglie andare incontro a un processo di risemantizzazione della disabilità. Infattoi, all’interno dell’istituito scolastico tale condizione veniva non solo spie-gata dal punto di vista biomedico, ma anche rivestita di nuovi signifigcati. Mentre nella scuola normale tali signifigcati erano per lo più legati a un’idea di “irreversibilità” e “immutabilità”, nella scuola speciale essi evocavano più i concettoi di “fluessibilità” e “adattoamento”. Giusto per fare un esempio: un bambino autistico che presentasse difficcoltà di tipo linguistico, relazionale o comportamentale poteva essere dotato anche di una straordinaria memoria. Nella scuola nor-male si tendeva a ridimensionare una simile capacità extra ordinaria, nel senso di contenerla (o allontanarla quando ciò non era possibile) in quanto ritenuta in eccesso rispettoo allo standard considerato socialmente accettoabile. Viceversa, nella scuola speciale tale diffaerenza veniva non solo accolta, ma anche valorizzata dal momento che si riteneva che, proprio grazie ad essa, lo studente fosse capace di svolgere alcune attoività (o di afficnare competenze) che una persona, o un ragazzo normale, non avrebbe saputo fare.

Dato l’approccio inclusivo della scuola speciale, quest’ultima è da considerare, a tuttoi gli effaettoi, come un luogo di integrazione: a fronte, cioè, di una scuola normale respingente nei confronti degli studenti disabili, nella scuola speciale la disabilità non solo veniva accettoata – con i relativi signifigcati che ad essa attoribuivano i genitori e gli stessi ragazzi disabili – ma an-che enfatizzata (come abbiamo visto spesso con i carattoeri di “eccezionalità”, di

“straordinarie-tà” etc.). Un’altra delle funzioni integrative svolte dalla scuola speciale consisteva nel processo di ri-socializzazione che avveniva al suo interno: qui, infattoi, i ragazzi disabili e le loro famiglie potevano ritrovarsi e dar vita a forme di socialità altrimenti precluse o difficcilmente realizzabili. Tuttoavia, tale funzione risocializzante costituiva, a mio avviso, un’arma a doppio taglio: in-fattoi, se da un lato frequentando una scuola speciale genitori e studenti potevano rielaborare e condividere esperienze dolorose nell’alveo protettoo delle mure scolastiche, dall’altro lato, per lo stesso motivo, queste famiglie fignivano per rimanere inglobate in un luogo non solo segregato, ma anche segregante. Infattoi, ciò che avveniva a scuola – la reintegrazione e la rielaborazione delle diverse esperienze di disabilità – rimaneva esclusivamente nell’ambito di pertinenza della scuola stessa, riducendo le possibilità di integrazione sociale al di fuori di essa. Queesta criticità emerse in particolare dalle interviste con i genitori della Mary Chapman, i quali tendevano a vedere l’istituto come uno dei pochi luoghi, se non l’unico, in grado di farsi carico della disabi

Documenti correlati