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ESSERE GENITORI DI UN FIGLIO DISABILE

Dopo aver posto le basi teoriche e metodologiche per un’analisi antropologica della disabilità nel primo capitolo, e aver presentato i contesti in cui ho condottoo la mia ricerca, ora mi occu-però specifigcamente della relazione tra disabilità e genitorialità. Per fare questo, comincerò con il fornire una panoramica dello stato attouale e della genesi storico-politica del sistema sanitario birmano, con particolare riferimento al contesto urbano di Yangon. Passerò poi a trattoare il rapporto tra le rappresentazioni sociali della disabilità e la dottorina del karma derivata dal bud-dhismo theravāda. A tal proposito, affaermerò la centralità di questo rapporto rispettoo alla com-prensione e alla spiegazione dell’essere disabile nei contesti da me studiati. Infigne, mi occuperò dell’impattoo che la diagnosi clinica della disabilità ha sulle relazioni familiari ristrettoe ed estese, nonché sulle relazioni sociali in genere. La mia tesi al riguardo è che i genitori di figgli disabili si ritrovino costrettoi, loro malgrado, a rimettoere in discussione e ridefignire l’intera rete di relazioni e signifigcati che struttourano la loro vita sociale. Il capitolo presenta una parte delle interviste che ho condottoo con i genitori di alunni disabili iscrittoi alle due scuole speciali Eden Centre for Disabled Children e Mary Chapman School for the Deaf Children di Yangon.

1. Un evento inattoeso

In buona parte degli studi antropologici sulla riproduzione si è cominciato a discutere in modo critico sul regime di controllo che, soprattouttoo in Nord America e più in generale nei paesi oc-cidentali, circonderebbe la gravidanza di una donna, dalle prime settoimane del concepimento figno al parto (e anche successivamente, nel cosiddettoo periodo del puerperio). Si è visto, infattoi, come soprattouttoo il corpo della donna sia via via divenuto sempre più oggettoo di un monitorag-gio esteso e di procedure orientate al controllo del suo stato di salute e di quello del feto. Quee-ste procedure accompagnano tuttoo il periodo di gestazione sottooponendo il corpo della donna a un certo numero di ecografige ed effaettouando una serie di controlli e misurazioni biometriche fignalizzate ad accertarsi che il feto non sia affaettoo da particolari anomalie cromosomiche o

nell’accrescimento1. Nel contesto altamente medicalizzato (e sempre più privatizzato) della sa-nità occidentale, la salute del feto (o embrione, cui spesso ci si comincia a riferire già in termini di “persona”2) è quindi sottooposta a un controllo periodico attoraverso una precisa e prestabilita calendarizzazione di visite ed esami. Ciò permettoerebbe alla donna, da un lato, di esercitare un “potere” – quello di decidere sulla “vita” – e quindi, qualora si manifestassero anomalie di sor-ta, di avvalersi del dirittoo di interruzione di gravidanza3, dall’altro di garantirle, per quanto nei margini del possibile, la possibilità di partorire un figglio “perfettoo”.

In antropologia, e in quella branca della disciplina che si occupa soprattouttoo di processi riproduttoivi, questo regime di medicalizzazione è stato sottooposto a critiche perché non solo ge-nererebbe una mole di prescrizioni biomediche cui una donna dovrebbe attoenersi per dar vita a un bambino “normale”, incolpandola qualora essa non si conformi a tali dettoami; ma anche perché non farebbe nulla per preparare la futura mamma, soprattouttoo sottoo il profiglo psicologi-co, a quella che potrebbe essere la vita con un bambino disabile. A tal proposito, in Reconstruc-ting Motherhood and Disability in the Age of “Perfect” Babies (2009), Landsman osserva come all’interno di un contesto che, grazie agli avanzamenti tecnologici degli strumenti di diagnosti-ca, promettoe di partorire bambini “perfettoi”, l’eventualità di avere un bambino disabile risulti inaccettoabile. Ciò porta a relegare lo stesso bambino in una sorta di “alterità” e a rimuoverlo simbolicamente dal novero delle possibilità reali dell’esperienza della futura mamma.

In uno dei passaggi introduttoivi del libro, Landsman paragona il modo con cui una madre si relaziona al proprio figglio disabile, almeno nella fase iniziale, a quello con cui un antropologo si relaziona con un’alterità esotica e sconosciuta: come se costui fosse totalmente un estraneo. Tuttoavia, precisa poco dopo Landsman, poiché quel bambino è tuttoo fuorché un estraneo e, anzi, dal momento che egli è a tuttoi gli effaettoi un membro della stessa famiglia, dopo un momento di vero e proprio smarrimento, amplifigcato dai sentimenti contrastanti di rabbia, incredulità e disperazione, la madre cercherà di ridare un senso a ciò che nell’immediato ne 1 Oggi è possibile anche sottooporsi al test del DNA del sangue fetale nelle prime settoimane dal concepimento. Queesto test permettoe di sapere sin da subito se il feto sia affaettoo o meno da particolari anomalie cromosomiche. Almeno in Italia tuttoavia, l’esame del DNA fetale non è obbligatorio ma può essere effaettouato a libera discrezione del genitore. Esso non è quindi erogato gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale, ma ha un costo che si attoe-sta tra i 600 e i 1.000 euro.

2 Sull’argomento si rimanda alla lettoura dell’articolo di Claudia Mattoalucci, «Fabbricare l’umano prima della na-scita» in Barberani et al., 2015, Soggettoo, Persona e fabbricazione dell’identità. Casi antropologici e concettoi figlo-sofigci.

3 In Italia questo dirittoo è garantito dalla Legge 22 maggio 1978 n. 194. Essa prevede che il dirittoo di interruzione di gravidanza sia esercitato figno al novantesimo giorno di gravidanza (12 settoimane) mentre in alcuni stati degli Stati Uniti d’America il limite entro il quale è possibile abortire è stato abbassato a 5-6 settoimane. Il limite dei 90 giorni in Italia può anche essere esteso, ma solamente se si verifigcano queste due condizioni: a) quando la gravi-danza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologi-ci, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute figsica o psichica della donna.

risulta privo. Essa cercherà di farlo a partire da un processo di risignifigcazione che investe i concettoi di “personalità” e di “maternità”; concettoi, come vedremo meglio anche nel caso da me indagato, sono dimensioni soggettoive fortemente messe in discussione dalla nascita di un figglio disabile. Queesto passaggio, trattoo dall’articolo di Landsman, riassume quanto fignora descrittoo:

La riproduzione in Nord America è saturata dal discorso della scelta e del controllo. L’esperienza americana contemporanea della procreazione è struttourata dall’ampia disponibilità di test diagno-stici prenatali, dall’aborto selettoivo in caso di disabilità, dalle nuove tecnologie del concepimento, dalla pubblicizzazione degli avanzamenti scientifigci in campo genetico, e dalla larga diffausione dell’educazione sanitaria a proposito di che cosa le donne dovrebbero consumare e di come do-vrebbero comportarsi durante, o addirittoura prima della gravidanza per garantirne un esito “positi-vo”. La maggior parte delle donne incinte negli Stati Uniti è incline a ritenere che sia possibile ave-re quello che è defignito come un bambino perfettoamente “normale”; il bambino potenzialmente di-sabile, così come viene immaginato da una donna incinta alle prese con i controlli prenatali è, come descrittoo da Press, Browner, Tran, Morton, and LeMaster (1998), “l’altro”. Tuttoavia, per la madre di un bambino al quale sia appena stata diagnosticata un’invalidità, questo “Altro” non è ipotetico, né tantomeno è collocato in una terra distante ed esotica descrittoa da viaggiatori avven-turosi o da antropologi esoterici; l’Altro è – talvolta in modo piuttoosto improvviso – un membro della famiglia. E proprio come un antropologo in un nuovo campo di ricerca si sforza di dare senso alla profonda diffaerenza pur nella comune umanità, una tale madre si trova anch’essa coinvolta in un processo interpretativo di costruzione del signifigcato, nel tentativo di trovare, e spesso di

difen-dere, lo status di persona [personhood] di un bambino la cui vita viene svalutata regolarmente, e

che la madre stessa in precedenza potrebbe aver svalutato [trad. mia]. (Landsman 2009:2-3)

Occorre tuttoavia dire che, sottoo molti profigli, le analogie tra il contesto da me indagato e il si-stema riproduttoivo Nord-americano descrittoo da Landsman sono abbastanza limitate. Infattoi, al tempo della mia ricerca in Myanamar la sfera della riproduzione non era affaattoo circondata da un simile regime di controllo, né da un insieme di rigidi saperi prescrittoivi cui attoenersi al figne di partorire un bambino sano. Come è emerso dalle interviste coi genitori, nel sistema sanitario birmano non era previsto nessun tipo di screening prenatale – come ad esempio l’amniocentesi o l’esame della translucenza nucale – in grado di diagnosticare in anticipo particolari anomalie cromosomiche o malformazioni del feto. Tuttoavia, sebbene in Myanmar il corpo della donna non fosse altrettoanto oggettoivato ed esaminato durante la gravidanza, anche qui, come in Nord-America, la questione dell’aborto si configgurava come una questione controversa. La pratica di interruzione volontaria di gravidanza era vietata per legge (punibile con una sentenza di tre anni di carcere o una multa, o con entrambe le opzioni) e inoltre era considerata contraria alle credenze religiose in un paese, a maggioranza buddhista, dove uno dei precettoi fondamentali

invitava a non nuocere o a non uccidere nessun essere vivente (Ba Thaike 1997:94)4. Come in al-tri paesi, anche in Myanmar, dunque, la questione dell’aborto rimandava alla questione di come il concettoo di “persona”, o forse sarebbe più appropriato dire di “essere vivente”, venisse costruito a partire da una momento molto antecedente alla nascita.

Ciò nonostante, la possibilità stessa che nascesse un figglio disabile era pressoché assente anche negli immaginari dei genitori da me intervistati, al punto che nessuno di loro mi disse di aver mai sospettoato una simile evenienza prima del parto. Insomma, la nascita di un figglio disa-bile non rientrava nel campo delle aspettoative e delle paure che possono provare i genitori nelle fasi antecedenti il suo arrivo, e che li porta, là dove sia possibile, ad effaettouare tuttoi i possibili accertamenti preventivi volti ad escluderle. I genitori da me intervistati, inoltre, erano spesso ignari anche delle complicazioni che si sarebbero potute verifigcare durante il parto e delle pos-sibili disfunzioni (intellettoive, figsiche, motorie etc.) che il bambino avrebbe potuto poi sviluppa-re in vita.

Complessivamente, per i miei interlocutori la disabilità sembrava configgurarsi non solo come un evento inattoeso, ma anche, e in molti casi, come una condizione del tuttoo sconosciuta: come un fenomeno completamente nuovo con cui doversi confrontare. In questo aspettoo mi parve di ravvisare una diffaerenza signifigcativa tra il contesto birmano in cui mi stavo introdu-cendo, e il mio orizzonte di provenienza, quello dell’Italia e dell’Europa odierne, dove la disabi-lità ha ottoenuto, seppur lentamente e a fatica, un qual certo dirittoo di residenza. In ogni caso, la presa di coscienza da parte dei genitori avveniva quasi sempre in una fase successiva alla na -scita. A volte a distanza di qualche mese da questa, altre volte anche dopo che fosse trascorso qualche anno. Tale presa di coscienza avveniva da un lato attoraverso una rielaborazione sul piano cognitivo delle nuove informazioni biomediche acquisite: un processo lento e difficcoltoso non solo per la portata emotiva della notizia, ma anche proprio per la mancanza di schemi in-terpretativi pregressi attoi a facilitare la comprensione di nuove informazioni. Dall’altro, attora-verso una radicale, e in ogni caso dolorosa, riorganizzazione del vissuto quotidiano nonché dei legami sociali e famigliari.

La mancanza di conoscenze pregresse sulla disabilità era presente in tuttoe le coorti di età considerate: la maggior parte delle donne intervistate aveva un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, ma sia per le madri più giovani che per quelle più anziane la disabilità era rimasta un fe-nomeno sconosciuto figno al momento della diagnosi.

4 Ba Thaike ha fattoo però anche notare come la pratica dell’aborto illegale sia molto diffausa in Myanmar e come i tassi di ricoveri ospedalieri per complicazioni insorte a causa di tentativi di aborto indottoo siano stati, figno a non molti anni fa, ancora molto alti.

La testimonianza di Ma Thau Thaang, 42 anni (di etnia bamar e religione buddhista), madre di un bambino di 9 anni, restituisce il sentimento di sorpresa dei genitori di fronte all’inattoesa scoperta dell’autismo del proprio figglio e mostra le loro difficcoltà a prendere coscienza del pro-blema in mancanza di riferimenti cognitivi ed esperienziali pregressi:

Prima della nascita di Nan Dar, lei e suo marito avevate già sentito parlare di autismo?

Non avevamo mai sentito parlare di autismo prima e non ci siamo accorti di niente, figno a quando Nan Dar non ha cominciato a comportarsi in modo… a quel tempo aveva circa 7 anni. Andava a scuola ma non imparava niente, a casa non ascoltava… non capiva e spesso si mettoeva a urlare senza motivo, battoeva i pugni o colpiva gli oggettoi. Il primo medico ci disse che era [affaettoo da] au-tismo e che il bambino avrebbe dovuto frequentare una scuola speciale. Ma non abbiamo capito di cosa si trattoasse.

Queando avete capito che si trattoava di autismo? E chi è che vi ha spiegato qual era il problema?

Nan Dar ha continuato la scuola normale fignché le maestre ci hanno dettoo che non era in grado di seguire il programma. Nan Dar rimaneva sempre indietro rispettoo agli altri bambini… alcune volte li picchiava. Ci siamo rivolti a un altro medico e questo ci ha spiegato meglio la situazione e ci ha dato il nome dell’Eden Centre. Nan Dar è arrivato qui [a scuola] che aveva già 8 anni. Finalmente le insegnanti qui ci hanno spiegato bene che cosa aveva e come dovevamo comportarci con lui… Come accaduto a Nan Dar, anche ad altri bambini erano state diagnosticate disabilità in età avanzata col risultato che per loro la frequentazione scolastica in scuole “speciali” era iniziata solo in un momento successivo. Molti genitori di bambini disabili – soprattouttoo di bambini con problemi di sviluppo e/o ritardo mentale – mi dissero infattoi di aver mandato i figgli alla scuola “normale” nei primi anni di età scolare, salvo poi rendersi conto delle loro difficcoltà di appren-dimento e di attoenzione, che di fattoo rendevano impossibile per loro attoenersi ai ritmi dei con-sueti programmi scolastici.

Tuttoavia era accaduto spesso che le stesse diagnosi mediche venissero effaettouate tardiva-mente, e questo per due ragioni fondamentali: da un lato, come abbiamo visto, per la scarsa “ri-cettoività” o consapevolezza dei genitori rispettoo al problema, che ritardava il momento nel qua-le essi si rivolgevano alqua-le struttoure mediche preposte. Dall’altro però perché i medici stessi non erano sufficcientemente preparati sull’argomento o non erano in grado di informare correttoa-mente i famigliari sul tipo di disabilità coinvolta e sui provvedimenti da prendere per affarontar-la. A volte erano gli stessi operatori sanitari a sostenere che le problematiche manifestate da al-cuni bambini si sarebbero risolte da sole nel tempo e che non sarebbe stato quindi necessario intraprendere nessun percorso o accorgimento specifigco. D’altra parte, in tuttoi i casi di diagnosi conclamata non era prevista una presa in carico dei pazienti da parte delle struttoure sanitarie a

cui essi si erano rivolti. Ciò avrebbe infattoi permesso, una volta emessa la diagnosi, di suddivi-dere il carico assistenziale tra le struttoure e la famiglia in modo da cercare di alleggerire quest’ultima e di evitare che essa fosse totalmente abbandonata a se stessa anche per quanto ri-guarda gli aspettoi della cura più strettoamente medico-sanitari.

Nei casi da me analizzati era stato l’istituto scolastico specializzato (come l’Eden Centre e la Mary Chapman) a intervenire in tal senso. L’organizzazione scolastica permettoeva infattoi di sopperire alle necessità dei genitori impossibilitati a fronteggiare da soli le problematiche del proprio figglio, e per aiutarli nella ri-organizzazione del loro vissuto quotidiano. Una volta gua-dagnato l’accesso scolastico5, i genitori venivano fignalmente informati sull’esattoa condizione dei propri figgli da parte del personale della scuola (composto in modo variabile da insegnanti “di sostegno”, figsioterapisti, educatori etc.) e potevano avvalersi della struttoura sia per portare avanti l’attoività lavorativa, sia per cercare forme di supporto alternative, scambiando esperien-ze e trascorrendo il tempo con altri genitori interessati dal medesimo problema.

Nel terzo capitolo, mi concentrerò nel dettoaglio sul ruolo svolto dall’istituzione scolastica nella gestione della problematica della disabilità e sui meccanismi di inclusione ed esclusione che questa stessa istituzione produceva rispettoo alla società più allargata. Queello che mi preme però sottoolineare qui era la funzione informativa, pedagogica e assistenziale svolta dalla scuola nel fare da tramite della relazione tra genitori e figgli; funzione svolta anche con l’intento di ri-semantizzare la disabilità collocandola in una prospettoiva diffaerente rispettoo a quella con cui i genitori tendevano a guardarla e interpretarla. In quest’ottoica, la scuola svolgeva una funzione fondamentale poiché dava la possibilità ai genitori di “normalizzare” una situazione che, altri-menti, sia sul piano cognitivo che sul piano pratico esistenziale, avrebbe prodottoo effaettoi di de-struttourazione e di alienazione. Nel caso particolare della Mary Chapman, la scuola permettoeva inoltre ai genitori di imparare un linguaggio nuovo ristabilendo una modalità di comunicazione genitori-figgli efficcace; comunicazione resa difficcoltosa dal sordomutismo, parziale o totale, di questi ultimi. Ma, in generale, la scuola interveniva nel rapporto genitori-figgli insegnando ai primi come relazionarsi con i secondi, come prendersi cura di loro e quali strategie comunicati-ve, educative e comportamentali adottoare nei momenti di crisi. In buona sostanza, la scuola offariva un intervento educativo-comportamentale a tuttoo tondo, che cercava applicazione non solo all’interno dell’ambiente scolastico ma anche in altri contesti di vita attoraversati da genito-ri e figgli.

Ora, tenuto conto di un contesto carattoerizzato da una sostanziale ignoranza rispettoo alla problematica della disabilità – i cui motivi vanno certamente rintracciati anche nella temperie culturale che il regime militare degli ultimi sessant’anni aveva contribuito a creare –, e per tor-nare alla questione di quali rappresentazioni sociali circondassero la disabilità, le domande che hanno guidato questo lavoro di ricerca si possono riassumere così: come interpretavano il feno-meno della disabilità i genitori? A partire da quali orizzonti di senso essi si approcciavano al fenomeno e lo riconducevano a qualcosa di noto? Come mai figno al momento della diagnosi di disabilità non erano venuti a conoscenza di questa possibilità? E alla luce di questa scoperta, come ri-configguravano il loro essere genitori? Queali erano gli effaettoi di tale scoperta sul piano sociale, economico e famigliare?

Affarontare il fenomeno della disabilità in Myanmar è parso come una via di accesso privile-giata per analizzare da vicino un determinato momento culturale e storico – quello dell’ultimo decennio – in considerazione di una particolare situazione socio-politica e della transizione de-mocratica che sta avvenendo nel paese. Come ho mostrato nel primo capitolo, ciò che si osser-vava chiaramente a Yangon in quel periodo era il passaggio da una condizione di oppressione autoritaria, in cui prevaleva il sentimento della paura, a una situazione di liberalismo economi-co dai economi-contorni economi-confusi: un processo che procedeva in maniera un po’ schizofrenica, di pari passo con il perpetuarsi di sacche di povertà e disparità ancora molto accentuate tra la popola-zione.

Sebbene in modo indirettoo (attoraverso sia lettoeratura esistente sul tema sia le testimonianze dei genitori coinvolti nella ricerca), la lente della disabilità ha permesso di mettoere in luce alcu-ni aspettoi oggettoivi della realtà osservata: è stato quindi possibile procedere all’analisi delle ca-rattoeristiche del sistema sanitario birmano attouale e al modo in cui quest’ultimo si è sviluppato a partire dal suo rapporto storicamente determinato con il dominio coloniale e le forme di neo-colonialismo. Mentre sul piano dell’analisi dei vissuti soggettoivi, tale prospettoiva mi ha dato la possibilità di osservare sia il modo con cui le donne, e più in generale i genitori, vivono l’even -to della gravidanza, sia le diverse modalità con cui le madri si relazionano con il proprio “esse-re madri” al momento della nascita di un figglio disabile (o in seguito alla scoperta della sua

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