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Capitolo terzo – La questione della libertà

1. Libertà e ateismo

Siamo giunti a queste conclusioni sulla base di osservazioni razionali, che però non possono essere dimostrate in modo universalmente valido. Si tratta infatti di esperienze non cogenti, che sono senza dubbio possibili, ma in nessun caso necessarie. Trattandosi di argomentazioni serie, ma non cogenti, lasciano un certo margine di decisione alla libertà dell'individuo, che può quindi liberamente accettarle, ma può anche respingerle. Esse infatti possono essere tranquillamente eluse, anzi, è questo il caso più comune.

Abbiamo visto vari livelli di questa elusione.

In primo luogo è la stessa esperienza del nulla a poter essere elusa, come abbiamo detto a proposito delle diverse strategie che possono essere messe in atto per non pensare alla morte e per non avere davanti agli occhi la nostra condizione di finitezza fattuale.

In secondo luogo noi non siamo neppure necessitati a porci gli interrogativi supremi, come l'interrogativo sul senso della nostra esistenza, anche se abbiamo la possibilità di farlo. La tendenza dominante dell'individuo è piuttosto quella di evitare di porsi tali domande limite, considerandole superflue rispetto alla realtà immediata e ai compiti che questa gli presenta di fronte. Questa tendenza è particolarmente forte in età moderna, in cui si crede che occuparsi di ciò che è immediato sia l'unica cosa che conta, ragion per cui gli interrogativi ultimi non vengono semplicemente posti1.

Neppure il postulato di senso può avere carattere cogente: ciò appare evidente dal fatto che molti uomini rifiutano di credere al senso dell'esistenza o addirittura al senso delle distinzioni etiche fondamentali e di quei rapporti come amore, amicizia, fiducia. L'ambito etico è infatti massimamente il regno della libertà e non può quindi avere il carattere della costrizione2.

È inoltre possibile che tutte queste esperienze vengano vissute in modo superficiale, a tal punto che non ci colpiscono minimamente. In questo modo è impossibile dar luogo ad una vera e propria riflessione che ci porti a riconoscere nel nulla il fondamento di possibilità di una nuova esperienza religiosa. Affinché sia possibile fare queste esperienze è quindi necessario possedere un certo tipo di disponibilità all'apertura, ma esse in ogni caso non costringono affatto.

La fede in Dio è senz'altro possibile e possiamo anche addurre delle ragioni valide per giustificarla; ciò che non possiamo fare, invece, è indurre qualcuno a credere servendoci di argomentazioni cogenti del tipo di quelle di cui ci serviamo ad esempio per la dimostrazione di un teorema di geometria: le proposizioni matematiche, infatti, possono essere fondate in modo necessario e a proposito di esse non può darsi alcun conflitto di opinioni, mentre la decisione di credere o meno è rimessa alla libertà dell'uomo, fa parte di quelle cose che sono senz'altro ragionevoli, ma assolutamente non necessarie3.

Non possiamo ad esempio essere obbligati a dare fiducia ad un'altra persona. La decisione di ritenere una persona degna di fiducia o meno può certamente basarsi su buone ragioni, che però non sono affatto cogenti; si tratta insomma di una questione che spetta alla libertà risolvere, così che questa può liberamente, anche se con una

2 Ivi, tr. it. cit., pp. 136-137. 3 Ivi, tr. it. cit., p. 135.

motivazione, acconsentire a dare fiducia a quella persona, ma può anche liberamente rifiutargliela. Le cose stanno in modo simile anche riguardo alla fede in Dio. Si possono senz'altro addurre motivazioni ragionevoli e giuste per credere in Dio, ma non possiamo essere obbligati a credere: resta infatti pur sempre aperto lo spazio di un possibile rifiuto, che è poi la possibilità dell'ateismo.

Le riflessioni finora addotte non sono tuttavia sufficienti a spiegare qualcosa come il fenomeno mondiale dell'ateismo. Esse mostrano infatti esclusivamente la possibilità negativa, vale a dire la non impossibilità dell'ateismo. Resta tuttavia da chiedersi che cosa fondi positivamente la possibilità dell'ateismo, vale a dire in che modo si arrivi a decidersi per esso. A tal fine è necessario distinguere le varie forme che questo fenomeno può assumere. Se infatti l'uomo per natura crede già solo per poter vivere, è chiaro che devono esserci dei motivi seri perché questa fede implicita non arrivi a svilupparsi in una fede esplicitamente religiosa.

La prima forma di ateismo che Welte individua è l'ateismo negativo (negativer

Atheismus)4. Esso trae origine dal fatto che l'uomo si concentra con tale intensità sulle cose che gli stanno di fronte, che tutto il resto diviene per lui irrilevante. Si tratta di una tendenza che viene particolarmente rafforzata in età moderna dalla scienza e dalla tecnica: esse infatti producono l'illusione, come abbiamo visto, che non esista nient'altro all'infuori di ciò che è scientificamente conoscibile o tecnicamente realizzabile. Sorge così un ateismo che è negativo in quanto non viene in nessun modo affermato che Dio non esiste: il problema di Dio viene piuttosto semplicemente a mancare.

Come esempi di questo ateismo negativo Welte cita il positivismo, il neopositivismo e il razionalismo critico di Hans Albert. Anche l'ateismo tipico del

4 Cfr. B. Welte, Der Atheismus: Rätsel – Schmerz – Ärgernis, in Id., Zur Frage nach Gott, Gesammelte Schriften III/3, cit., pp. 89-92.

marxismo potrebbe far parte di questo ateismo negativo, nella misura in cui prende le mosse da una totalizzazione dei processi storici e sociali, che vengono intesi come l'unica cosa che conta.

L'ateismo negativo, ossia il venir meno del problema di Dio, ha tuttavia una radice positiva: c'è infatti qualcosa che induce l'uomo a volere positivamente che tutto ciò che è sia scientificamente conoscibile e tecnicamente realizzabile, che pertanto ciò che è conoscibile, realizzabile e disponibile sia tutto ciò che è e che tutto il resto non sia nient'altro che nulla. In ciò consiste la positività dell'ateismo negativo, oggi così ampiamente diffuso.

In relazione a questo sorge una seconda forma di ateismo, che Welte chiama ateismo critico (kritischer Atheismus)5. Se infatti, in un'epoca secolarizzata e influenzata dalla positività delle scienze esatte, si continua nondimeno a credere in Dio, c'è la possibilità che Dio venga inteso come una cosa conoscibile tra tutte le altre, come un qualcosa quindi che può essere racchiuso in una definizione e in un concetto, perdendo così il suo carattere di trascendenza e di mistero. Una simile rappresentazione di Dio entra tuttavia in contrasto con le nostre esperienze immanenti: noi crediamo infatti di sapere che cosa sia ad esempio la giustizia divina, ma questo sapere si scontra poi con l'esperienza reale dell'ingiustizia del mondo. Di conseguenza questo Dio, che noi abbiamo inteso come conoscibile, viene lasciato cadere: come può infatti esistere un Dio giusto, se nell'universo incontriamo tanta ingiustizia? Si apre quindi lo spazio per un possibile ateismo critico, proprio perché si presenta come il risultato della critica nei confronti di un Dio che noi possiamo conoscere e racchiudere in un concetto.

L'ateismo critico di cui parliamo qui ha, a ben vedere, un presupposto implicito: chi infatti considera Dio alla stregua di un essente conoscibile con il pensiero, costui 5 Ivi, cit., pp. 92-93.

dispone di Dio per mezzo del suo pensiero. Il pensiero, infatti, comprendendo Dio, si rivela più potente della cosa pensata: il Dio che può essere pensato può quindi anche essere messo in dubbio e persino distrutto dal pensiero stesso. Vediamo pertanto che anche qui è all'opera la medesima tendenza di cui avevamo parlato a proposito dell'ateismo negativo, ovvero la tendenza a voler dominare e conoscere ogni cosa, tendenza che può realizzarsi con l'aiuto della scienza e della tecnica o anche della critica razionale: per questo motivo possiamo parlare di un'affinità tra l'ateismo critico e quello negativo.

Ma l'ateismo può assumere anche una terza forma, in cui esso depone i travestimenti fin qui assunti e si presenta apertamente come volontà di conoscere e dominare ogni cosa, di andare al di là di ogni limite del sapere o del potere. Questa volontà non tollera più alcuna restrizione della propria libertà e autonomia, compresa l'idea di un Dio che minaccia, giudica e pone dei limiti, per cui arriva a fare piazza pulita anche di questa idea, considerata come un peso e un disturbo, nonché come qualcosa di stupido, proprio perché non scientificamente dimostrabile: abbiamo quindi a che fare qui con un ateismo positivo o combattente (positiver und kämpferischer

Atheismus)6, che, invece di trascurare il problema di Dio come faceva l'ateismo negativo, nega attivamente e polemicamente Dio. In questa forma di ateismo appare apertamente la volontà che l'uomo ha di essere onnisciente e onnipotente, in una parola di voler essere Dio: egli arriva quindi a tentare di realizzare questo desiderio infinito con le sue forze finite nell'ambito delle sue possibilità altrettanto finite.

Nietzsche è stato colui che ha dato voce a questa possibilità e ha inoltre evidenziato il nesso tra la morte di Dio e la volontà di potenza. In ciò possiamo individuare anche la vera radice dell'ateismo marxista: essa risiede nella pretesa di 6 Ivi, cit., pp. 94-95.

guidare il cammino storico dell'umanità in direzione di una condizione ideale attraverso l'uso delle sue sole forze. In una simile pretesa non c'è posto per Dio.

È chiaro quindi che l'ateismo positivo è la forma più vera e più sincera di ateismo: in essa esce infatti allo scoperto quella volontà di infinito che nelle altre figure agiva come presupposto implicito.

Le esperienze della nostra epoca ci conducono infine di fronte ad un'ulteriore forma di ateismo, il quale argomenta a partire dall'esperienza del dolore e dell'ingiustizia del mondo. Si tratta di ciò che Welte denomina ateismo sofferente (leidender Atheismus)7. Esso rappresenta una forma più concreta di ciò che in precedenza era stato denominato ateismo critico. L'argomentazione che ne è alla base può infatti essere espressa in questo modo: come può esserci un Dio, se il mondo, che si suppone sia stato da lui creato, è così pieno di dolore e di ingiustizia?

In effetti un ottimismo metafisico come quello formulato da Leibniz non può più sussistere di fronte alle esperienze dei totalitarismi e delle guerre cui abbiamo assistito in epoca contemporanea. Il problema della teodicea, come viene chiamato da Leibniz in poi, resta un problema urgente e attuale.

C'è da dire che, quando l'uomo vive l'esperienza del dolore e della sofferenza, si scaglia non di rado contro Dio, che non governa il mondo in modo migliore, contro quel Dio la cui bontà e giustizia egli crede di comprendere. L'immagine di un Dio buono e giusto è una rappresentazione che l'uomo, in particolar modo l'uomo che soffre, difficilmente potrà evitare di costruire; tuttavia dobbiamo ricordare che si tratta pur sempre di un costrutto puramente umano e che Dio è sempre più grande di qualunque rappresentazione che possiamo avere, in particolar modo della sua giustizia. Proprio della fede è infatti credere che Dio sia inafferrabile e inconcepibile, più grande di 7 Ivi, cit., pp. 96-98.

qualunque idea possiamo farcene. La fede in quel Dio che va al di là di ogni concetto, anche se difficile, resta quindi possibile anche di fronte all'esperienza della sofferenza.

Il problema del senso del dolore e della sofferenza non ammette una risposta razionale: si può solo sperare che vi sia un senso di tutto questo soffrire, anche se non lo possiamo sapere con certezza. In questo senso la fede in Dio ci viene in aiuto: appartiene infatti alla fede la capacità di abbandonare la realtà comprensibile per affidarsi totalmente a qualcosa di incomprensibile.

La fede può rimanere quindi anche di fronte alla sofferenza; ma è umano lamentarsi di fronte a Dio, come hanno fatto Giobbe, Geremia e come ci testimoniano alcuni salmi.

2. La radice positiva dell'ateismo nietzschiano

È dunque evidente che ai nostri giorni l'ateismo è divenuto una sorta di destino epocale. Ce ne rendiamo conto anche confrontando la povertà della nostra epoca in materia di Dio e di religione con la ricchezza delle epoche passate, con i loro templi, le loro immense cattedrali, i loro grandiosi mosaici.

Nietzsche è stato colui che, con il suo originale pensiero riguardante la morte di Dio, ha dato a questa povertà la sua espressione più estrema. Egli sentiva l'avvicinarsi del nichilismo europeo come ciò che avrebbe dovuto seguire a questo evento, avvertiva che, con il venir meno dell'ipotesi Dio, nessun pensare e nessun agire avrebbero più avuto un fondamento, ma sarebbero rimasti come sospesi in un infinito nulla8.

La morte di Dio è tuttavia per Nietzsche anche qualcosa di positivo, il quale può

8 Cfr. F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, tr. it. di F. Masini, La gaia scienza, Adelphi, Milano 2003, pp. 162-163.

essere identificato con il venir meno di una potenza esterna che opprime, minaccia e racchiude entro limiti: egli può quindi parlare del carattere di liberazione che questo avvenimento porta con sé.

Il carattere positivo della morte di Dio dipende dal fatto che c'è qualcosa, nell'uomo, che desidera questa morte, anche se in modo nascosto e inconsapevole. Questa volontà può allora valere come il presupposto nascosto di questo grande avvenimento. Essa si presenta come volontà che contrasta con ogni limite e con ogni divisione e che ad essi si sottrae: altrimenti, se non fosse già attiva in noi una volontà di andare al di là del limite, quest'ultimo non sarebbe affatto avvertito come limitazione. Nella misura dunque in cui Dio viene avvertito come una potenza esterna che limita l'uomo, si comprende come questa volontà desideri la sua morte: essa viene intesa da Nietzsche come volontà di potenza, la quale vuole essere libera e incondizionata anche nei confronti di Dio. In essa possiamo individuare la radice positiva, e non soltanto negativa, dell'ateismo nietzschiano9.

Da ciò trae origine anche la battaglia di Nietzsche contro la morale: la morale infatti, essendo ciò che nell'uomo esercita un potere contro l'uomo stesso, rappresenta la più grande contraddizione rispetto alla pura volontà di esistenza.

Anche coloro che credono in un mondo dietro il mondo (Hinterwelt), suddividendo l'esistenza in al di qua e al di là, rappresentano una contraddizione nei confronti della volontà di un'esistenza indivisa e in accordo con se stessa, poiché guardano sempre in direzione di qualcosa che non è ancora presente: da qui il richiamo di Zarathustra ad essere fedeli alla terra, intesa come il luogo dell'immediato qui ed ora dell'esistenza.

9 Per un'interpretazione della volontà di potenza cfr. B. Welte, Nietzsches Atheismus und das Christentum, in Id., Denken in Begegnung mit den Denkern II: Hegel – Nietzsche – Heidegger, Gesammelte Schriften II/2, cit., pp. 47-83.

È singolare come in Nietzsche il modello di questa pienezza dell'esistenza sia rappresentato dalla figura di un dio, vale a dire Dioniso. L'uomo rivela in questo senso un'essenza divina; la sua volontà si pone in ultima analisi come volontà di essere come Dio. È questo l'ideale che guida ogni volontà umana. Da qui si comprende il senso delle parole che l'ultimo papa rivolge a Zarathustra: “Un qualche dio dentro di te ti convertì al tuo ateismo”10. La tensione divina e incondizionata, che induce l'uomo ad andare al di là di tutti i suoi limiti per guadagnare in questo modo il pieno accordo, la piena unità con se stesso, si trova in contrasto con la possibilità di un Dio esterno all'uomo, rivelandosi quindi non solo collegata all'irreligiosità (Gottlosigkeit), ma addirittura come la sua radice vera e propria. È proprio a causa del Dio che è in lui che l'uomo non vuole che vi sia alcun Dio sopra di lui: “Se vi fossero degli dei, come potrei sopportare di non essere Dio! Dunque non vi sono dei”11.

La lontananza di Dio è quindi divenuta così profonda da far parlare di morte di Dio. L'uomo pertanto continuerà a volere in modo divino e infinito rivolgendosi al più vicino ambito del qui ed ora per tentare di accrescere in modo infinito la propria esistenza. Ma è proprio qui che si rivela la contraddizione della finitezza: da un lato, infatti, egli continua a pretendere un accrescimento infinito della propria potenza, dall'altro lato si rende conto dell'insuperabile limitatezza della sua condizione umana: il limite rappresentato dalla sua finitezza, infatti, si ricostituisce di nuovo ogni volta che crede di averlo superato. La consapevolezza dell'immagine divina dell'esistenza porta quindi con sé anche la consapevolezza dell'impossibilità di realizzare tale immagine.

10 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, tr. it. di M. Montinari, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 2003, p. 304.

3. La libertà e il male

Tutto ciò è il fondamento anche dell'interpretazione che Welte dà del fenomeno del male12. Che il male esiste ci viene confermato infatti dalla nostra esperienza quotidiana. È tuttavia per noi problematico quale sia l'origine del male, poiché, come ci conferma Welte13, questo non può mai sopraggiungere alla volontà a partire dall'esterno, dato che è sempre la volontà ad essere malvagia, ma non può mai trovarsi neppure all'interno della stessa volontà, poiché ciò che questa vuole è sempre un bene, o quanto meno ciò che ad essa appare bene, e mai il male in quanto tale. Per risolvere la questione Welte si affida allora a ciò che dice Tommaso, nelle Quaestiones disputatae, a proposito del fondamento di possibilità del male14. Per Tommaso, infatti, la volontà è tale solo in riferimento ad un qualche bene: essa si presenta come un appetitus o

inclinatio boni15. Il bene, d'altra parte, è tale solo nella misura in cui è voluto da una volontà reale o quantomeno possibile: bonum est convenientia entis ad appetitum, “il bene è la convenienza dell'ente con l'appetito”16. Tommaso nota tuttavia che, a differenza di ogni altra natura, l'orizzonte della volontà umana, e quindi anche del bene, non è finito, ma trascendente, dato che oltrepassa ogni singolo bene finito: “ogni altra natura è ordinata a un qualche bene particolare […] mentre la natura razionale è ordinata al bene puramente e semplicemente (bonum simpliciter)”17. In effetti, come abbiamo già visto, non c'è nessuna delle cose che sono a cui noi non ci rapportiamo

12 Cfr. B. Welte, Thomas von Aquin über das Böse, in Id., Denken in Begegnung mit den Denkern I: Meister Eckhart – Thomas von Aquin – Bonaventura, Gesammelte Schriften II/1, eingeführt und bearb. von M. Enders, Herder, Freiburg i. B. 2007, pp. 246-261.

13 Ivi, cit., p. 246. 14 Ibidem.

15 Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae, tr. it. di R. Coggi, Le questioni disputate, vol. III, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 113.

16 Ivi, tr. it. cit., vol. I, p. 77. 17 Ivi, tr. it. cit., vol. III, p. 347.

nella forma del volere: noi le vogliamo conoscere, dominare, possedere, ma anche lasciare che ci siano indifferenti, oppure vorremmo non averci niente a che fare, come nel caso delle cose che ci spaventano. Queste sono tutte modificazioni del volere. Ma ciò che in fondo la volontà vuole, non è un bene particolare (bonum particulare); essa vuole piuttosto ogni cosa che è e trascende ogni singolo bene in quanto limitato. Essa vuole quindi quel bonum simpliciter, quel bene che è voluto per se stesso e non per altro, che in quanto tale è un uno e un tutto, ciò che tutto abbraccia e tutto supera. Non c'è dubbio che per Tommaso il bonum simpliciter è Dio: “Come Dio, per il fatto che è l'efficiente primo, agisce in ogni agente, così, per il fatto che è il fine ultimo, è desiderato in ogni fine”18. Tommaso distingue quindi la natura razionale, dotata di libero arbitrio, da ogni altra natura19 ed afferma che, mentre ogni altra natura è ordinata ad un qualche bene particolare20, la natura razionale è invece ordinata al bonum simpliciter. E qui Tommaso stabilisce l'alternativa: o la natura razionale è determinata naturaliter et

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