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I DOTTI DELLA REPUBBLICA ITALIANA

1. Il tempo dei dotti

Insegnanti delle scuole elementari, professori dell’istruzione secondaria e superiore, dirigenti delle istituzioni culturali e amministratori della pubblica istruzione erano reclu- tati secondo norme rigide e meritocratiche. Ogni singola figura del mondo culturale del- la Repubblica italiana era inquadrata, disciplinata e legittimata nel suo ruolo. Questo mondo offriva notorietà e onori tuttavia rendeva gli uomini di cultura semplici addetti di una sorta di servizio pubblico da svolgere all’interno di rigidi quadri burocratici, di uni- versità statalizzate, di giornali di regime.

All’uomo di cultura non veniva più riconosciuta alcuna autonomia nel selezionare gli obiettivi e i modi di utilizzo del sapere, era lo Stato - attraverso le sue istituzioni - a di- sciplinare i piani di studio, a selezionare i libri di testo e tutto ciò che doveva essere inse- gnato ai giovani italiani.

Il tempo delle discussioni delle società di pubblica istruzione e dei circoli istituzionali era finito, ora gli uomini di cultura erano chiamati a “costruire” la nuova repubblica se- condo le regole stabilite dall’alto. Ma in che modo? Innanzitutto dovevano lasciarsi alle spalle le figure dei filosofi settecenteschi, progettisti e promotori di riforme, per vestire i panni dei «dotti».

Il termine «dotto» era estraneo al vocabolario politico rivoluzionario e ricevette uffi- cialità grazie alla Costituzione del 1802 con l’introduzione del Collegio elettorale dei dot- ti. L’idea di costituire un tale corpo, come si è visto, risaliva al progetto di Pierre-Louis Roederer, il quale ufficializzava il ruolo istituzionale degli intellettuali e gli conferiva un peso politico pari a quello della proprietà e del commercio. Il tentativo del francese era di riprodurre anche in Italia quel rapporto di «cogestione del potere tra élites militari ed

luzione e ricondurla ai suoi principi originari»367. Al tempo stesso, Roederer non poteva

certo usare il termine «filosofo» per designare, in un documento normativo, gli apparte- nenti ad un gruppo sociale definito in base alle competenze culturali e preferì il più neu- tro «dotti», che doveva corrispondere abbastanza bene a quei savants di cui egli stesso si considerava un esponente368.

I tre Collegi elettorali furono convocati per la prima volta con decreto del Presidente, del 17 aprile 1802, «per procedere alla nomina delle piazze divenute vacanti nel Corpo legislativo». Il Regolamento provvisorio pei Collegi elettorali fu approvato l’11 maggio, qualche giorno prima dell’inizio dei lavori, dal vicepresidente Melzi. Tale documento regolava «con metodo certo ed uniforme» le riunioni dei tre collegi e negava qualsiasi tipo di co- municazione tra i tre organi, che dovevano giungere in modo indipendente a creare uno «spirito pubblico, il quale imprima nel popolo un consenso unanime nel sentimento del- la propria indipendenza». Il programma esplicito di Melzi era quello di ricomporre la frattura fra aristocratici e governo e amalgamare le opinioni comuni che il triennio aveva lasciato «isolate e poco meno discordi». I collegi dovevano quindi far superare lo «stato d’inerzia e d’indifferenza nella moltitudine» del triennio rivoluzionario369. Per giungere a

questo scopo, Melzi suggerì ai tre collegi di limitare il loro lavoro ai compiti stabiliti dalla Costituzione e dal regolamento, tralasciando qualsiasi tipo di discussione. Il Vicepresidente temeva, in particolare per i dotti, il crearsi all’interno del collegio di una situazione simile a quella delle società e dei circoli del triennio, dove i membri erano liberi di esprimere la propria opinione. Tuttavia, fin dalla prima seduta, i dotti non seguirono i suggerimenti di Melzi, dapprima discutendo se manifestare uno speciale atto di omaggio a Napoleone per dimostrare la «gratitudine e riconoscenza del Collegio dei dotti e dell’intiera nazio- ne», e in seguito intraprendendo una vera e propria discussione di carattere politico.

I dotti arrivarono a Bologna il 15 maggio e iniziarono a riunirsi la mattina seguen- te370. Costituito il seggio definitivo, i membri nominarono come presidente il reggiano

Giacomo Lamberti371, fratello del letterato Luigi e professore di diritto canonico. Negli

anni della Cisalpina era stato membro del direttorio esecutivo e svolse un ruolo diploma- tico e di raccordo tra il democratizzato ambiente dei club cittadini e gli esponenti del go- verno di estrazione nobiliare come Giovanni Paradisi e Filippo Re. La figura non dovet- te perciò essere troppo gradita al Melzi poiché rappresentante di quel gruppo di dotti che avevano partecipato attivamente alla vita politica del triennio.

367 L. Mannori, I ruoli dell’intellettuale nell’Italia napoleonica, in Istituzioni e cultura in età napoleonica cit., pp. 159-183.

368 Il termine «dotto» era quindi la traduzione del francese savant. Troviamo conferma di ciò nelle lette- re di Melzi d’Eril il quale, abituato ad utilizzare il termine francese, dal 1802, nelle sue minute, iniziò a cancellarlo per inserire il termine «dotti».

369 Carteggi di Fancesco Melzi. La Vicepresidenza cit., vol. II, pp. 13-14.

370 Per la prima sessione del Collegio elettorale dei dotti si veda l’edizione dei processi verbali in T. Casini, La prima sessione del Collegio dei dotti in Bologna nel 1802, anno IX-X (1914-1925), pp. 281-296; 361- 379; 28-46.

371 Giacomo Lamberti (Reggio 1762-1837) venne in seguito nominato prefetto del Crostolo (1805) e senatore del Regno d’Italia (1809), presidente del governo provvisorio di Reggio. Su Lamberti si veda, ad

Nella prima seduta del Collegio nacque subito una discussione attorno all’art. 14 della Costituzione che enunciava:

art. 14 - Ad ogni sessione ordinaria de’ collegi il governo presenta a ciascuno di essi la lista de’ posti vacanti, e le notizie relative alle nomine da farsi. I collegi possono ricevere direttamente i ricorsi di chi allega qualche titolo per aver luogo in alcuno di essi.

Tutto ebbe inizio con un dubbio, espresso da Giacomo Lamberti, a proposito dei ricorsi e delle petizioni degli aspiranti, ovvero se le petizioni erano riferite a qualunque carica del corpo elettorale o si limitavano a quelle dei soli cittadini aventi diritto ad entra- re nel Collegio dei dotti. La discussione si sviluppò nel corso dei primi due giorni della sessione. Luigi Valeriani372 propose di lasciare «libero adito non solo ai ricorsi dei citta-

dini per essere ammessi al Collegio, ma anche alle private petizioni per la nomina a qua- lunque altra carica costituzionale», essendo questa «la retta intelligenza dell’art. 14 della Costituzione». Valeriani esprimeva un punto di vista democratico, poiché sosteneva che insieme alle liste dei posti vacanti e alle possibili candidature presentate dal governo si dovevano aggiungere i ricorsi che arrivavano direttamente dai cittadini, poiché «ora poi, che nella Costituzione non esistono più le liste degli eleggibili, qual è mai il compenso de’ cittadini se non quello almeno di permettere i loro ricorsi?»373. Valeriani sollecitava il

collegio a istituire una commissione interna - prevista dall’art. X del regolamento - incarica- ta di ricevere ed esaminare i ricorsi dei privati. Dal suo punto di vista era un modo per far vedere al popolo che le loro nomine «non sono guidate dal favaro, né dall’arbitrio, ma dalla retta ed esatta cognizione», perciò concluse proponendo che «a termini del det- to regolamento venga sospesa la seduta e che la Commissione riceva tutte le petizioni degli aspiranti a qualunque carica costituzionale»374.

La visione di un potere democratico e rappresentativo di Valeriani venne appoggiata solo dall’avvocato Pellegrino Nobili375. Furono diversi invece i dotti che espressero posi-

zioni contrarie rispetto a Valeriani, ricordando che la Costituzione era la legge fonda- mentale di uno Stato e perciò si doveva ritenere vietata qualsiasi interpretazione, atte- nendosi unicamente al «senso letterale di essa finché il popolo autore della legge non muti volontà». Luigi Rossi, in particolare appoggiando quest’ultima posizione, aggiunge-

372 Luigi Valeriani (Imola 1758 - 1828). Deputato al corpo legislativo cisalpino nel 1798, fu nominato professore di economia politica nel 1801 nell’università di Bologna, della quale fu uno dei deputati alla Consulta di Lione; fu membro del collegio dei dotti dal 1802 al 1807 e considerato il maggior economista del suo tempo; resse la cattedra sino alla sua morte nel 1828. Cfr. F. Gasnault, La cattedra, l’altare, la nazione.

Carriere universitarie nell’ateneo di Bologna, 1803-1859, Bologna, Cleub, 2001, pp. 235-236.

373 Cfr. T. Casini, La prima sessione cit. 374 Ivi.

375 Pellegrino Nobili (Vetto d’Enza 1754 - Pisa 1841) entrò nella magistratura estense nel 1778, salen- do al grado di uditore generale, deputato al 2° congresso cispadano, commissario organizzatore di alcuni dipartimenti della Cisalpina, rifiutò l’ufficio di supplente di cassazione accettando quello di giudice del tribunale di Reggio; ministro dell’interno dal febbraio all’aprile del ’99, fu deputato al corpo legislativo della Repubblica Italiana e segretario di Stato nel 1802, ufficio che lasciò per malattia: esercitò quindi in patria la professione e scrisse un’opera classica sui Vitalizi. Membro del governo provvisorio del 1831, fu condannato a cinque anni di carcere, che evitò riparando a Pisa. Cfr. T. Casini, La prima seduta cit.

va che in caso di dubbio era indispensabile comunicarlo al consigliere legislativo Anto- nio Aldini, delegato del governo presso il Collegio, per avere una risposta direttamente dal vicepresidente. Quest’ultima era la posizione pretesa dal governo: l’adesione comple- ta, senza interpretazioni, alla legge.

Vinse il partito di Rossi e il collegio avviò l’attività per cui era stato chiamato, ovvero la nomina del Consultore di Stato che doveva prendere il posto del defunto Serbelloni. Fu nominato a maggioranza di voti il bergamasco Marco Alessandri, già membro del direttorio della prima cisalpina376, e si passò alla votazione dei sei membri del Collegio

dei dotti che dovevano andare a formare la Censura. Furono scelti Giacomo Lamberti, Carlo Bassi presidente del tribunale civile di Milano, l’avvocato Francesco Peregalli, Lui- gi Valeriani, il magistrato mantovano Luigi Toni e Girolamo Saldini canonico e profes- sore di calcolo sublime nell’università di Bologna. Infine il Collegio decise di inviare una lettera al Primo Console per dimostrare il proprio ossequio, che fu redatta da Luigi Vale- riani, il letterato Luigi Lamberti e l’avvocato Sigismondo Ruga377.

Il 26 maggio 1802 Melzi scriveva a Marescalchi informandolo delle nomine dei Col- legi e ritenendosi soddisfatto di esse. Tuttavia si rammaricava della nomina del collegio dei dotti378 e della discussione sull’art. 14, e scriveva: «vi fu colà, come dovea esservi fra

i Dotti che sono cialtroni, la voglia di far mozioni». Con Napoleone, Melzi fu ancora più chiaro: «Je dois cependant vous faire connaître un incident qui mérite votre attention. Dans le Collège des Savants à Bologne on a un peu trop oublié que l’esprit de cette insti- tution défend la discussion dans les assembées. Quelques motions on eu lieu plus ou moins relatives aux opérations que la nouveauté de la chose rendait incertaines; jusque là on pourrait les excuser pour la première fois» e cercava di persuadere Napoleone della necessità «de radresser d’abord la marche de l’institution» mediante un nuovo regola- mento, che vietasse più esplicitamente qualsiasi discussione in seno ai Collegi elettora- li379. L’uomo di cultura, il dotto, doveva svolgere la sua funzione solo seguendo le regole

previste e senza alcun margine d’autonomia.

2. La città dei dotti

«La Costituzione ha saviamente concentrata la Rappresentanza Nazionale nelle tre classi, e ai dotti segnatamente ha reso il più grande encomio col fissarne la residenza in

376 Una minoranza di dotti votò Guicciardi, che alla fine per i voti raccolti negli altri due collegi ne uscì vincitore, e Luigi Villa giureconsulto lombardo e allora ministro dell’interno.

377 Non si tennero altre sessioni del Collegio dei dotti fino al 1805 per riconoscere e consacrare col voto e con la presenza la trasformazione della Repubblica italiana in Regno. In seguito si ebbero due altre sessioni, una aperta il 10 dicembre 1807 a Milano, per procedere al completamento del corpo elettorale, e l’altra a Bologna il 1° settembre 1808 per nominare i 133 membri assegnati ai tre dipartimenti delle Mar- che di recente annessione e per formare la lista dei candidati dipartimentali per il senato ambulante.

378 Carteggi di Francesco Melzi. La Vicepresidenza cit., vol. 1, pp. 355. Lettera di Melzi a Marescalchi (Mila- no, 26 maggio 1802).

questa comune, che fu la sede della dottrina e che ora risorge alla primiera di lei gran- dezza»380. Antonio Aldini così si espresse presentandosi alla prima sessione del Collegio

dei dotti a Bologna, città della dottrina poiché la sede della storica università, che pro- prio per l’insegnamento degli studi giuridici aveva richiamato nel corso dei secoli nume- rosi studenti anche stranieri. La sede era stata scelta, secondo Carlo Zaghi, non tanto come «un segno di distinzione [...] quanto un espediente per rendere i Collegi meno forti nei confronti dell’esecutivo e togliere loro quel carattere di compatta rappresentanza po- litica, che poteva dare ombra a Napoleone»381. Tuttavia, già nella primavera del 1797, a

Bologna era stato assegnato dai democratici il ruolo di «centrale» tra le diverse città della Repubblica appena sorta. La città doveva assumere, secondo la visione dei cispadani, il ruolo di capitale politica e culturale del nuovo stato. Con la creazione della cisalpina e il trasferimento del governo a Milano, i democratici e parte dei moderati decisero di man- tenere il centro culturale dello stato a Bologna, sede dell’antico ateneo e del nuovo Isti- tuto nazionale382. L’importanza del ruolo giocato da Bologna si delineò fin dall’inizio.

Il governo cispadano scelse il Palazzo D’Accursio come sede del governo. La vastità del palazzo dell’antico Studio e soprattutto la presenza di grandi aule magne al suo in- terno era stata apprezzata come requisito primario per le sedi del Consiglio maggiore e del Consiglio minore. Fin dal triennio giacobino l’attenzione fu rivolta alle sedi dell’Uni- versità e dell’Istituto delle scienze, quest’ultimo situato nel Palazzo Poggi. Il prestigio dell’Istituzione, i laboratori aggiornati ai tempi, la frequentazione continua da parte degli studiosi, giocarono non solo a favore del mantenimento della destinazione d’uso ormai consolidata, ma del suo stesso potenziamento383.

Con il generale riordino della pubblica istruzione durante la Repubblica italiana e con la conseguente ripartizione delle scuole nel territorio della municipalità bolognese, venne redatto un piano dettagliato per la nuova distribuzione dei locali dell’Università naziona- le e dell’Accademia di belle arti. L’elaborazione del piano fu affidata ad una commissio- ne composta tra gli altri dall’astronomo Barnaba Oriani e dal segretario dell’Accademia di belle arti di Brera Giuseppe Bossi. La sua elaborazione richiese poco più di due mesi di indagini e valutazioni politico-logistiche per consentire alla commissione governativa sullo stato degli edifici destinati agli studi di disporre di un quadro adeguato delle conse- guenze che il nuovo ordinamento scolastico avrebbe prodotto nel tessuto cittadino. Il

380 T. Casini, La prima sessione cit., anno IX, n. 5 (1914), p. 292. 381 C. Zagni, L’Italia di Napoleone, Torino, Utet, 1989, p. 5.

382 In merito a tali discussioni si veda il recente saggio: F. Sofia, Olonisti e cispadani nei dibattiti del consiglio

legislativo, in La formazione del primo Stato italiano cit., pp. 587-608.

383 F. Ceccarelli, Scholarum exaedificatio. La costruzione del palazzo dell’Archiginnasio e la piazza dello Studio a

Bologna, in L’Università e la città. Il ruolo di Padova e degli altri Atenei italiani nello sviluppo urbano, Atti del Conve-

gno del Centro interuniversitario per la Storia delle Università italiane (Padova, 4-6 dicembre 2003), Bolo- gna, Cleub, 2006, pp. 47-65; Id., Architetture di Stato per Bologna. «centrale» della Repubblica cispadana (marzo-

maggio 1797): progetti e realizzazioni, in I «giacobini» nelle legazioni. Gli anni napoleonici a Bologna e Ravenna, a cura

di A. Varni, Bologna, Costa, 1999; A. Emiliani, La polis culturale bolognese, in La città del sapere. I laboratori

storici e i musei dell’Università di Bologna, Milano, Silvana Editoriale, 1987, pp. 22-52. Sul palazzo del marsilia-

no Istituto delle scienze si veda: I materiali dell’Istituto delle scienze, Bologna, Cleub, 1979; A. Ottani Cavina (a cura di), Palazzo Poggi da dimora aristocratica a sede dell’Università di Bologna; Bologna, Nuova Alfa, 1988; M. Cavazza, Settecento inquieto cit.

piano fu consegnato al ministro dell’interno il 1° dicembre 1802 e prevedeva la concen- trazione e l’ampliamento delle strutture didattiche e universitarie in un’unica area384. La

struttura dell’Archiginnasio venne riconosciuta come obsoleta e inadatta a contenere laboratori scientifici, ad eccezione del laboratorio anatomico. Le aule sarebbero state poco illuminate anche a causa della mole incombente dell’adiacente edificio di san Pe- tronio.

Palazzo Poggi, secondo Oriani, era «una seconda università, più moderna» e soprat- tutto meglio attrezzata e ampliabile poiché in prossimità con altri edifici di grandi di- mensioni: il noviziato gesuitico di Sant’Ignazio, il collegio Ferrero con i padiglioni del giardino della Viola e alcuni altri edifici tra cui la quattrocentesca domus magna dei Mal- vezzi. Questi erano gli edifici individuati dall’astronomo come i possibili capisaldi di un sistema universitario moderno, accanto ai quali innestare anche attività economiche co- me librerie e cartolerie. Il progetto finale venne corredato dai disegni di Giovan Battista Martinetti e posto al vaglio di una commissione di artisti cittadini385, la quale, però, ela-

borò un proprio piano che venne messo a confronto punto per punto con quello della commissione governativa.

Giovanni Aldini, celebre fisico sperimentale, membro dell’Istituto e fratello del po- tente Antonio, scrisse proprio in quei mesi le sue Riflessioni sulle fabbriche spettanti all’Uni-

versità di Bologna386. Egli, in polemica contro il piano redatto dai milanesi, espresse il timo-

re di perdere il radicamento dell’Università nazionale nell’area centrale della città per ef- fetto della vendita dell’Archiginnasio e sviluppò un efficace comparazione con gli stabi- limenti scientifici delle principali città europee, in particolare Parigi e Londra. Aldini elencò i vantaggi che si sarebbero ottenuti per la «scientifica educazione» concentrando i laboratori in un’area circoscritta, leggermente decentrata e fornita di grandi giardini ac- cademici, tuttavia non mancò di sottolineare l’importanza di mantenere una sede centra- le e interna, la quale non poteva che essere rappresentata dal palazzo dell’Archiginnasio. Proprio partendo dal suo restauro, inteso come l’occasione di un adeguato rilancio fun- zionale, Bologna doveva tornare ad essere meta dei dotti di tutta Europa, che nell’intera città doveva trovare diffuse espressioni della vita universitaria.

La capitale politica Milano era vista dai dotti del tempo come un luogo inadeguato alla cultura e agli studi. «Milano è buono per le belle femmine; è un arrugginitojo per un poeta tuo pari»387 così ammoniva Alberto Fortis - futuro segretario dell’Istituto naziona-

384 Sul piano Oriani e Bossi si veda F. Ceccarelli, L’Università nel quartiere della Specola. La realizzazione del

piano per i “locali studio” del 1803, in La città degli studi nella crescita urbana, a cura di A. Albertazzi, P.L. Cervel-

lati, Atti del Convegno (Bologna 15-17 dicembre 1988), Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1990, pp. 14-35; M.L. Giumanini, Il piano Oriani e Bossi per i locali dell’Università degli Studi e l’Accademia di belle arti di

Bologna, «Accademia clementina. Atti e memorie», 37 (1997), pp. 99-120. F. Ceccarelli, Architettura universita- ria e città degli studi a Bologna negli anni del Regno d’Italia, in Istituzioni e cultura in età napoleonica cit., pp. 552-566.

385 La commissione era composta da Pelagio Pelagi, Giovan Battista Martinetti, Francesco Rosaspina, Giacomo Rossi e Giacomo De Maria. Cfr. F. Ceccarelli, L’Università nel quartiere della specola cit., p. 17.

386 G. Aldini, Riflessione sulle fabbriche spettanti all’Università nazionale di Bologna e prove della necessità di conser-

vare l’antico Archiginnasio per uso della medesima, s.d. [1804].

387 Lettera di Fortis a Monti (15 dicembre 1801), in Epistolario di Vincenzo Monti, raccolto e ordinato da A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, vol. II, pp. 247-248.

le - l’amico Vincenzo Monti che gli aveva proposto di trasferirsi a Milano. Fortis avverti- va l’amico che il suo genio «si ripentirà ben presto dell’influenza combinata delle nebbie, delle tavole, della scioperatezza proprie del paese ove stai per fissarti». Tuttavia, Fortis notava, rammaricandosi, che la tendenza degli intellettuali era quella di abbandonare Bo- logna poiché chiamati dalla politica prima a Lione e poi a Milano e tale fenomeno, af- fermava, era una «vera sciagura per questa Università-cadavere»388.

L’opera del governo era comunque rivolta a rendere la città di Bologna il centro cul- turale del paese e l’impegno nei lavori architettonici ne era un esempio. Dopo due anni

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