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Le caratteristiche delle intuizion

Nel breve ritratto autobiografico scritto per la pubblicazione del volume a lui

dedicato nella collana dei Living Philosophers e curato da Paul Arthur Schilpp63, Moore

afferma con estremo candore di avere deciso di dedicarsi alla filosofia piuttosto che alla filologia classica non perché fosse interessato a risolvere problemi suscitatigli dal mondo delle scienze, quanto invece perché si sentiva sollecitato a criticare le

affermazioni che, su quel mondo, venivano fatte dai filosofi64. Nella Introduzione ai

Principia, Moore si mostra coerente con questa sua affermazione, inaugurando la sua

opera più nota all’insegna di un esplicito intento critico e dichiarando che lo scopo che egli si prefigge è quello di sgombrare il campo da un errore fondamentale che avrebbe segnato, fino a tutto il secolo XIX, l’intera storia dell’etica, disseminandola di difficoltà, confusioni e disaccordi. Esso sarebbe consistito nel non aver posto alla base della riflessione etica le domande corrette cui cercare risposta; in questo modo, esso sarebbe stato sia un errore di metodo, che un errore teorico. Sbagliando nel chiarire quali fossero le domande da cui far partire la riflessione sulla morale, i filosofi si sarebbero impegnati, quindi, in un lavoro di ricerca viziato sin dall’origine e destinato, per questo motivo, a creare fraintendimenti invece che trovare soluzioni. Moore intende, invece, impostare la sua ricerca in maniera corretta, cominciando dal porre quelle domande

63 G.E. MOORE, An Autobiography, in P.A. SCHILPP, The Philosophy of G.E. Moore, Evanston

and Chicago, 1942, p. 14.

64 In questo modo Moore mostra che, almeno all’epoca dei suoi studi universitari, egli non

possedeva una delle caratteristiche che secondo Hume sono proprie del vero filosofo: la capacità di provare uno spontaneo senso di meraviglia di fronte ai fatti del mondo, là dove questo non capita mai agli uomini comuni. Si può dire che Warnock ravvisa in questo caratteristico approccio del giovane Moore alla ricerca filosofia uno dei tratti distintivi di tutto l’intuizionismo etico. Egli afferma, infatti, che gli intuizionisti mostrano, in generale, una certa «assenza di curiosità» nei confronti dei fatti del mondo e ostentano la sicurezza di che pensa di confrontarsi con l’ovvio. Non è un caso, quindi, che essi diano l’impressione di sentirsi abbastanza tranquilli circa la natura della proprietà non naturale della bontà, mentre questa solleva molti più problemi di quanto essi non vogliano concedere. Sarebbe necessario, conclude Warnock, spingersi ben oltre di quanto l’intuizionismo accetti di fare nell’indagine dei fondamenti dell’etica. Cfr. G. J. WARNOCK, Contemporary Moral Philosophy, London, MacMillan, pp. 16-17.

fondamentali attraverso le quali tutta la riflessione etica può svilupparsi correttamente. Queste domande sono due: la prima si presenta nella forma «che tipo di cose deve esistere per se stesso?»; la seconda ha la forma «che tipo di azioni dobbiamo

compiere65?». Moore chiarisce che le cose che devono esistere di per se stesse, quelle

per le quali si formula la prima fra le domande fondamentali dell’etica, sono anche definibili come le sole che possiedano un valore intrinseco o che siano buone in sé. Questo permette di dire che la prima domanda che egli individua potrebbe anche essere espressa nelle forme «che tipo di cose possiede un valore intrinseco?» o «quali cose sono buone in sé?». Moore non trascura di notare che in una ricerca sull’etica non ci si può sottrarre dal chiarire quali siano le cose che devono esistere per se stesse, poiché

queste cose costituiscono anche il fine delle azioni umane66. La tesi per cui ciò che ha

valore intrinseco costituisce anche il fine delle azioni dell’uomo è certamente più impegnativa sul piano della riflessione di quanto Moore sembri voler fare intendere con quello che resta poco più di un cenno di poche parole. La connessione, che potrebbe addirittura essere vista come logica, fra cose buone in sé e fini da perseguire in assoluto, è comunque troppo importante per potercisi soffermare in modo solo superficiale, come qui sarebbe inevitabilmente. Meglio richiamarsi a essa durante l’esame della filosofia mooreana dove questa lo richiede, senza affrontarla ora esplicitamente. Non sfugge, tra l’altro, anche l’assonanza con gli assunti di partenza di entrambe le Etiche aristoteliche, sia la Nicomachea, che l’Eudemia. Seguire lo sviluppo delle riflessioni di Moore potrebbe fornire l’occasione per vedere i suoi rapporti con dottrine che nella tradizione

filosofica europea occupano senza dubbio una posizione di autentica fondazione67. In

65 G. E. MOORE, Principia Ethica, p. viii: «What kind of things ought to exist for their own

sake? […] What kind of actions ought we to perform?». Le medesime domande sono presenti, forse con minore evidenza, ma in forma comunque chiara, già negli Elements of Ethics, p. 117.

66 Cfr. anche G. E. MOORE, Principia Ethica, p. 76. Per un chiarimento su ciò che, secondo

Moore, distingue ciò che è buono come fine da ciò che è buono come mezzo, vedi anche G. E. MOORE, Elements, pp. 109-115. Dalle pagine indicate vale la pena di riportare almeno queste parole: «Dobbiamo fare […] il passo più grande di tutti; osservare quel senso di “fine” per il quale questo non denota più qualcosa di meramente relativo, ma una proprietà intrinseca di ciò che è un fine. […] Questo è il senso in cui fine denota ciò che è buono in se stesso. In questo senso, se una cosa è un fine, allora è sempre un fine: se è buona , è sempre buona. […] Qui in ultimo abbiamo a che fare con qualcosa di definitivo: fine è equivalente a “fine razionale”».

67 Per il momento è bene utilizzare il termine poco impegnativo «assonanza», poiché certamente

ogni caso, ciò potrà avvenire, quando avverrà, solo in via tangenziale rispetto all’analisi principale, riguardante le tesi esposte nei Principia.

La seconda domanda verte, invece, sulle azioni che si devono compiere e che sono distinguibili, come si vedrà, in azioni giuste e azioni doverose. Anche se molte dottrine morali tendono a non rintracciare alcuna differenza fra ciò che è giusto e ciò che è doveroso compiere, Moore si impegna, nei Principia, a mostrare che è vero il contrario e cioè che le azioni giuste non coincidono affatto con le azioni doverose, sebbene si diano casi frequenti in cui agire giustamente corrisponda anche al compimento del proprio dovere.

Le due domande fondamentali dell’etica non devono essere confuse l’una con l’altra, poiché la prima riceve in risposta proposizioni descrittive, mentre le proposizioni che rispondono alla seconda hanno sempre anche un aspetto prescrittivo. L’aspetto prescrittivo, infatti, è riconosciuto come la caratteristica preminente di tutte le risposte alla seconda domanda, dato che queste assumono sempre la forma del «tu devi» o «si deve». Moore vede bene, però, che se anche tutte le proposizioni che esprimono un dovere assumono facilmente l’aspetto di leggi, non tutte le leggi sono del medesimo tipo. Si possono distinguere, infatti, almeno tre tipi di leggi: morali, naturali e giuridiche.

Tutt’e tre, di fatto, sono analoghe sotto un certo aspetto, e solo per questo: esse includono una proposizione universale. Una legge morale afferma: “La tal cosa è buona in tutti i casi”; una legge naturale: “La tal cosa accade in tutti i casi”; e la legge giuridica: “La tal azione è comandata, o proibita, in tutti i casi”. Ma siccome è naturale supporre che l’analogia vada più in là, e che l’asserzione: “questo è bene in tutti i casi” equivalga alla asserzione: “questo accade in tutti i casi” o all’altra: “la tale azione è comandata in tutti i casi”, può essere utile […] mettere in rilievo che esse non sono equivalenti68.

di Aristotele per fare di Moore un aristotelico. È raccomandabile seguire, da questo punto di vista, il consiglio che Giovanni Giorgini rivolge a chiunque colga punti di contatto fra filosofi moderni e filosofi antichi: meglio non ostinarsi nel rintracciare rapporti di discendenza dove c’è solo somiglianza, meglio prediligere una certa precisione a una generalizzazione che rischia di mettere insieme pensatori, dottrine e contesti storici in maniera artificiosa. Cfr. G. Giorgini, Liberalismi eretici, Trieste, Edizioni Goliardiche, 1999, pp. 193-194.

È chiaro, quindi, che solo la seconda domanda è quella da cui prende le mosse tutta la ricerca conosciuta come «filosofia pratica»69, mentre è solo al tentativo di

rispondere alla prima domanda che si deve lo sviluppo di una riflessione di tipo

metaetico, riflessione che si è sviluppata per buona parte del XX secolo70. La seconda

domanda, inoltre, si distingue dalla prima perché le risposte a essa devono tenere necessariamente conto dei rapporti causali che legano le azioni ai loro effetti. Questo merita di essere rimarcato, perché la riflessione sui rapporti causa-effetto occupa Moore a lungo, anche al di fuori dei Principia.

L’individuazione delle due domande fondamentali dell’etica è un dato di straordinaria rilevanza nell’economia dell’opera di Moore e costituisce uno dei lasciti che si stanno rivelando fra i più fecondi del suo pensiero. Da sola, però, non è sufficiente a rendere conto del contributo che Moore fornisce alla riflessione etica e non può dare ragione del perché le intuizioni abbiano in essa una così grande importanza. La scoperta e la messa in evidenza delle due domande fondamentali vanno piuttosto lette insieme e confrontate con quanto Moore scrive in apertura al Capitolo I dei Principia, comprensibilmente intitolato «L’oggetto dell’Etica». Prendendo in considerazione alcune sue affermazioni, ci si può fare un quadro più esaustivo di ciò di cui Moore vuole occuparsi e di ciò che costituisce, nella sua convinzione, materia di interesse specifico per quella particolare riflessione filosofica chiamata «Etica».

69 È dalla risposta alla seconda domanda che Moore fa derivare quello che, negli Elements of

Ethics, egli qualifica come un autentico principio morale; vedi G. E. MOORE, Elements of Ethics, p. 118: «tu devi sempre fare ciò che è un mezzo per ciò che deve essere realizzato. Questo […] è un principio che è assolutamente necessario per dare una ragione alla condotta».

70 Per molti versi la riflessione metaetica, i cui inizi vengono spesso rintracciati dalla critica

storica proprio in Moore, continua e si sviluppa ancora in questi anni, sebbene in forme diverse da quelle che l’hanno caratterizzata dagli anni ’30 agli anni ’60 del XX secolo. Ormai, infatti, non è più solo la riflessione sul comune linguaggio morale a impegnare i filosofi – come invece accadeva nel pieno del secolo scorso – ma si è assistito a un ritorno di interesse per tematiche metafisiche più tradizionali. A testimonianza della vitalità della riflessione metaetica e di come Moore continui a essere considerato da molti pensatori un punto di partenza imprescindibile, si veda la raccolta di saggi Metaethics after Moore, a cura di T. HORGAN – M. TIMMONS, Oxford, Oxford University Press, 2006. In particolare, Stephen Darwall attribuisce a Moore un ruolo tale per cui neanche Sidwick gli sarebbe comparabile e questo nonostante il fatto che Moore tragga buona parte dei suoi temi di riflessione proprio da quest’ultimo. Cfr S. DARWALL, How Should Ethics Relate to (the Rest of) Philosophy? Moore’s Legacy, in T. HORGAN – M. TIMMONS, ibidem, pp. 17-37.

È assai facile indicare alcuni giudizi contenuti nel nostro linguaggio quotidiano, la cui verità interessa indubbiamente l’Etica. Ogni volta che diciamo “il tale è un uomo buono”, oppure “quel tale è un furfante”; ogni qualvolta ci domandiamo “che cosa debbo fare?” oppure “faccio male a agire in questo modo?”; ogni volta che arrischiamo osservazioni come “la temperanza è una virtù e il bere un vizio” – è senza dubbio compito dell’Etica discutere tali domande e tali asserzioni; è suo compito scoprire quale sia la risposta vera quando domandiamo che cosa sia giusto fare, e fornirci ragioni in base alle quali i nostri giudizi sui caratteri delle persone o sulla moralità delle azioni si rivelino veri o falsi. Nella gran parte dei casi, quando formuliamo asserzioni in cui compare qualcuno dei termini come “virtù”, “vizio”, “dovere”, “giusto”, “si deve”, “buono”, “cattivo” facciamo giudizi etici; e se vogliamo discutere della loro verità, dobbiamo discutere un argomento di etica. Tutto ciò è pacifico; ma è ancora ben lontano dal definire chiaramente il campo dell’etica. Questo campo può invero esser definito come la verità complessiva su ciò che è allo stesso tempo comune a tutti questi giudizi e peculiare a essi71.

Ecco dichiarato ciò che Moore giudica bene fare dopo aver messo in luce correttamente le due domande fondamentali e dopo aver evidenziato alcuni giudizi tipicamente etici: definire in maniera esaustiva il campo dell’etica. A questo proposito, è chiaro che una ricerca rigorosa deve riuscire, fino dai suoi primi passi, a delimitare con cura il suo campo d’indagine e una definizione può certamente corrispondere, in molti casi, a una delimitazione. Trascurare questo compito preliminare può portare ai medesimi errori che possono derivare dal porsi, in partenza, domande errate. La definizione del campo di ricerca è, anzi, essenziale per avere la possibilità di condurre la ricerca stessa a un buon esito. È importante notare qual è il ruolo che Moore attribuisce in questa parte del suo lavoro filosofico ai molti e vari giudizi etici che compaiono nel linguaggio comune: essi non costituiscono il centro attorno al quale Moore sviluppa il suo discorso, ma sono, piuttosto, i migliori punti di avvio, le più favorevoli occasioni per rintracciare ciò che di assolutamente peculiare vi è nell’etica. L’ambizione di Moore è estremamente vasta: trovare il filo che, legando insieme quei giudizi morali che si presentano così di frequente nella esperienza quotidiana, ma spesso in forme molto diverse gli uni dagli altri, finisce con il costituire anche il tratto specifico dell’etica intesa come specifica attività del pensiero. A Moore appare chiaro, infatti, come in tutti quei giudizi ci sia qualcosa di comune, qualcosa che li colloca in un insieme preciso di proposizioni, in modo tale che, se anche esistono altri insiemi di proposizioni, essi non sono caratterizzati dallo stesso elemento che accomuna tutte e solo le proposizioni

appartenenti al campo dell’etica. Infatti è proprio questo comune elemento – potremmo anche dire questa comune proprietà – a fare in modo che quelle proposizioni possano dirsi etiche, poiché è esso stesso a costituire la caratteristica peculiare di ogni asserzione di natura etica. Ecco, quindi, che ora le due domande fondamentali da cui Moore ritiene si debba partire possono essere comprese come il solo, corretto primo passo di una ricerca tesa a scoprire, innanzi tutto, in che cosa consista quella specifica proprietà che accomuna tutti i giudizi etici e che, nello stesso tempo, è peculiare solo a essi.

Io cercherò di [esaminare] prima di tutto che cosa è il “bene” in generale; nella speranza che, se si potrà arrivare a una qualche certezza su questo, sarà poi molto più facile chiarire il problema della condotta buona […]. Ecco dunque il nostro primo problema: che cos’è buono e che cosa è cattivo?72

La lettura attenta di questi passi toglie ogni dubbio circa lo spazio che Moore intende riservare nei Principia ai giudizi etici particolari: esso sarà esclusivamente funzionale allo scopo e non si estenderà oltre il bisogno. Questo spazio, infatti, sarà solo quello sufficiente a cogliere il «che cosa è» e il «generale», evitando del tutto di farsi occasione per elenchi di cose buone o cattive.

Dato l’intento pienamente filosofico della sua riflessione, Moore afferma, perciò, che rispondere alla domanda su «che cos’è buono e che cos’è cattivo» è il primo problema da affrontare. Naturalmente, visto che non vi è una sola domanda fondamentale dell’etica, il problema del «che cosa è» sarà il primo da risolvere, ma non l’unico. Infatti, in continuità con la messa in luce delle due domande, Moore precisa ulteriormente quella che egli giudica la corretta scansione dei veri problemi dell’etica. Essi sono divisi, in tutto, in tre classi: le prime due riguardano entrambe le risposte alla prima domanda, mentre la terza classe di problemi riguarda per intero le risposte alla seconda domanda. La prima classe e la seconda differiscono per il fatto che l’una va

72 G. E. MOORE, Principia Ethica, p. 45. Il termine «bene» che compare nella sola traduzione

italiana disponibile dei PE può generare, a questo punto, equivoci: come si verrà chiarendo più avanti, Moore utilizza sempre il termine «good» nel senso di «ciò che possiede la proprietà di essere buono». «Good» resta sempre un aggettivo, anche quando ha una funzione di sostantivo. Solo mantenendo nella traduzione questa aderenza alla sua natura di attributo si può capire in quale senso Moore possa cercare il «buono» in generale e non solo un bene particolare, per quanto grande esso possa essere. Per questo motivo, è meglio evitare di parlare di «bene» o di «beni», poiché in alcune occasioni si potrebbe essere portati fuori strada.

sempre considerata come preliminare rispetto all’altra. Si viene chiarendo, in questo, che essa si trova su uno snodo fondamentale per il successo della ricerca etica e che, perciò, non va confusa con nessun’altra. È proprio la costante, vigile attenzione di Moore verso questa prima classe di problemi etici che lo ha reso un pensatore indispensabile per comprendere una parte importante della filosofia morale del secolo scorso.

Risulta chiaro che tutti i problemi etici si dividono in tre classi. La prima comprende un solo problema, cioè quale sia la natura di quel predicato peculiare, la cui relazione con altre cose costituisce l’oggetto di ogni altra indagine etica; ossia, in altre parole, che cosa si intenda per buono. […] Rimangono due classi di problemi che si riferiscono al rapporto di questo predicato con altre cose. Possiamo chiederci sia 1) a quali cose e in che grado questo predicato sia connesso direttamente; sia 2) con quali mezzi si possano rendere buone nel più alto grado possibile le cose esistenti nel mondo; cioè quali relazioni causali intercorrano fra ciò ch’è buono in se stesso e altre cose73.

Più avanti nei Principia, Moore ha occasione di spiegare ulteriormente in che cosa consista la terza classe di problemi etici:

[la terza classe di problemi] introduce nell’etica un problema del tutto nuovo […], cioè il problema di quali cose siano connesse come cause a ciò che è bene in se stesso; e questo problema si può risolvere solo con un metodo del tutto nuovo, il metodo della indagine empirica, per mezzo della quale si scoprono le cause nelle altre scienze. Domandare che genere di azione dobbiamo compiere, o che genere di condotta sia giusta, significa domandare che genere di effetti una tale azione o condotta produrrà. Non c’è alcun problema di etica pratica che possa essere risolto se non mediante una generalizzazione causale. […] Ogni giudizio di etica pratica può essere ridotto alla forma: questo è causa della tal cosa buona74.

A questo punto, dopo la messa in luce delle due domande fondamentali, si delinea con precisione ancora maggiore la struttura portante attorno alla quale Moore organizza la sua indagine. Volendone seguire gli sviluppi nel modo migliore, il suo lettore deve cominciare con il prestare attenzione, quindi, alla prima classe di problemi.

In effetti, questa è composta da un elemento solo: il problema della natura del «buono». Ciò che va innanzitutto notato è come il «buono» sia a volte chiamato da

73 G. E. MOORE, Principia Ethica, p. 91. 74 G. E. MOORE, Principia Ethica, pp. 236-237.

Moore «predicato peculiare», a volte sia chiamato «proprietà» e in altre occasioni ancora, come si vedrà, venga detto «qualità». Da questo punto di vista, perciò, Moore non è molto attento alla precisione terminologica e questo rende meno facile l’esame critico della sua posizione sul «buono». Per scusare almeno in parte quello che è sicuramente un difetto, si può ricordare che Moore è, per certi versi, un pioniere di uno stile filosofico che diventerà dominante nelle università britanniche per i cinquanta anni successivi alla pubblicazione dei Principia, ma che egli si trova in questa posizione per

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