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L’intuizionismo etico nelle opere di G E Moore

Può risultare fuorviante ostinarsi a ritrovare negli scritti giovanili di un filosofo le medesime tesi, magari anche solo in abbozzo, che saranno proprie della sua maturità. Spesso, infatti, le prime prove di un pensatore sono volte per lo più a ricavarsi uno spazio all’interno di un dibattito già delineato e ben definito nei suoi tratti essenziali, così come servono anche a mettersi in qualche modo alla prova, oltre che a fare esperienza in un’attività come quella speculativa, che ha la caratteristica di lasciare in genere molto spazio all’iniziativa personale. Ne deriva, quindi, che le posizioni difese nei saggi giovanili riflettono raramente e in maniera esclusiva il frutto di neutre elaborazioni teoriche. Sembra corretto, perciò, astenersi da una ostinata e pedissequa opera di «scavo», tutta dedicata a riportare alla luce, quasi al modo di un tesoro nascosto, l’insieme completo delle continuità possibili fra opere giovanili e opere mature. Appare più utile vedere i primi lavori di un filosofo come testimoni diretti e indiretti – e, forse, spesso inconsapevoli – di un ambiente culturale, di un caratteristico stile di pensiero, della diffusa, anche se approssimativa, Weltanschauung di un’epoca. Questo è anche il caso, come si è già visto, delle prime pubblicazioni di Moore, che solo a rischio di forzature possono essere interpretate come perfettamente anticipatrici di tutti gli sviluppi che le seguiranno. È vero che in esse si possono già rintracciare alcuni atteggiamenti di fondo che non muteranno più in seguito o alcuni interessi che avranno un importante sviluppo, allo stesso modo di alcune propensioni che si dimostreranno decisive nelle opere più mature. È anche vero, però, che tutto ciò è anche variamente mescolato a elementi che si riveleranno caduchi, transitori o che verranno espressamente rifiutati. Un buon esempio di questo stato di cose è In What Sense, If

Any, Do Past and Future Time Exist?, discussione filosofica che ha goduto di una

pubblicazione su «Mind» nel 189758. Questa discussione vede contrapporsi Bernard

Bosanquet e Moore, dalla parte del neo-idealismo, e Shadworth H. Hodgson, dalla parte del realismo. Sia Bosanquet che Moore si richiamano di frequente a Bradley nelle loro

58 B. BOSANQUET – S. H. HODGSON – G. E. MOORE, In What Sense, If Any, Do Past and

argomentazioni, a volte per correggerne alcune affermazioni, ma molto più spesso per trovarvi un sostegno ai loro stessi ragionamenti. Bosanquet, per esempio, parte da una passo di Apparenza e realtà, nel quale Bradley mostra che la scienza parla del tempo sia come se fosse un oggetto reale di conoscenza, formato da un passato, un presente e un futuro, sia come se tutte le esperienze umane possibili fossero sempre rapportabili per intero al tempo presente. Questa sorta di indecisione testimonierebbe, per Bradley, della difficoltà di risolvere la questione della natura del tempo e Bosanquet conferma che questo rappresenta una difficoltà filosofica. Si potrebbe tentare di risolvere questa difficoltà migliorando la comune nozione di tempo attraverso una sua trattazione in chiave psicologica, per cui il passato e il futuro si vedrebbero riconosciuta solo un’esistenza di tipo indiretto, necessariamente fondata sul più saldo concetto di continuità e sufficiente a dare conto dei rapporti di causa-effetto. Del resto, nota Bosanquet, questa potrebbe essere solo una soluzione parziale, perché si deve ammettere che esistono realtà superiori a quelle che possono essere esperite attraverso rapporti causali e queste sono le verità immutabili della logica. La scienza stessa, come anche Bradley – ricorda Bosanquet – aveva notato, si fonda esclusivamente su quelle verità che sono universali e fuori dal tempo, così che, a rigore, la stessa verità scientifica non può che essere al di sopra di ogni possibile connessione temporale; in questo modo, «le sequenze osservabili di eventi non possono essere verità scientifiche». Secondo Bosanquet, basta tradurre le ovvie conclusioni di questo ragionamento per poter affermare con successo che è la permanente continuità a costituire, da sola, la forma più alta di realtà, quella cui anche la scienza deve fare riferimento e che passato, presente e futuro, non essendo oggetti reali, vanno assorbiti in un «intero senza tempo».

Il realista Hodgson si oppone a queste tesi, notando che un tempo scandito in passato, presente e futuro è necessario non solo alla mente, per potere formulare pensieri, ma alla realtà stessa, poiché realtà e esperienza non differiscono per natura e l’esperienza non si dà mai al di fuori di una successione di momenti. In più, Bosanquet non avrebbe notato che il tempo si trova anche in quel luogo da cui egli lo vorrebbe estromettere, perché parlare di una permanente continuità, intesa come la vera realtà, non può nascondere che la permanenza sia esclusivamente un fatto di durata nel tempo e che la continuità consista solo nella mancanza di cesure in questa durata. Hodgson concede che è solo la mente ad avere necessità di dividere la durata in parti discrete poste in successione, ma il fatto che il tempo sia pensabile solamente in un certo modo,

non ne mina la realtà. L’errore filosofico commesso da chi difende l’idealità del tempo consiste nel voler trattare i momenti empirici come se fossero puri «istanti matematici», cioè puri limiti privi di esistenza, ma in questo caso si prende per realtà ciò che più plausibilmente è solo caratteristico della mente degli uomini. Se ci fosse, infatti, una mente dai poteri superiori, prosegue Hodgson, questa potrebbe essere consapevole, ben più di quanto lo sia un uomo, di dettagli che formano la realtà e di molte più distinzioni temporali fra un prima e un dopo.

Dopo gli argomenti di Hodgson, Moore cerca di avanzarne altri che riportino la bilancia dalla parte dell’idealismo. Oltre a vedere l’argomento della mente superiore, chiamata in causa da Hodgson, come niente più di un «deus ex machina», un artificio calato dall’alto appositamente per risolvere la questione, Moore nota che anche una simile mente avrebbe difficoltà a comprendere la transizione fra qualcosa che non esiste, qualcosa che esiste e poi ancora qualcosa che non esiste, quale è il caso della transizione dal passato al presente e poi al futuro. Il vero difetto della posizione di Hodgson resta, comunque, la confusione fra la realtà, presa in sé, e la coscienza che di quella realtà può avere un soggetto capace di pensiero. Se Hodgson avesse ragione, infatti, basterebbe pensare una certa situazione perché essa divenisse, con ciò, reale e basterebbe pensarla nuovamente per riportarla a nuova e piena realtà. Confondendo, come in questo caso, la coscienza di una realtà con la realtà stessa, si giunge a ridurre il reale, per non dire l’essere stesso, a un puro stato mentale, con esiti assolutamente paradossali. Come si vede, Moore non abbandona, qui, la sua critica a una concezione che riporta a Berkeley, confermando che anche nella sua transitoria fase di vicinanza al neo-hegelismo alcuni nodi teoretici restano per lui immancabili punti fermi. Ci si può richiamare, rispetto a questa punti fermi, all’antipsicologismo, per cui naturalmente il contenuto mentale o psicologico non può, al di là di come lo si voglia chiamare o caratterizzare, esaurire il tutto. Una certa confusione su questo è rilevata da Moore non solo nel realista Hodgson, ma anche nella posizione di Bosanquet.

La fallacia, se di fallacia si tratta, consiste nel confondere le percezioni interne con la conoscenza scientifica del mondo esterno – una confusione che, a partire da Hume, può essere fatta con difficoltà nel caso dello spazio, perché lì la percezione interna non ha la stessa doppia connessione. Sarebbe, tuttavia, un’assurdità altrettanto grande negare la infinita divisibilità dello spazio sulla base del fatto che il più piccolo punto percepibile è di estensione variabile. Le parole precise di Bosanquet, per cui “il nostro presente include la

durata” implicano che esso può essere misurato con le stesse arbitrarie unità di misura impiegate nelle successioni fisiche. E il fatto è che appena noi percepiamo, e non ci dedichiamo soltanto a inferire, una qualche successione nel nostro presente, quello cessa di essere il nostro presente. Ascrivere all’Assoluto un potere di esperire il passato e il futuro come se fossero il presente, sarebbe come porre la sua coscienza a un livello più basso del nostro, poiché sarebbe come privarlo interamente di quel potere di distinguere gli eventi successivi che è una condizione del nostro progresso nella conoscenza.59

Moore può, a questo punto, essere estremamente esplicito, anche più di quanto possa esserlo Bosanquet.

Il presente non è reale, perché può solamente essere pensato come infinitamente piccolo; e il passato e il futuro non possono essere reali, non solo perché anche essi devono essere pensati come infinitamente divisibili, ma anche perché mancano completamente di quella immediatezza che, secondo Bradley, è un costituente necessario della realtà. Ma se né il presente, né il passato, né il futuro sono reali, non c’è rimasto nulla nel tempo in quanto tale che sia reale. Allo stesso tempo, devo pregare Hodgson di non prendersela troppo con me. Se pensa che tramite una posizione di questo tipo io intenda sostenere che “posso fare a meno del tempo, o anche che posso pensare senza di esso”, allora resta ancora molto da chiarire.60

La netta affermazione fatta da Moore sulla irrealtà del tempo è, quindi, il risultato di uno stretto confronto fra posizioni filosofiche in buona misura opposte e è essa stessa pienamente speculativa. Potrebbe essere questo il motivo per cui Moore conclude il suo contributo alla discussione con una riflessione dal tono decisamente meno perentorio. Può anche pesare, in questo caso, la tendenza costante in Moore a provare un forte disagio nel sostenere in toto assunti che hanno l’aria di contrastare apertamente con le acquisizioni del senso comune.

Se dovessi, allora, al termine della discussione, dare una risposta diretta alla nostra domanda, direi che né il passato, né il presente, né il futuro esistono, se per esistenza noi intendiamo il riconoscimento di una piena realtà e non solo un’esistenza intesa come apparenza. D’altra parte, io penso che potremmo dire che c’è più realtà nel presente che nel passato o nel futuro, perché, sebbene esso sia di molto inferiore a questi nell’estensione del contenuto, possiede quell’elemento coordinato dell’immediatezza di cui gli altri sono del

59 B. BOSANQUET – S. H. HODGSON – G. E. MOORE, ibidem, p. 238. 60 B. BOSANQUET – S. H. HODGSON – G. E. MOORE, ibidem, p. 238.

tutto privi. Di nuovo, e infine, penso che possiamo introdurre una distinzione, da questo punto di vista, fra passato e futuro. Il passato sembra essere più reale del futuro, perché il suo contenuto va a costituire in maniera più propria il presente, quando invece il futuro potrebbe proclamare una superiorità rispetto al passato solo se si potesse mostrare che in esso l’apparenza diventerebbe sempre più un tutt’uno con la realtà.61

Risulta ancora più chiaro,orami, che Moore non è disposto a accogliere in maniera acritica tutto ciò che gli viene dalla lettura di Bradley e Bosanquet o dal confronto diretto e frequente con McTaggart. Egli si tiene ben strette alcune convinzioni di fondo su cui mostra molte meno incertezze di quanto capiti con altre e cerca di trovare una conciliazione fra questi suoi punti fermi e una filosofia che gli sembra in generale più avanzata. Questa conciliazione, però, non riesce, perché non tutte le posizioni sono conciliabili quando alla loro base ci sono idee troppo diverse intorno alla natura della realtà stessa. La definitiva presa di distanza dal neo-hegelismo è rintracciabile, nel caso di Moore, a partire dalla pubblicazione del saggio The Nature of

Judgment, nel 189962.

61 B. BOSANQUET – S. H. HODGSON – G. E. MOORE, ibidem, p. 240.

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