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Carcere & Corpi

Nel documento La Possibile Italia 1 (pagine 58-61)

La Corte europea dei diritti umani, prima con la sentenza Sulejmanovic del 2009, poi con la sentenza Torreggiani del 2013 ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), secondo il quale il detenuto, ancor più vista la sua condizione di vulnerabilità, deve veder garantite condizioni che preservino la sua dignità umana e, per quanto possibile data la restrizione, il suo benessere fisico e psicologico.

Così non è, nelle nostre carceri: dignità e benessere sono spesso violati e il diritto alla salute e all’istruzione fortemente compromessi. La misura detentiva dovrebbe essere concepita come un percorso che riabiliti la persona all’interno della società, passando necessariamente dal lavoro, dall’affidamento di un compito, dallo studio, dalla possibilità di intravedere un futuro.

Le carceri italiane sono edifici inadatti a contenere persone costrette in spazi stretti e inadeguati a causa del sovraffollamento e delle condizioni igieniche precarie. Circa i due terzi di chi trascorre la propria pena in carcere, una volta fuori, è recidivo. La percentuale si abbassa al 20% se la pena è alternativa.

Da fuori vediamo il carcere come un dispositivo di maggiore sicurezza, che ci libera temporaneamente dai soggetti pericolosi. L’ignoranza rispetto a quanto accade nelle carceri ha raggiunto un punto di non ritorno nel periodo del primo lockdown, quando le rivolte sono state soppresse nel sangue. I fatti di Santa Maria Capua a Vetere, di Modena, Bologna e Rieti, rivendicano giustizia. Se non siamo in grado di sanare questo vulnus, difficilmente riusciremo a restituire al carcere la sua funzione principale.

In linea generale, dovrebbero essere messe in campo misure per affrontare il disagio e la paura degli ex detenuti quando la pena finisce. Il pregiudizio, che si aggiunge al giudizio espresso dalla magistratura, permane anche una volta scontata la pena, in un’eterna espiazione della colpa una volta rientrati (solo fisicamente) nella società.

La politica deve intervenire con progetti di formazione e informazione per tutta la cittadinanza, perché la realtà carceraria sia sentita come parte della società. Il carcere dovrebbe venire considerato un quartiere al pari degli altri, dove progettare servizi che rispondano ai bisogni dei suoi abitanti, e che preveda una visione di futuro a partire dalle singole individualità, dalle competenze pregresse e da quelle in via di sviluppo, dall’evoluzione nel corso della detenzione della storia personale e relazionale, culturale e lavorativa di ciascuno. Occorre un piano educativo che parta dall’osservazione e dall’ascolto dei bisogni dei detenuti per progettare i percorsi di reinserimento.

Per punti:

● Più lavoro, più progetti, più mediatori socio-culturali per fare sentire meno sole le persone straniere che non hanno legami sul territorio;

● Più educatori per poter progettare il futuro e il reinserimento nella società;

● Più personale penitenziario e attività formative rivolte ad esso, per ridurre stress, emergenze e turni di lavoro estenuanti.

● Riammodernamento delle carceri, con spazi adeguati anche ad attività lavorative e all’istruzione.

Il problema più urgente è quello della gestione e cura dei detenuti cosiddetti

“psichiatrici”, a seguito della chiusura degli OPG, gli ospedali psichiatrici giudiziari.

Queste persone sono inglobate nel sistema penitenziario senza ricevere alcun intervento sanitario: la fragilità mentale si somma, spesso, ad altre fragilità, come la dipendenza da alcol e droghe. Sono poche le strutture carcerarie che hanno sezioni per la cura delle patologie psichiatriche.

Ci sono progetti virtuosi - come il Progetto Nave a Milano - che andrebbero diffusi, perché le fragilità mentali in carcere siano seguite da personale sanitario specializzato.

Per rispondere al problema del sovraffollamento occorre modificare il codice penale prevedendo pene non detentive per i reati minori, come previsto dal dettato costituzionale, con affidamento al territorio della persona condannata già in fase di giudizio, evitandone così l’ingresso in carcere.

Devono essere incrementate le assunzioni del personale educativo - funzionari giuridico-pedagogici - che sono 700 in tutti gli istituti d’Italia a fronte di una popolazione detenuta di 53 mila unità.

Proponiamo di istituire in tutte le città con una casa circondariale gli ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute), ossia strutture accoglienti, esterne al carcere, per detenute madri con figli e figlie, perché bambine e bambini non debbano entrare in carcere nemmeno un giorno.

Persone LGBTQIA+ in stato di privazione della libertà personale

Attualmente la tutela di persone omosessuali o transgender in stato di privazione della libertà personale, per motivi giudiziari, è un problema per il DAP (Direzione Amministrazione Penitenziaria). A partire dalle celle di sicurezza presso i vari corpi di polizia, sono previsti spazi comuni divisi per sesso e uno separato per i minori.

Più complicata la situazione negli istituti penitenziari. Per tutelare le persone LGBTQIA+

ed evitare contatti notturni - visto l’elevato numero di violenze sessuali in carcere - spesso si sceglie di metterle in celle di isolamento, non a contatto con gli altri detenuti. Questa separazione, che spesso diviene anche diurna, si traduce in meno ore da trascorrere in spazi comuni, negazione del diritto di partecipare a laboratori e minor accesso al lavoro, più difficoltà nel frequentare percorsi di scolarizzazione o riabilitazione (contravvenendo a uno dei principi cardine della detenzione).

Tutto questo determina una doppia condanna e una doppia espiazione, perché il mancato rispetto dell’identità di genere nel momento della carcerazione spesso aggrava la pena, caricandola anche di quella discriminazione di fondo che si basa sul non riconoscimento della soggettività trans.

Per quanto riguarda le persone transgender, inoltre, vi è la problematica legata al diritto alla salute. Gli studi sulla detenzione di persone transgender evidenziano la mancanza di possibilità di accesso a visite mediche con endocrinologo, la difficoltà - in alcune Regioni - di accesso ai farmaci necessari per il percorso di affermazione e TOS in esenzione.

In Italia è stata avviata la sperimentazione di spazi e percorsi per la piena inclusione delle persone transgender in soli tre istituti penitenziari. Se queste dovranno essere le sole strutture demandate alla custodia di persone trans, vorrà dire che, a differenza degli altri detenuti, le persone transgender saranno certe di trovarsi lontane dal proprio

territorio di appartenenza, con conseguente difficoltà dei familiari di poter effettuare le visite.

Per tutti questi motivi ci impegneremo affinché siano previsti:

● L’obbligatorietà per le regioni di fornire, in esenzione, farmaci e visite con endocrinologo alle persone transgender detenute;

● Percorsi di educazione sessuale per tutte le persone in custodia presso gli istituti di pena;

● Percorsi educativi in tema di discriminazione rivolti ai detenuti e alle detenute;

● Corsi di formazione del personale per evitare episodi discriminatori.

Nel documento La Possibile Italia 1 (pagine 58-61)

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