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2.1  «Demoni  divenuti  parole»  |  Social  Cognition,  Dialogismo                      e  Personaggio  concettuale  ne  La  Cognizione  del  dolore

   

A volte penso che mi farei rinchiudere in una prigione dieci tese sottoterra, dove non penetrasse un filo di luce, perché in cambio potessi scoprire di che cosa è fatta la luce. E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno. Come un amante, come un ubriaco, come un traditore. È un vizio maledetto, mi trascinerà alla rovina. Quanto potrò resistere a parlare solo coi muri? Questo è il problema.

B. Brecht, Vita di Galileo Galilei

Taluni negano il dolore richiamandosi al sole, egli nega il sole richiamandosi al dolore.

F. Kafka, Egli

Sulla struttura, la costruzione tematica, le ragioni compositive del maggiore romanzo di Gadda, sono state avanzate numerose quanto efficaci analisi. L’anomalia del testo, tuttavia, la sua singolare resistenza al commento e alla parafrasi, spero non rendano superfluo aggiungere un’altra ipotesi interpretativa, che deve alle precedenti molte impostazioni e rilievi.1

                                                                                                                 

 1 In particolare, sulla costruzione del romanzo come «trama verbale», l’importanza dell’aspetto sonoro e alcuni rilievi sul tempo dell’intreccio in Gadda e Dostoevskij, rimando a Donnarumma 2001a: 45-63 e Id 2006: 29-75; altre interessanti rilievi sulla partizione tematica e il personaggio si devono a C. Savettieri (Savettieri 2008: 135-69). Per Gadda e Dostoevskij, poi, una prima approfondita comparazione è stata

 

Quella che vorrei proporre è l’idea che la Cognizione del dolore sia un problema di acustica spazializzato oppure, altrimenti detta, un problema etico spazializzato in senso acustico. Questa coordinazione tra questioni di poetica e di etica, non è in realtà un’equivalenza, ma una subordinazione del primo termine al secondo; una direzione di lettura che Gadda stesso indica dicendo che, se mai avrà modo di redigere una propria Poetica, «dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più di un capitolo dell’Etica: e questo deriverà dalla Metafisica»

(Meditazione breve, SGF I 444). Questa direzione dovrà essere tenuta in conto, come indicatore di precedenza, per tutta l’analisi che tenteremo.

Aggiungo, inoltre, che scansionerò l’indagine su tre punti teorici, in rapporto ai quali ritengo che il romanzo si misuri e possa essere misurato: il primo concerne l’anamnesi del soggetto critico, del bersaglio polemico, del tema ossessivo intorno a cui Gadda articola il romanzo, come una risposta; secondariamente, cercherò di rilevare alcune tangenze costruttive del romanzo e del suo principale personaggio, che in realtà vorrei dimostrare essere l’unico, con uno dei suoi espliciti modelli europei, ovvero Dostoevskij, attraverso le analisi di chi ne ha permesso la più completa decodifica, vale a dire Michail Bachtin;

infine, cercheremo di vedere se e come, il modello venga complicato e in un certo senso superato, attraverso una combinatoria architettonica, tesa a ottenere una strategica dissonanza tra la struttura linguistica del personaggio e il mondo semantico di cui fa esperienza. A questo particolare personaggio, in chiusa, tenteremo di assegnare un nome, una qualifica teorica, sorretti dalla riflessione estetica di Gilles Deleuze.

Raccogliamo allora, prima di tutto, le tracce della polemica, la genesi del concetto.

Nelle due coppie di scritti che aprono e chiudono, in una rilevante simmetria, la raccolta di

«brevi Saggi eccentrici» de I viaggi, la morte, non è possibile non notare un’insistenza                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

 

compiuta da Sergia Adamo (Adamo 2004), mentre la prima applicazione teorica delle categorie bachtiniane in Gadda, appartiene, come è noto, a Cesare Segre (Segre 1985 e 2005). A Segre devo molto, quindi, per l’impostazione del problema, pur divergendo, come si vedrà, nella conclusione; egli, infatti, estende la qualifica polifonica tanto al Pasticciaccio quanto alla Cognizione, mentre la mia ipotesi teorica la esclude da quest’ultimo romanzo. Va detto, infine, che il mio lavoro non entra nello specifico narratologico e linguistico, dove avanza invece Segre, e si limita a indagare un solo tipo di dialogismo, quello interno ai personaggi, escludendo quello tra autore e personaggio, e tra opera e tradizione letteraria. Per le più recenti dispute intorno alle categorie di Bachtin, si vedano gli Atti del convegno di Ceresy in J.Bres, P. Haillet, S. Mellet, H.

Nolke, L. Rosier, a cura di, Dialogisme et Poliphonie. Approches linguistiques (Bruxelles: Éditions Duculot, 2005). Un’importante riflessione sul personaggio nella modernità letteraria, che indaga gli esiti del romanzo di formazione anche in Gonzalo, la si deve, invece, ad A. Inglese, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, (Cassino: Laboratorio di Comparatistica, 2003).

 

tematica ai limiti della fissazione: Gadda ingaggia una vera guerriglia lessicale, contro quello che ai suoi occhi è, prima ancora che un problema espressivo, un problema sociale:

l’egoismo e la sua postura di pensiero, ossia il solipsismo. Per debilitarne le fondamenta, Gadda è consapevole di dover partire massacrandone linguisticamente le premesse, cioè invalidando la possibilità stessa di un’identità autonoma, sufficiente a se stessa e in continua ronda sulle proprie illusioni di possesso.

Da qui la celebre invettiva diretta all’«idolo io, questo palo» dalla «coglionissima capa» (Come lavoro, SGF I 428). Come abbiamo detto, però, in Gadda il male etico si salda sempre alla colpa espressiva, per questo, poche righe dopo, lo vediamo precisare la mira, stringere sul problema creativo, mentre rincara la dose:

L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla in comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di «dissociato noètico». D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si abolisce, nel lento impossibile. L’oceano della stupidità (SGF I 431).

La prosa critica di Gadda, si sa, gareggia ogni volta con quella letteraria; è in questa preziosa ambiguità che egli, mentre ragiona di scrittura produce pezzi memorabili di letteratura e, sul versante opposto, mentre scrive un romanzo, getta le basi per la sua teoria.

In quest’ottica trasfusiva è lecito seguire il cammino del suo pensiero critico nelle sue traduzioni romanzesche; chiedersi con che tipo di soluzione operativa egli decida di illustrare il problema, creando un possibile estetico alternativo all’abolizione del volere.

Occorre resistere in modo tecnico – vedremo poi l’importanza dell’aggettivo nel romanzo – alla spossatezza ferita, a quella sorta di «ubi nihil vales, ibi nihil velis» con cui si chiude l’invettiva e che Samuel Beckett, citando Geulincx, metteva in bocca al suo Murphy (Beckett, 2003:126). Tanto per Beckett, come per Gadda, ritengo sia da respingere in modo netto ogni lettura puramente negativa, ogni tentazione desertica e nichilista, qualunque voto all’afasia. Il piano espressivo serve piuttosto come banco di evidenza, su cui disporre il difetto etico in modo linguistico, non per costatare a freddo quanto questo sia irreversibile e

 

destinato alla pandemìa, bensì per renderlo visibile e soprattutto sensibile nella sua acustica; per farlo, cioè, praticare al lettore nella sua pelle verbale e prepararne l’antidoto all’interno del linguaggio.

Il dire e il fare sono, dunque, l’oggetto di un’unica meditazione, tanto che in uno scritto sono affiancati fin dal titolo. Nella Meditazione breve circa il dire e il fare, infatti, Gadda ribadisce nella premessa la «medesimezza» che lega azione e dizione, in una curiosa contingenza con la teoria degli atti linguistici, che Austin stava in quegli anni mettendo a punto:

Questo primo tema ch’io dico, da costituir vincolo e testimonio, quasi, di medesimezza tra l’operazione dell’esprimere sé e quella di costituir sé in dignitosa persona o ente, mi pare possa così formularsi: “Considerate che un vizio della espressione influisce nei giudizi e però negli atti d’un uomo o d’un collegio di uomini…”. (SGF I 444)

La premessa, per Gadda, è resa necessaria a chiarire come la sua tesi non sia orientata sul più classico vettore di lettura, secondo cui l’animo informerebbe la parola, le cose il loro nome – conforme al «nomina sunt consequentia rerum» di Giustiniano – , ma sostenga al contrario un’opposta direzione epidemica:

quante volte quest’arte del dire ha deformato il sentire: coi bei risultamenti delle sue parole obbligative ha reso pregiudizio grave tanto al pensare che al fare. Siamo cioè condotti allo studio di un rapporto inverso a quello che costituisce ordinario obiettivo d’osservazione. Ché per solito si ama disquisire dai savi come e quanto il pensiero e, direi, l’interno calore dell’anima informi o accenda la tua parola, o parlata, o scritta:

nomina sunt consequentia rerum: io no: io voglio, in questo tema e nelle sue variazioni, farne ridesti a un pericolo che sapete benissimo e pur siete adusati a mettere, per una cagione o per l’altra, in non cale: la parlata falsa falsifica l’animo.

(SGF I 445)

Riassumiamo, a costo di apparire didascalici, prima di andare oltre: c’è un problema etico diffuso, il solipsismo egoista ed egotista, che, data la correlazione tra fare e dire, ha il suo corrispettivo nella «parola, o parlata, o scritta». Interessandoci in questa sede solo della

 

parola scritta, siamo portati a porci due domande: che tipo di resa testuale corrisponde al solipsimo? Come riconoscerlo? E veniamo così a Bachtin e alla teoria del romanzo.

Si sarà forse notato come, nei passi citati, una risorsa lessicale cui Gadda attinge, per definire la sfera semantica dell’egoismo, sia riconducibile alla figura di Galileo Galilei, o meglio alla disputa tra la concezione tolemaica del mondo e la rivoluzione copernicana, di cui Galileo si assumerà il rischio della divulgazione. Oltre alla già citata «fissità centrica» di «codesto bambolotto della credulità tolemaica», vi sono altri luoghi testuali in cui la similitudine convoca lo scienziato pisano a fare figura: se, nel dialoghetto L’Egoista, il portatore del male omonimo è definito «tal’e quale come il pianeta ipergravidico» che

«acciacca se stesso» per eccessiva gravità (SGF I 659), in Emilio e Narcisso lo scrittore prende a pretesto il romanzo The egoist di George Meredith, per ribadire che «questo senso centrico» è da lui chiamato «fissazione tolemaica» (SGF I 640).

Al di là dell’interesse che avrebbe indagare Galileo come modello di prosa in Gadda, è rilevante qui notare come, anche Bachtin, nel momento in cui deve trovare una formula con cui indicare la qualità fondamentale del narratore polifonico, da opporre alla chiusa immobilità della visione monologica, parli di «coscienza linguistica galileiana»

(Bachtin, 1979a: 174).

Quest’immagine in Bachtin funziona per coppie, esattamente come in Gadda:

l’errore di credere al dogma rassicurante di una terra in equilibrio statico, illustra l’errore creativo di comporre un mondo centrato unicamente sulla voce compatta e monologica dell’autore, sull’unità della lingua che esclude o rende periferiche e subordinate le voci testuali. Un errore di centratura, quindi, ma prima di tutto, e ancora, un problema di acustica. Solo chi è in grado di cogliere i bordi linguistici interni al sistema della lingua, la continua mobilità e interazione dei punti voce, può restituire un’immagine attiva delle loro dinamiche; solo quando «sorge un senso acuto dei confini della lingua» (Bachtin, 1979a:

177), insomma, si può relativizzare in essa la propria posizione, facendo spazio testuale alla parola altrui:

Il romanzo è l’espressione della coscienza linguistica galileiana che ha rinunziato all’assolutismo di una lingua unica e unitaria, non accettando più la propria lingua come solo centro semantico verbale del mondo ideologico […]; è necessario imparare a sentire «la forma interna» […] della lingua altrui e la «forma interna» della propria lingua come altrui; è necessario imparare a sentire ciò che di oggettivato, tipico,

 

caratteristico c’è non soltanto nelle azioni, nei gesti e nelle singole parole e espressioni, ma anche nei punti di vista, nelle concezioni e nelle sensazioni del mondo, organicamente unite alla lingua che le esprime. (Bachtin, 1979a: 174; corsivo mio)

Anche per Bachtin, come si vede, le diverse concezioni del mondo sono «organicamente unite alla lingua che le esprime», di modo che dare una descrizione romanzesca dei movimenti linguistici, equivale a raccontare una storia di coscienze, dove – e qui invece è Gadda a parlare di Dostoevskij – i personaggi «si urtano ed errano e peccano e vanno al diavolo quasi comandati, cioè inspirati, insufflati da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole» (Meditazione breve, SGF I 453; corsivo mio)

Lo spazio del romanzo diventa una tracciatura di urti linguistici, conflitti in cui l’autore si limita a disporre e stenografare una pluralità che per attrito semantico costruisce l’intreccio. Quest’ultimo, infatti, «è sottomesso a questo compito di correlazione e reciproco svelamento delle lingue. L’intreccio romanzesco deve organizzare lo svelamento delle lingue e delle ideologie sociali, la loro mostra e la loro prova: la prova della parola»

(Bachtin, 1979a: 173; corsivo mio).

Prima di scendere nello specifico dell’intreccio della Cognizione, per verificarvi l’applicabilità della definizione bachtiniana, fissiamo un’ultima equivalenza sul piano dell’autore: il corrispettivo creativo della posizione solipsistica a livello etico, è riscontrabile, a livello compositivo, nella monocromia ricettiva dell’ascolto monologico;

nell’ingenua, e non meno colpevole, illusione che ciò che non rientra nel proprio sistema linguistico vada silenziato e ricondotto a unità. Questa tipologia di narratore, conclude Bachtin, «non sente l’essenziale pluridiscorsività», così che «le armoniche sociali, che creano i timbri delle parole, sono da lui scambiati per rumori importuni da eliminare»

(Bachtin, 1979a: 135).

Il rumore in Gadda non sembra fare difetto. Egli è talmente fornito di un «senso acuto dei confini della lingua» da essere spesso indicato, nella vulgata critica, come paradigma dell’ibridazione stilistica nel Novecento italiano. Abbiamo visto, inoltre, retroilluminato dall’invettiva, quanto il suo pensiero si opponga a qualsivoglia centratura prospettica dell’individuo, tanto sul piano etico che in quello autoriale: quanto la sua coscienza, insomma, sia galileiana.

Ci si aspetterebbe allora, come logica conseguenza, un romanzo di tipo strettamente polifonico, dominato dalla molteplicità di linguaggi organicamente uniti ad altrettante

 

coscienze, svincolate e autonome rispetto alla volontà dell’autore che le dispone. L’essenza della polifonia, infatti, «sta proprio nel fatto che le voci restano indipendenti e come tali si combinano in un’unità di ordine superiore a quella dell’omofonia, […] si compie il superamento di una sola volontà» (Bachtin, 1968: 32). La polifonia non è un semplice effetto stilistico, ma un riposizionamento dell’autore che, al pari dell’intreccio, arretra e si ricolloca in una contemporaneità dialogica con la «pluralità di voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l’autentica polifonia delle voci pienamente autonome» (Bachtin, 1968: 12). Questo è Dostoevskij, coscienza tra le coscienze, voce tra le voci. Eppure, nel capolavoro di Gadda, le cose sembrano stare diversamente.

Lontano da essere la resa testuale di una «totalità d’interazione tra varie coscienze»

(Bachtin, 1968: 27), il mondo della Cognizione si configura piuttosto come un vuoto di voci, in movimento, in aggressione della sola coscienza dell’eroe. Trattandosi di un narratore ad alta vocazione polifonica – realizzata a pieno nel Pasticciaccio, come rileva giustamente Cesare Segre – non possiamo leggere questa mancanza di coscienze come un rinculo monologico, un errore di officina, una caduta o un’abiura. Mi pare, invece, che Dostoevskij resti anche qui il modello di riferimento, complicato in funzione di uno spostamento di problematica. Se Gadda, come autore, ha risolto il conflitto etico tra una narrazione gravidica e la sua antitesi polifonica, a favore di quest’ultima, sul piano del racconto e dei personaggi egli può forzare la forma a rivelare un’intelaiatura più complessa del problema, costruendo un’immagine del concetto, praticabile dal lettore attraverso un’immagine della lingua.

In un certo senso, la questione egologica nel romanzo si biforca e raddoppia. Da una parte, vedremo come l’egoismo sociale trovi un soggetto esteso nella collettività, e nella sua espressione linguistica: la diceria, la chiacchiera, la doxa – arido contraltare alla polifonia. Dall’altra, in opposizione a questo soggetto collettivo, portatore linguistico di un

«egoismo fagico» (L’egoista, SGF I 664) – affamato di voci testuali, di coscienze da neutralizzare – egli ricava la solitudine acustica dell’unico soggetto che resista a questa dinamica vocivora, ma che da essa è generato per separazione e dissociazione. Questa sola coscienza testuale però, non è presentata in un tenace arrocco solipsistico, ma al contrario la sua voce è costruita, seguendo la lezione di Dostoevskij, come conato dialogico, destinato dall’autore a essere strategicamente deluso.

 

Veniamo, dunque, alla costruzione del personaggio. Se la polifonia è la condizione di possibilità per l’emersione testuale di numerose voci e coscienze, il dialogismo è la disposizione interna di queste voci alla crescita relazionale, all’urto e alla modificazione. In breve, è la trasposizione, a livello del personaggio, dell’eteronimia del narratore polifonico;

è la contro posizione, sul piano del racconto, all’isolamento monologico.

Questa disposizione non è immediata, ma maturata per fasi. L’approdo al personaggio dialogico, tanto in Dostoevskij quanto in Gadda, è, infatti, il risultato di un percorso del pensiero, di un superamento di stadi successivi. Il male accentrativo, l’esclusione dell’altro, è prima di tutto una tentazione di stabilità che va praticata nella sua menzogna, perché l’apertura non sia pura lacerazione: linguisticamente, è necessario sentire l’incompiutezza della propria parola, il bisogno di metterla alla prova.

L’uomo del sottosuolo è colui che cerca di respingere questo bisogno, facendo tacere o anticipando la parola altrui su di sé, per deriderne la pretesa comunicativa, incapace di sfondare la «barriera solipsistica»2. Il personaggio del sottosuolo, scrive, infatti, Bachtin:

sta con l’orecchio teso ad afferrare ogni parola degli altri su di lui, si guarda nelle coscienze altrui come in tanti specchi, conosce tutte le sfumature che la sua figura può assumere in esse; [..]Ma egli sa altresì che tutte queste determinazioni, sia parziali che obiettive, sono nelle sue mani e non lo definiscono completamente proprio perché egli stesso ha coscienza di esse; egli può uscire dai loro limiti e renderle inadeguate. Egli sa che l’ultima parola è la sua, e si sforza di conservare per sé ad ogni costo quest’ultima parola su di sé. (Bachtin, 1968: 72; corsivo mio).

La forza di Dostoevskij sta nel comporre questa figura di grande solipsista non come semplice immagine di una compiaciuta inerzia auditiva, ma come un grande orecchio cognitivo, affaticato nel digerire la parola altrui per attaccarla con l’acido della precomprensione. È una sfida conservativa, spinta all’esterno unicamente per internarlo nei propri confini, e dimostrare che la sua autocoscienza è una geografia normativa, immune da

                                                                                                                 

 2 La formula è di A. Inglese , che alla «barriera solipsistica» dedica una sottosezione del suo libro. (Inglese 2003: 61-70)

 

nuove mappature, che solo egli conosce i propri bordi, da cui tagliare i ponti alla parola altrui. Non c’è motivo di uscire dal sottosuolo, niente di nuovo sotto il sole.

È da questo errore del pensiero, da questa figura a enorme densità di massa, che Dostoevskij costruirà, per reazione, la sua infinita gamma di personaggi dialogici, destinati a soffrire del male opposto, ovvero di un’eccessiva esposizione all’aperto, in continua lotta con la parola altrui; nel farlo, però, li priva della possibilità di riparare in un proprio territorio di autocoscienza: il «talento crudele»3 dello scrittore russo, mentre spinge i personaggi a costruirsi nella dolorosa negoziazione con la parola altrui, gli sbarra definitivamente la porta di casa. Dall’orbita asfittica delle Memorie dal sottosuolo, si arriva alle vaste ellittiche, tracciate dall’intersecarsi di voci, dei Fratelli Karamazov. Qui il personaggio, nella rinuncia all’ultima parola, si fa «funzione infinita» (Bachtin, 1968: 69).

Anche in Gadda, il personaggio dialogico è il risultato di un attraversamento. A testimoniarlo non abbiamo però un racconto che ospiti una figura d’errore, un campione di solipsismo, ma il già citato dialoghetto tematico su L’Egoista; questo testo potrebbe tuttavia essere letto come un commento eziologico al racconto di Dostoevskij. In esso Gadda compie un’accesa disamina del male per tappe degradanti, una sorta di casistica generativa.

Ripercorrerla ci porterà sulla soglia della villa di Gonzalo, ai margini della Cognizione.

Gadda descrive in questo testo quattro tipi di egoismo, derivati l’uno dall’altro.

Prima di tutto, però, è definita la matrice generale della colpa: «Egoista è colui che ignora o trascura la condizione di simbiosi, cioè di necessaria convivenza di tutti gli esseri. Egli crede di poter vivere solo, entità eminente nella vera luce su oscure e dimenticabili premesse». A confortare la nostra impostazione comparativa con il modello russo, poche righe dopo aggiunge che l’egoista «non ha letto, e non ha meditato a sufficienza, la monadologia di Leibniz né i Karamazov di Dostoevskij» (SGF I 654-655).

Vediamo ora i quattro stadi di affezione, lungo cui si sviluppa il male. Il primo vede protagonista «l’egoista economico», che «crede, nella sua dura buonafede, poter salvare sé, la sua donna, la sua prole, il suo pecunio, dal naufragio dei casi» (SGF I 655). A questo segue «l’egosita dell’al di là», che «ritiene di aver potuto recare a salvezza la propria anima sulla perdizione delle rimanenti: cioè che una poltrona di prima fila gli sia riservata in Paradiso»; quest’ultimo ignora, e siamo ancora in Russia, «il riconoscimento                                                                                                                

   

3 L’epiteto, citato da Bachtin, è coniato da N. K. Michailosvkij (Bachtin 1968: 72).

 

dostoiewskiano del gravame comune delle colpe», ed è perciò classificato anche come

«egoista morale» (SGF I 656-657).

Da qui si arriva all’«egoista estetico, cioè allo schizzinoso: mentre la casa va a brucio, costui, o costei, è tutto incurvo sulle calie del salotto: aggiusta sui mobili, i soprammobili, gli indispensabili tarabiscots del salottino assettatuzzo: […] ignora, o scorda, che il sudiciume e il disordine sono la più autentica delle proprietà comunizzate» (SGF I 657).

Infine, e siamo alle porte della villa dei Pirobutirro, l’egoista estetico «arriva, per lente, inavvertite sfumature, a costituir se stesso in egoista igienico». Quest’ultima posizione, funzionando per noi da raccordo analitico, vale una citazione estesa:

Egoista igienico è quegli che cerca di esimersi, con l’isolamento, col metter maschera al grifo, da contrarre il male epidémico: o anche semplicemente endémico. Ripara in villa ad affabular le belle, mentre il sito de’ cadaveri ammorba tutta la città. Per fare altro esempio: se la collettività cade preda di una irriducibile endemia di cretinismo, l’egoista igienico si studia ciononpertanto, con l’aereare il proprio cervello, con la lettura di Montaigne, evitare a se stesso la calamità comune. (SGF I 658; corsivo mio)

La postura igienica di chi «ripara in villa» per non venire a contatto con l’alterità epidemica – si tratti pure di una malattia del pensiero e del linguaggio, endemica alla collettività – sembrerebbe essere il nitido ritratto di Gonzalo. La sua figura, ritagliata dalla «cattiva stampa» e dalle «voci più straordinarie» (Cognizione, RR I 596), è introdotta tardivamente nel romanzo proprio sotto il profilo di una ripulsa igienica al contatto: «non altezzoso, questo, sembrava escludere dallo sguardo, e forse dallo sguardo dell’anima, la miseria e il giallore della poveraglia» (RR I 597). Inoltre, l’immagine di una clausura libresca, del riparare in una letteratura da camera per «aereare il proprio cervello» nel mondo delle idee, sembra coincidere con l’attitudine del personaggio a consolarsi nella propria stanza, leggendo Platone al posto di Montaigne.

Gadda, però, descrive questa postura come la fase terminale di una catena metamorfica di egoismi, di un processo a cascata; l’esito estremo di una fallace difesa identitaria, che per proteggersi dal caos rinuncia al cosmo. Difficile pensare, quindi, che Gadda costruisca e sia solidale con un eroe della separatezza, che egli semplicemente ceda

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