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Murphy could think and know after a faschion with his body up (so to speak) and about, with a kind of mental tic doloureux sufficient for his parody of rational behaviour. But that was not what he understood by consciousness.

Samuel Beckett, Murphy

La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccolissima goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come un piccolo mondo a uno grande, come una cellula organica al suo organismo, come l’atomo al cosmo. Essa è il microcosmo della coscienza umana.

Lev Vygotsky, Pensiero e Linguaggio

MIMESI,  MEDIACY  E  NARRATIVITY  II  |  TRE  CATEGORIE  RICONFIGURATE    

 

Nella speranza che la digressione terminologica del precedente paragrafo permetta ora una di proseguire con minore ambiguità, ritorno a seguire il modello della Fludernik come traccia da cui rilevare e ampliare ulteriori punti di novità del nuovo approccio narratologico. Come abbiamo visto, il dispositivo dei frames, il sottoinsieme dinamico degli scripts, e il macrodispositvo dei modelli mentali che di questi si materia, rendono ragione di come la narrazione possa, per il tramite obliquo del linguaggio, stimolare la ricostruzione del mondo finzionale come esperienza, ossia sfruttando i parametri cognitivi formati da moli informative derivate dalla percezione.

Alla luce di questa centralità dell’esperienza nell’atto di lettura, si arrivano a toccare e a riconfigurare tre punti nodali della narratologia, ossia il concetto di mimesi, di mediazione e di narratività. Rispetto al concetto di mimesi, non si tratta più di cercare aderenze o analogie del testo rispetto alla realtà in senso descrittivo, ma di indagare come il testo richiami dispositivi cognitivi, attraverso una stimolazione semiotica, che permettano al lettore di recuperare il testo come mondo su parametri esperienziali, in un senso quindi costruttivo. È il lettore, scrive Fludernik, che attraverso il processo d’interpretazione ricostruisce gli stimoli semiotici come esperienza, compiendo quindi l’omologazione, per quando illusoria e parziale, del mondo reale al mondo della finzione. In questo senso:

mimesis must NOT be identified as imitation but needs to be treated as the artificial and illusionary projection of a semiotic structure which the reader recuperates in terms of a fictional reality. This recuperation, since it is based on cognitive parameters gleaned from real- world experience, inevitably results in an implicit though incomplete homologization of the fictional and the real world […] And in so far as all reading is interpreting along the lines of a represented world, it necessarily relies on the parameters and frames of real-world experience and their underlying cognitive understandings. Mimesis is therefore here conceived in radically constructivist terms. (34-37)

Una mimesi intesa non più come rispecchiamento, dunque, fedeltà al dettaglio significativo o al dettaglio inutile28, ma come rappresentazione dell’esperienza attraverso il suo recupero nel lettore attraverso parametri cognitivi. È su questa base naturale che il testo può essere tolto dalle parentesi finzionali e ricostruito come mondo, in una rilettura cognitiva della

‘suspension of disbelief’ suggerita da Coleridge, o, come ha scritto Wolfgang Iser citato dalla stessa Fudernik, in un processo di «undoing of the ‘as-if’ dimension» (Iser 1993:15).

Una simile riconfigurazione della mimesi trascina con sé le successive due riconfigurazioni concettuali sulla mediazione (mediacy29) e sulla narratività.

Per quanto, infatti, la nozione della narrativa come medium non sia mai stata molto controversa30, sul concetto e sulle modalità della mediazione la partita narratologica è stata ed è decisamente più accesa. I più classici modelli narratologici di Gerard Genette (1972),                                                                                                                

 

 28 Mi riferisco, naturalmente, all’idea che Roland Barthes esprime nel suo noto saggio sull’effet de réel, secondo cui è proprio il dettagli che apparentemente non ha nessuna funzione che, in un romanzo, ne accresce quella che Barthes chiama l’«illusion référentielle», vale a dire il potere di significare il reale per pura presenza. Dopo aver citato la mancanza di funzionalità del barometro in una descrizione tratta da Madame Bovary, infatti, Barthes conclude che «la carence même du signifié au profit du seul réfèrent devient le signifiant même du réalisme : il se produit un effet de réel, fondement de ce vraisemblable inavoué qui forme l’esthétique de tous ouvres courant de la modernité» (Barthes [1968] 1984 : 174)

29 Il termine mediacy (Mittlebarkeit) è stato introdotto da Franz Stanzel nella sua teoria della narrazione (1984), per distinguere lo specifico della narrativa come forma mediata, da forme non-mediate come il dramma o la narrazione cinematografica. La necessità di variare un concetto già individuato precedentemente dalla narratologia, attraverso al combinazione di ‘voce’ e ‘modo’ narrativo in Genette (1972) e nell’idea di

«narrative transmission» in Chatman (1978) viene dal fatto che Stanzel introduce una dimensione scalare nella mediazione, rifutando la rigida dicotomia tra omodiegesi ed eterodiegesi, così come la metafora ottica della ‘focalization’ in Genette. Per Stanzel, infatti, la mediacy può essere giocata in forme miste, come quella che lui definisce «figural narration», ossia la particolare mediazione in cui il narratore, pur apparentemente rimanendo in carica come punto di percezione sul mondo narrativo, fa suoi i pensieri di uno o più personaggi, che utilizza appunto come ‘riflettori’.

30 È piuttosto il concetto di narratività come categoria narratologica che è stato esteso ad altri media, come il fumetto (Herman 2009) e al cinema (Chatman 1978). Per una recente raccolta di contributi narratologici in una prospettiva intermediale e interdisciplinare si veda Heinen e Sommer 2009.

Seymour Chatman (1978) e Franz Stanzel (1984), pur con importanti differenze, concordavano sul fatto che una prerogativa della narratività di un testo fosse la presenza di un narratore, di una voce che trasmettesse e trasformasse la storia in discorso. Ora, ridefinendo la narratività «qua experientiality» (13) la Fludernik rifiuta la necessità di questo mediatore (26). Il fattore unificante dei livelli su cui vengono distribuiti i frames, infatti, non risiede nell’unità di una ‘teller-figure’, sia essa un narratore o un personaggio interno alla diegesi, ma nel fatto che siano tutti riconducibili a un experiencer, in poche parole a una figura umana. Per attivare i frames naturali del lettore, dunque, non occorre necessariamente un narratore, ma anche il concetto di mediacy viene riformulato in senso cognitivo, introducendo due fattori che costituiscono il complemento alla teoria dei livelli e forse il ‘claim’ più originale del modello: ossia la necessità di un corpo e, piuttosto conseguentemente, di una coscienza.

IMAGE-­‐SCHEMAS  |  CORPO,  ESPERIENZA  SENSIBILE  E  LINGUAGGIO  

Per il corpo, la sua rilevanza sembra intuitiva in quanto se, in quest’ipotesi cognitiva, a un mondo narrativo si accede attraverso frames maturati nel mondo reale, l’idea di «Embodiedness evokes all the parameters of a real-life schema of existence which always has to be situated in a specific time and space frame, and the motivational and experiential aspects of human actionality likewise relate to the knowledge about one's physical presence in the world» (Fludernik 1996: 30). Per spiegare, però, come l’esperienza sensibile, sensoriale, possa essere recuperata attraverso il linguaggio, bisogna dare ragione della relazione che intercorre tra corpo e rappresentazione. Cosa significa avere un corpo finzionale? Come ricostruire da stimoli semiotici l’esperienza non verbale?

Come già sottolineato, sull’ipotesi che ci sia un vincolo sinergico tra esperienza corporea e linguaggio si basa molta recente linguistica cognitiva. In particolare, Mark Johnson e George Lakoff hanno dedicato particolare attenzione a questa dinamica d’interazione tra corpo e pensiero astratto (1999), con l’obiettivo di trasformare il più classico dei problemi della filosofia della mente, vale a dire il dualismo cartesiano tra mente e corpo, in un’integrazione reciproca, in un principio di continuità, tra esperienza percettiva e astrazione mentale. Di più, Johnson considera astrazioni gli stessi concetti di

corpo e coscienza, che la filosofia ha separato per necessità speculativa, ma che in realtà sono uniti in una simbiosi funzionale.

Attaccando la prospettiva di una mente computazionale, tipica, come abbiamo già detto, delle scienze cognitive di prima generazione, Johnson suggerisce come «the very possibility of abstract conceptualization and reasoning depends directly on the fact that

“body” and “mind” are not two separate things, but rather are abstractions from our ongoing, continuous, interactive experience» (14). Richiamandosi all’idea degli schemata di Bartlett, che insieme a Lakoff aveva precedentemente ridefinito «image-schema»

(Lakoff 1987; Johnson 1987), Johnson sostiene che questi siano si strumenti per orientare e manipolare il pensiero astratto, ma che la loro emersione si debba alla necessità cognitiva di guidare la percezione sensomotoria. Per questo un   trattamento formale, puramente informativo e computazionale di queste strutture concettuali della mente isolerebbe la stessa sorgente pragmatica di questi concetti. Allo stesso modo, se si riservasse la funzionalità di questi schemi alla percezione sensomotoria, non si spiegherebbe come siano possibili concetti e pensieri aventi come oggetto l’esperienza del corpo. Ecco come Johnson riassume questa via integrativa:

 

If you treat an image-schema as merely an abstract, formal cognitive structure, then you leave out its embodied origin and its arena of operation. On the other hand, if you treat the image – schema as nothing but a structure of a bodily (sensomotor) process, you cannot explain abstract conceptualization and thought. Only when image schemas are seen as structures of sensomotor experience that can be recruited for abstract conceptualization and reasoning […] does it become possible to answer the key question: how can abstract concepts emerge from embodied experience without calling upon disembodied mind, autonomous language modules, or pure reason? Failure to recognize the non dualistic, mental-bodily reality of image schemas would cause the collapse of the whole project of utilizing image-schematic logic to explain abstract thought. (141, mio il corsivo)

Questi schemi, allora, hanno la doppia qualità di essere, sul piano dell’esperienza sensibile, una parte cruciale della nostro «nonrepresentational coupling with the world» e, cosa cruciale invece per un loro possibile utilizzo nella creazione e nella ricezione di un mondo finzionale, possono essere reclutati dal pensiero astratto e tradotti in forma linguistica. Se la narrativa, nell’ipotesi di Herman che sottoscrivo, può essere vista come un’attività di

formazione e combinazione di modelli mentali, la loro efficacia nel permettere al lettore la ricostruzione del mondo finzionale come esperienza può essere ulteriormente illuminata e completata da questa capacità del linguaggio di condividere schemi nati dall’esperienza sensoriale.

Se già Johnson-Laird sosteneva come i modelli mentali fossero l’unione del percetto al concetto, l’idea dei frames e degli scritps, come rappresentazioni mentali di contesti e sequenze di azioni, viene da Johnson arricchita della loro componente sensoriale e motoria.

Come suggestivamente suggerisce ancora Johnson, la stessa immaginazione viene così ad essere «tied to our bodily process» e, rompendo ulteriormente le barriere tra finzione e realtà, «can also be creative and transformative of experience» (13). In qualche modo, infatti, si deve supporre che, data la condivisione di questi dispositivi tra immaginazione ed esperienza, il vettore di transito informativo possa essere persino invertito, fino ad arrivare a suppore che l’immaginazione, e con lei anche uno dei suoi frutti più complessi quali la creazione di un mondo narrativo, possa trasformare la nostra percezione del mondo reale, agendo sugli schemi che in esso ci orientano.

È un primo passo verso il riconoscimento di un potere cognitivo della narrazione da parte delle scienze cognitive, a cui dedicherò parte del secondo capitolo. Per ora, fissiamo un punto fermo sul fatto che la narrazione, strutturandosi sulla mediazione di rappresentazioni schematiche emerse dall’esperienza, si deve supporre condividere con quest’ultima la fondamentale caratteristica di essere sempre situata31, in un corpo e in una coscienza a cui attribuire la proprietà degli schemi che dal linguaggio vengono reclutati.

Passiamo così al secondo elemento che rende l’esperienza estetica di un racconto quella che dalle scienze cognitive è definita una situated cognition32.

   

                                                                                                                 

 31 Per una buona e recente raccolta di contributi intorno al rapporto cognitivo tra semiosi e la prospettiva situata del corpo e della mente si veda il volume a cura di Ziemke, Frank e Zlatev 2008.

32 Ancora ricorrendo alla MIT Encyclopedia of Cognitive Sciences: «Situated cognition and learning is the study of cognition within its natural context. This perspective emphasizes that individual minds usually operate within environments that structure, direct, and support cognitive processes» (Seifert 1999: 768). In breve, con questa definizione si enfatizza tanto la natura relativa e prospettica di ogni processo cognitivo, poiché vincolato alla percezione individuale del soggetto, tanto l’importanza che su di essa esercita il contesto, con cui il soggetto interagisce.

NO-­‐MEDIATOR  THEORY  E  MODELLO  NON  ATTANZIALE  |  LA  COSCIENZA  COME  STRUTTURA  NARRATIVA  

Ritorniamo alle tre categorie di mimesi, mediazione e narratività che la Fludernik cerca di riconfigurare. Ora, se il lettore ricostruisce l’esperienza narrativa recuperando quanto legge come prototipo di un’esperienza umana, ne consegue piuttosto logicamente che «since humans are conscious thinking beings, (narrative) experientiality always implies and sometimes emphatically foregrounds the protagonist's consciousness» (Fludernik 1996:

30). Rileggendo quindi il concetto di mediacy come esperienza mediata da un corpo e da una coscienza - che certo in alcuni casi potrà levare la voce alla narrazione, al dialogo o alla riflessione, la Fludernik chiude lapidaria nel dire che «any piece of narrative relies on both these building stones» (30).

Questi due fattori, queste due pietre fondanti della narratività, non devono però necessariamente essere esplicitati nel testo, ma sarà il lettore a recuperare l’informazione narrativa come esperienza di un corpo e/o di una coscienza. Gli stessi personaggi o, narratologicamente parlando, attanti narrativi, non saranno più centrali unicamente per la loro partecipazione alla catena di eventi, al plot del racconto, ma saranno in primo piano in quanto esistenti33, ossia come coscienza o corpo attraverso cui il lettore attiverà i propri frames. Ne consegue una radicale eliminazione dell’importanza del plot e dell’azione in favore di una narratività intesa come rappresentazione dell’esperienza:

Actants in my model are not defined, primarily, by their involvement in a plot but, simply, by their fictional existence (their status as existents). Since they are prototypically human, existents can perform acts of physical movement, speech acts, and thought acts, and their acting necessarily revolves around their consciousness, their mental centre of self-awareness, intellection, perception and emotionality. […]I hold that action belongs to narrative as a consequence of the fact that experience is imaged as typically human and therefore involves the presence of existents who act; I therefore maintain that existence takes priority over action parameters, rather than treating consciousness as an incidental side effect of human action. In my view narrative thus properly comes into its own in the twentieth century when the rise of the

                                                                                                                 

 33 Sul personaggio come ontologicamente esistente, nella prospettiva però interna alla teoria dei mondi possibili che sfioreremo nel quarto paragrafo, si vedano gli importanti articoli di Margolin 1986; Margolin 1990.

consciousness novel starts to foreground fictional consciousness. (27)

Mentre, come abbiamo visto, David Herman ha successivamente formulato un’idea di narratività come equilibrio o disequilibrio di scripts mentali, come alta o bassa stimolazione di modelli mentali e consuetudini legate all’azione, la concezione della Fludernik, pur mettendo al cuore del suo modello gli stessi dispositivi cognitivi, ricava un’idea più minimale della narratività. Il suo modello, che non a caso utilizza più il concetto di frame che quello più vincolato all’azione dello script, assume che ciò che stabilisce un alto grado di narratività sia la capacità del testo di evocare la presenza e l’esistenza di una o più coscienze – vale a dire che frame più statici legati alla percezione non saranno meno importanti di frames legati all’azione, vivificati dall’attivarsi dei conseguenti scripts. Per distinguere questa visione della narratività da quella di Herman, come anticipato, farò riferimento a questo tipo di narratività come a una Narrativity II.

Con il passaggio appena citato abbiamo finalmente tutti gli elementi di innovazione che lo studio della Fludernik porta con sé. In primo luogo (1) la ridefinizione di una mimesi come evocazione o, come credo sia meglio, attrazione di frames naturali attraverso cui il lettore recupera la narrazione come esperienza. In questo primo punto il mondo del lettore viene a essere costruttivamente funzionale al recupero del mondo narrativo, in un’omologazione su base cognitiva. In secondo luogo (2) il rifiuto, sul piano della mediacy, dell’insostituibilità di un narratore, a favore di un’ipotesi più estesa, in quanto l’esperienza – come viewing, experiencing e acting – ha come minima base cognitiva la necessità solo di due fattori di mediazione, ossia un corpo e una coscienza. Infine, (3) la definizione di narrativity come experientiality, ossia il rifiuto della dicotomia tra storia e discorso, di una centralità dell’azione e della concatenazione causale, dell’importanza dei personaggi come attanti, mettendo invece in primo piano l’esperienza rappresentata come esistenza umana.

La marginalizzazione del narratore (2) come solo una delle possibilità che la narrativa ha per veicolare l’esperienza, inserisce la Fludernik in una posizione mediana all’interno della linea di una “no-mediator theory”, che ha visto e vede posizioni più radicali. Da un lato c’è chi ha sostenuto che possano esistere narrazioni senza alcuna

mediazione, attraverso un «empty deictic center»34 (Banfield 1987) che, funzionando come un camera-eye non consentirebbe al lettore alcun tipo di personificazione di una guida narrativa al mondo finzionale. Fludernik, però, prende le distanze da questa posizione, con la semplice obiezione che, se questo occhio narrativo effettua dei movimenti, dietro al movimento si deve supporre un’intenzionalità che lo genera e, quindi, una coscienza: «if the camera is mobile, then this manipulation is motivated, intentional, the result of agency»

(Fludernik 1996: 197). Una seconda posizione più radicale è quella di Richard Walsh, che in più sedi ha sostenuto come per lui il narratore semplicemente non esista, sia una costruzione della critica, mentre in realtà o si tratta di un personaggio, magari non esplicitato on stage, o quanto si legge si deve ricondurre all’autore stesso (Walsh 1997;

2007). Walsh nega così una validità pragmatica al concetto di ‘autore implicito’ postulato da Booth.

Ora, stabilire che l’atto di lettura presupponga la ricostruzione di una o più coscienze, dove il lettore attribuisce anche il più minimo segmento di testo all’esperienza di un individuo – le cui visioni, emozioni e azioni può recuperare attraverso i propri frames naturali - segna però una premessa importante per il cammino che ci condurrà a qualificare alcune narrazioni come mondi cognitivi.

In quest’ottica, infatti, anche le narrazioni più estreme, che siano definite come tardo moderniste o post-moderniste, possono essere recuperate come narrative naturali, vale a dire narrativizzate (cioè ricostruite come codificazioni dell’esperienza in forma narrativa) attraverso frames maturati nel mondo reale. In questo modo la qualifica mimetica può essere estesa anche a narrazioni che apparentemente non sembrano strutturare un mondo e rappresentare una situazione naturale ma, in un modello che impiega la coscienza e non l’azione «as its cognitve structure» (50), il lettore, di fronte a testi in cui apparentemente non ci sono né personaggi né mondo narrativo, potrà utilizzare il frame del ‘telling’ nella                                                                                                                

 

 34 Ann Banfield formula, infatti, l’ipotesi di una mediazione “vuota”, dove pur non venendo a mancare i riferimenti spaziali e temporali costruiti attraverso la deissi, questo centro rispetto cui i deittici si direzionano non ha tratti ascrivibili a un osservatore: si tratta di «sentences with a deictic centre but without any explicit or implicit representation of an observer. Grammatically, such sentences would contain place and time deictics, here and now or their equivalents; they might also contain demonstratives designating sensibilia. But they would not contain those subjective elements and constructions implying the mental states of a personal subject» (Banfield 1987: 273) Per quanto la Fludernik giunga a conclusioni diverse, la posizione della Banfield è nel suo modello la prospettiva che introduce il più fertile contrasto, in quanto la stessa Fludernik dedica un interno capitolo alla deissi, proprio per corroborare l’ipotesi di essere andata oltre la, quindi, significativa definizione della Banfield.

sua sottoforma di ‘reflecting’ e fare esperienza di quella che la Fludernik chiama la «ruling consciousness of the textual producer» (51), ovvero di una coscienza in azione35. L’azione, quindi, non è realmente marginalizzata, ma piuttosto il suo significato è da estendersi fino ai bordi della coscienza produttiva del testo: in breve, finché c’è coscienza, c’è esperienza, e viceversa. E finché c’è esperienza c’è azione.

FICTIONAL  MINDS  E  CONTINUING-­‐CONSCIOUSNESS  FRAME  |  SUL  PERSONAGGIO  

Après cette croyance centrale qui, pendant ma lecture, exécutait d'incessants mouvements du dedans au dehors, vers la découverte de la vérité, venaient les émotions que me donnait l'action à laquelle je prenais part, car ces après-midi-là étaient plus remplis d'événements dramatiques que ne l'est souvent toute une vie. C'était les événements qui survenaient dans le livre que je lisais ; il est vrai que les personnages qu'ils affectaient n'étaient pas « réels », comme disait Françoise. Mais tous les sentiments que nous font éprouver la joie ou l'infortune d'un personnage réel ne se produisent en nous que par l'intermédiaire d'une image de cette joie ou de cette infortune ; l'ingéniosité du premier romancier consista à comprendre que dans l'appareil de nos émotions, l'image étant le seul élément essentiel, la simplification qui consisterait à supprimer purement et simplement les personnages réels serait un perfectionnement décisif.

Marcel Proust, Du côté de chez Swann

Fino a qui ho impiegato il termine “coscienza” in un senso non problematico, secondo l’uso disinvolto che la Fludernik ne fa nel suo studio. Tuttavia, non esiste probabilmente argomento più dibattuto nelle scienze cognitive. Intorno a quello che forse il più noto studioso della coscienza, il filosofo della mente americano Daniel Dennett, ha definito come «the last surviving mistery» (1991: 21), si diramano scuole antagoniste fin dalla definizione più generale di cosa si debba intendere per coscienza36. Una posizione concorde                                                                                                                

 

 35 È necessario qui distinguere tra l’idea della Fludernik di una «ruling consciousness» e che ho definito come coscienza in azione e quella, che vedremo nella prossima sezione, di una «fictional minds in action» proposta da Palmer (2004). Mentre la Fludernik si riferisce principalmete all’attività mentale interna di un personaggio o di un narratore, Palmer, come vedremo, amplia notevolmente l’idea di coscienza finzionale alle sue tracce visibili, ossia alle azioni da cui si può risalire alle intenzioni interne. Per una più estesa trattazione si veda, comunque, il prossimo punto dedicato all’idea di fictional mind.

36 La bibliografia a riguardo, inutile dirlo, è sterminata. Segnalo solo pochi recenti lavori che, intorno alla coscienza, sono stati fondamentali per il presente studio. Oltre a Dennett, di cui si veda anche la serie di lezioni all’Insitut Jean-Nicod di Parigi (2005), e ad Antonio Damasio (2000), la cui prospettiva verrà convocata alcune volte lungo questo lavoro, si vedano almeno: per una prospettiva integrativa tra fenomenologia e scienze cognitive (Gallagher 2008: 45-65); per una prospettiva più strettamente fenomenologica sul rapporto tra coscienza e identità (Zahavi 2005); per una raccolta di contributi favorevoli

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