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Venendo dal mare, dalla vecchia cala della Kalsa, si attraversa piazza Ma- rina col superbo palazzo feudale dei Chiaramonte. Si accede poi ad una via stretta e ombrosa, una delle arterie più nobili della Palermo settecentesca, via Alloro, ed è qui che, tra decadenze di guerra e abitazioni occasionali, appare Palazzo Abatellis.

“Città di luce e acqua, aerea e fuggente,

riflessione e inganno, fatamorgana e sogno, ricordo e nostalgia”:1 Palermo

esiste in queste suggestioni, e nelle stratificazioni secolari del suo tessuto si inserisce il palagio gotico-catalano di Matteo Carnilivari, completato sul finire del ’400 con un impianto di fabbrica de- finito già nel 1561 da Tommaso Fazello, “super egregiis exquadrato et ornato

lapide constructis aedibus”.2 Negli anni

immediatamente successivi subisce profonde alterazioni a seguito della sua trasformazione in convento. Danneggia- to dai bombardamenti del 1943, viene consolidato e parzialmente ricostruito. In questo clima di fermento Carlo Scarpa viene invitato in Sicilia quasi a rifondare la sua maturazione: l’isola e la sua capitale, per ragioni culturali, rappresentano una tappa fondamentale che si pone come punto di passaggio obbligato di questo percorso evolutivo. Fu difatti nel 1952 che Roberto Calandra, collaboratore in questa avventura siciliana, visitando la mostra su Toulouse-Lautrec nell’Ala napoleonica delle Procuratie Nuove di Venezia rimane colpito dall’allestimento: “(…) era una bella

giornata d’autunno e c’era un po’ di vento che entrava dalle finestre aperte e agitava i veli bianchi e rossi dell’allestimento. E io pensai: guarda Scarpa! Fa qui una certa cosa, adatta a Toulouse-Lautrec,

mentre ne aveva apprestata un’altra tutta diversa, appropriata alle rigide tavole di Giovanni Bellini”.3 Da qui Scarpa inizia

una relazione umana e professionale che guida il maestro a lavorare per la mostra su Antonello da Messina e la pittura del

Quattrocento in Sicilia presso Palazzo

Zanca a Messina.

Il successo di questo allestimento rap- presenta l’antefatto che spiega l’incari- co palermitano del 1953 con cui gli sarà richiesta la metamorfosi della dimora storica degli Abatellis in pinacoteca: la Galleria Nazionale della Sicilia. L’architetto veneziano, definito da Tafuri “(…) un maestro d’età bizantina

casualmente vissuto nel XX secolo, e che conseguentemente usa scritture attuali per far parlare verità antiche”,4 qui più

che altrove potenzia sia la vitalità della

permanenza architettonica sia quella del

sedime storico di antichissima data. Varcato il portale di fattura catalana, si lascia alle spalle il chiasso della strada per immergersi in una dimensione fatta di calma e di raccoglimento dove i temi principali sono enunciati già dalla corte. Densa di studio e di ricerca, infatti, si presenta come una sala il cui soffitto è il blu del cielo e il pavimento è il verde dell’erba, un’aia domestica che traccia le geometrie di un giardino astratto. La percezione dello spazio è al con- tempo aperto e chiuso e la vibrazione che si avverte è determinata dalla luce del sole che “(…) è l’autentico sovrano

della Sicilia, il sole violento e sfacciato”5

che invade questa terra marcandone bagliori ed ombre.

Rispetto alla natura marcatamente plasti- ca delle modulazioni parietali dell’archi- tettura rinascimentale siciliana (vengono in mente gli stucchi dei Serpotta nell’ora-

Foto Carmelo Provenzani 1

Le geometrie astratte della corte di Palazzo Abatellis colta in una netta luce mattutina

Pagine successive: 2 - 3

Le modanature della fi nestra e gli elementi del portico quattrocentesco inseriti nelle trame di intonaco disegnate da Scarpa

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La Cappella e la luce che dirompe dall’alto illuminando il “Trionfo della Morte” e la dimensione umana colta nel suo vibrato

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Sovrapposizione di piani visivi: il loggiato in avanti e le fi nestre catalane sullo sfondo

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Il salone delle Croci colto nei bagliori della luce esterna che invade lo spazio e fi ltra, mediante i tessuti delle tende, le geometrie della trifora

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Le stanze delle sculture, un gioco di sguardi e di rimandi tra i personaggi che le abitano: Eleonora D’Aragona del Laurana e le

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torio di Casa Professa a Palermo), gli elementi introdotti da Scarpa sono spinti verso un’astrazione e una riduzione del linguaggio, prescindono dall’illuminazio- ne naturale prediligendo il disegno piano e la differenziazione cromatica. Nella preesistenza, invece, le superfici murarie in pietra viva, le modanature e la decorazione delle finestre appaiono sempre connaturate tra loro evidenzian- done la plasticità col diverso grado di reazione alla luce solare.

La sistemazione della corte, dunque, enuncia chiaramente questo principio attraverso varie soluzioni: ad intonaci li- sci, riquadrati attorno alle aperture, delle quali viene lasciata visibile la pietra viva, vengono date tinte con lievi gradazioni dello stesso colore, accordando con il timbro naturale della pietra e l’intensità della luce, un accorgimento vibratile “(…) per non offendere l’occhio con la

monotonia cromatica delle superfici”.6

Le superfici intonacate delle tre facciate del cortile sono solcate da sottilissime

fughe che creano una griglia geometrica appena percettibile, omogenea e leviga- ta: di nuovo l’astrazione del disegno bi- dimensionale si confronta con le ruvide pietre delle murature.

Straordinaria è l’armonia simbiotica che si stabilisce col carattere dell’architettu- ra esistente: le cinque arcate ribassate del portico e quelle a tutto sesto del loggiato superiore, che determinano il quarto lato del cortile, diventano un originale ornamento ed un pretesto per l’ingegno personale di Scarpa. Non per nulla, in un’intervista pubblicata dal

Giornale di Sicilia nel 1967, Walter Gro-

pius disse di aver visto a Palermo “(…) la

migliore ambientazione di museo che mi sia capitato di incontrare in tutta la vita. Palazzo Abatellis è un capolavoro”.

Venendo in Sicilia, Scarpa scopre l’es- senza di un mondo orientale diverso da quello veneziano. “(…) Vide la Zisa con

gli scivoli d’acqua, i marmi e le superfici velate dell’acqua. Elementi e soggetti che lui non conosceva, (…) andò a

Piazza Armerina dove da poco erano appena venuti fuori i mosaici della Villa del Casale, a Gela a vedere le mura. E fu così che conobbe la civiltà greco tardo antica e arabo normanna e si innamorò di certe cose: tra queste l’acqua”.7

La bellezza di certi marmi resi vivi e bril- lanti dal flusso dell’acqua sono la nuova lezione che successivamente il maestro

bizantino avrà modo di sperimentare nel

cortile della Fondazione Querini Stam- palia piuttosto che alla Tomba Brion. A Palazzo Abatellis l’acqua è colta nella sua accezione più intima, diversa dai riflessi e dai giochi di luce della Lagu- na Veneta e più legata alla cultura dei “paradisi” arabi volti alla ricerca della frescura, nel caldo torrido della Sicilia. Qui l’acqua è condotta, dalle pendenze delle bianche fasce di pietra del cortile, fino ad una vasca ribassata che ac- centua, con lieve depressione del pavi- mento, l’asse visivo tra il portico, dove è collocato il vaso di Malaga, e lo scalone di pietra di Carini, sotto il loggiato.

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La suggestione continua e la commi- stione araba rivive ancora nei carat- teri fatimidi delle lastre di marmo che Scarpa inserisce come piani di seduta in due panche in calcestruzzo, sotto il portico dell’atrio d’accesso. Sono due parti di una epigrafe araba del Mille che, sistemate a terra come lunghe sedute per la contemplazione e la meditazione del visitatore, cantano le lodi di Allah e celano una segreta introduzione che sembra dire: “(T’appressa), bacia il

canto di questo (edificio) dopo averlo abbracciato e contempla le belle cose che racchiude”.8

Dalla solarità dell’atrio si entra nelle sale e all’interno si snoda un percorso in cui Scarpa fa un uso raffinatissimo della spazialità esistente ed un meticoloso controllo dei flussi di luce.

Un binomio di spazio e di luce dunque, fondato sul gioco di rapporti in cui a grandi spazi è associata una luminosità diffusa, mentre ad ambienti piccoli cor- rispondono fasci puntuali. Una conca- tenazione che dà vita a una sequenza di spazi compressi e dilatati. La penombra della piccola sala di in- gresso è il preludio alla grande abside della cappella che accoglie Il Trionfo

della Morte. Qui, la luce zenitale, bianca

e diafana, annulla lo spazio dilatandone i margini. “Luce dall’alto, luce buona”, cosi annota il maestro tra i suoi schizzi preparatori per la collocazione del noto affresco quattrocentesco, giunto alla Galleria Siciliana da Palazzo Sclafani, e qui posto con insistenza da Scarpa “(…) in uno sconfinato spazio, desolato

di terrifiche legioni, d’infinite masse, bruegheliane”.9 Sconfinatezza colta

dalla sensibilità di Vincenzo Consolo, ottenuta sapientemente da fenditure nelle pareti laterali della cappella, rie- vocando giochi dal sapore neoplastico e denotando “la lotta impari di Scarpa

contro il corpo di un edificio radicato e forte già di un’esistenza antica (…) un’agguerrita contesa fra un’idea e una sordida presenza di materia”.10

Subito dopo, i vani successivi alla cap- pella costruiscono una cerniera architet- tonica, in cui alla compressione spaziale corrisponde una riduzione della lumino- sità. Lo sguardo di Eleonora d’Aragona del Laurana, stagliandosi con chiarezza su uno sfondo verde, traccia una pro- spettiva visuale che rimanda ad altre sale, alle madonne di Antonello Gagini. Un itinerario sentimentale, più che cro- nologico, fatto di giochi di sguardi, di rimandi come riflessi di specchi colpiti dal filo immateriale della luce.

Anche al piano superiore le pause om- brose, scandite dagli ambienti compres- si, anticipano il grande salone delle croci e qui il ruolo della luce è affidato alle tri- fore i cui infissi sono collocati su un piano distinto, scanditi in quarti perché posso- no lasciar “vedere anche all’interno l’or-

namento delle trifore”. Un atteggiamento

di rispetto e di elogio della preesistenza autentica che prende le distanze da altre scelte che Scarpa farà qualche anno dopo al Museo di Castelvecchio. L’esposizione occupa un ideale involu- cro del tutto separato rispetto ai confini materiali delle pareti del palazzo rifiutan- do la coincidenza biunivoca fra massa costruita e spazio fisico.

Si introduce così una serrata dialettica tra involucro ed invaso in cui anche lo sguar- do magnetico dell’Annunziata di Antonello da Messina, posta in posizione ruotata rispetto alla stanza che l’accoglie, sembra aderire a questo modus operandi. L’esplosione della doppia altezza sul

Trionfo della Morte, a conclusione del per-

corso, è la summa del sapiente dialogo fra trascendenza ed immanenza. Dal vuoto di un piano sospeso, demarcato da un lungo cordone marinaro, si riosserva l’ab- side inondata di luce; la dimensione divina scende fino alla statura umana e la morte terrena, vestita come “un cavallo verda-

stro, il cui cavaliere aveva nome Morte; l’Inferno lo seguiva; gli fu data potestà di portare lo sterminio”,11

domina l’illusioni- smo di una quadratura che è reale.

1 Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Monda-

dori Editori, Milano, 1994.

2 Tommaso Fazzello, De Rebus Siculis Decades

Duae, Palermo, 1562.

3 Roberto Longhi, Frammento siciliano in Paragone

n.47, 1953.

4 Manfredo Tafuri, Storia dell’Architettura Italiana

1944-85, Torino, 1986.

5 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltri-

nelli, Milano, 1959.

6 Giorgio Vigni, Ricordo di un lavoro con Scarpa. La

sistemazione della Galleria Nazionale della Sicilia a Palermo, in Bollettino d’arte, XL, 1954.

7 Antonino Marino, Intervista a Roberto Calandra

in Un museo di Carlo Scarpa per Messina, Officina

Edizioni, Roma, 2003.

8 Sergio Polano, Carlo Scarpa: Palazzo Abatellis,

La Galleria della Sicilia, Palermo 1953-54, Electa,

Milano, 1989.

9 Vincenzo Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mon-

dadori Editori, Milano, 1998.

10 Paolo Morello, Il disegno delle pietre, in Sergio

Polano, Carlo Scarpa: Palazzo Abatellis, Palermo

1953-54, Electa, Milano, 1989.

11 Giovanni Evangelista, Apocalisse, a cura di Ce-

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Andrea Bocco Guarneri

Appunti sul rapporto tra Bernard Rudofsky e il