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2. Gli altri personaggi e la Storia: approcci e reazioni

2.1 Il ruolo dell’ebraismo: una realtà da nascondere

2.1.2 Il caso di Davide Segre

Ebreo è pure colui che potrebbe essere definito il “terzo” protagonista del romanzo, una figura staccata rispetto al corso principale degli avvenimenti, che compare, scompare e ricompare più volte, mutando identità anagrafica e – metaforicamente parlando – volto ad ogni sua apparizione sulla scena. Il suo nome è tripartito: Carlo

13 Ivi, pp. 337-338.

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Vivaldi, studente borghese in fuga con documenti falsi; Piotr, partigiano anarchico prestato malvolentieri alla violenza; Davide Segre, intellettuale solitario in bilico tra utopia e disperazione, idealismo e nichilismo. Indubbiamente non si tratta di uno dei tanti personaggi di contorno che popolano La Storia, bensì di una figura complessa, poliedrica, contraddittoria, che merita le molte pagine a lui dedicate dalla Morante; ciò è vero soprattutto verso la fine del romanzo, quando Davide affida agli altri il messaggio elaborato in anni di sofferta riflessione sulla storia e l’esistenza, e infine naufraga nelle profondità del suo intimo tormentato. A riprova della sua importanza, il critico Vittorio Spinazzola afferma:

Per parte sua la scrittrice partecipa assiduamente alle vibrazioni d’anima che scuotono i personaggi, non negando a nessuno comprensione pietosa; e affida all’anarchico poeta Davide, il borghese che si perde nello sforzo di rinnegare la sua classe, un messaggio di palingenesi universale. Ma nelle parole stesse di Davide la polemica contro l’insensatezza della storia trapassa in un accoramento doloroso di fronte al mistero dell’esistenza, contro cui ogni protesta della ragione si infrange. Rimane l’ansia di un risorgimento morale, che ponga fine al caos dei sentimenti in cui la civiltà capitalistica affonda15.

Per comprendere il percorso di un individuo, appare di capitale importanza risalire alle sue origini, scorgendo continuità e discontinuità rispetto a uno stato iniziale sulle cui basi si sono innestate le successive evoluzioni. Il primo orizzonte di Davide Segre è la sua famiglia, benestante ed ebraica: lì vanno cercate, almeno in parte, le motivazioni della sua visione del mondo, radicalmente contestataria e alternativa rispetto a quella acquisita. Appare chiaro che il giovane è un personaggio in fuga dalla sua identità, mai accettata pienamente. Innanzitutto la stirpe ebraica nella sua mente è sinonimo di tradizione borghese, e dunque di quel Potere che per lui ha contribuito alla degenerazione della vita umana, imponendo il principio dell’utile economico, che tutto calpesta per raggiungere i suoi fini, e amputando la “coscienza totale”, che esalta invece il valore intrinseco di ogni forma di vita e la divinizza. La recriminazione però termina qui: in Davide non si possono scorgere toni che sfocino nel razzismo, nemmeno rivolti alla propria ascendenza, perché la sua prospettiva non li può assolutamente ammettere.

«Io sono ebreo!»

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Frastornati dalla sua uscita, i tavolanti d’intorno staccarono per poco gli occhi dalle carte, mentre Clemente lo sogguardava storcendo le labbra. «E che male c’è a essere ebrei?» disse con dolcezza l’ometto dagli occhi sanguinosi […]. «Non era questo, che volevo dire», protestò Davide arrossendo […] «razze, classi, cittadinanze, sono balle: spettacoli d’illusionismo montati dal Potere. È il Potere che ha bisogno della Colonna Infame: “quello è ebreo, è negro, è operaio, è schiavo… è diverso… quello è il Nemico!” tutti trucchi, per coprire il vero nemico, che è lui, il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio… Si nasce ebrei per caso, e negri, e bianchi per caso […] ma non si nasce creature umane per caso! […] Dall’alga all’ameba, attraverso tutte le forme successive della vita, lungo le epoche incalcolabili il movimento multiplo e continuo della natura si è teso a questa manifestazione dell’unica volontà universale: la creatura umana! […] E nessuna differenza esiste, nella realtà, fra l’una e l’altra creatura umana. Bianchi neri rossi o gialli, femmine o maschi, nascere creatura umana significa essere cresciuti al grado più alto dell’evoluzione terrestre! È questo il segno di Dio, l’unico stemma reale dell’uomo: tutti gli altri stemmi, onori e galloni sono dei brutti scherzi, un delirio de pestilensia: chiacchiere e patacche…»16.

A questo punto pare significativo procedere ad un accostamento tra vicende private e generali, tra famiglia e Storia. Il padre di Davide, in virtù della buona posizione economica e sociale acquisita, ci viene descritto come un uomo che esercita un potere vessatorio nei confronti dei sottoposti, considerandoli non come “creature umane”, bensì come esseri inferiori da dirigere con mano ferma e senza lesinare forme di violenza verbale e psicologica. Negli anni della guerra, proprio quest’uomo cesserà di manovrare gli altri per essere manovrato, a sua volta, da un Potere di gran lunga più grande e dannoso del suo: quello, cioè, che condurrà lui e la famiglia verso le camere a gas, dove individui e stirpi non più gradite conoscono l’effetto del gas fumigante Zyklon B e finiscono nel “mucchio”, per usare un’espressione dello stesso Davide. Il mucchio rappresenta l’inconsistenza personale, lo svuotamento della ricchezza individuale, la reificazione della vita e perciò il suo annientamento; l’esatto contrario della concezione che il giovane ha di ogni esistenza umana, impronta divina sulla Terra, da esaltare e salvaguardare in quanto tale. Riguardo a lui, si tratta di un “salvato” che è scampato alla strage familiare con le proprie forze, fuggendo sia dal destino di morte predispostogli dal Potere ufficiale, sia da padre, madre e sorella, che quel potere – chi più consapevolmente, chi in modo più ingenuo – pure in minima parte avevano contribuito a perpetuare, per poi rimanerne vittime come gli altri. Un destino separato, dunque, che può essere letto simbolicamente. Davide infatti critica fin da subito il

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contesto che lo vede bambino e adolescente, ne vive intimamente le contraddizioni, vi si oppone, e il medesimo spirito di ribellione lo sprona a fuggire dal treno in corsa verso Auschwitz; la sua famiglia invece rimane su quel convoglio, immobile e rigida come era stata nel resto della vita. Pare quasi che in Davide l’orizzonte di speranza, il sogno di un cambiamento e la spinta vitalistica che ne deriva, abbiano la meglio e lo inducano al rischio; la fortuna è con lui e Davide potrà continuare a vivere, riflettere, elaborare la sua visione del mondo e ricercare le possibili vie di fuga nel labirinto assai intricato che ha di fronte a sé.

Resta il fatto che la cattura e la deportazione, subite in quanto ebreo, scuotono il giovane Segre nel profondo. Ciò è chiaro fin dal suo arrivo allo stanzone di Pietralata, quando egli inizia a raccontare mezze verità sul suo conto, venendo però chiaramente tradito da una fisionomia «segnata da qualcosa di corrotto, che ne pervertiva i lineamenti dall’interno. E questi segni, ancora intrisi di uno stupore terribile, parevano prodotti […] da una violenza fulminea, simile a uno stupro»17

. Alla fine, il giovane mantovano viene spinto a parlare da Nino, che più di altri è incuriosito dal suo evidente segreto; e così si viene a sapere che Davide ha trascorso settantadue ore in una buia e soffocante “anticamera della morte” in attesa del convoglio verso la Germania, ma il reale motivo viene per ora celato: egli afferma di essere stato rinchiuso in quanto “imputato politico”, per via della propaganda avversa al nazifascismo, e non già per la sua ascendenza etnica. Ci troviamo nuovamente di fronte alla strategia del nascondimento, già incontrata nei casi di Nora e Ida; in tal modo i personaggi occultano un elemento personale ritenuto scomodo, contrario all’immagine che vorrebbero offrire di sé, le Ramundo perché timorose di essere stritolate dalla società18, Segre perché in conflitto con la tradizione familiare e con ciò che essa simboleggia. È interessante notare che lo svelamento dell’identità passa in entrambi i casi per le parole colorite di Nino, l’unico personaggio che intuisce il segreto profondo della madre e del nuovo amico, e non ne fa certo un dramma.

«DAVIDE SEGRE! So’ nomi de giudio», lui spiegò. E aggiunse, in tono fiero e

17 Ivi, p. 199.

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Ricordiamo che Ida si proclama pubblicamente ebrea solo di fronte a una sua pari, in un momento di cedimento della ragione (l’episodio della partenza dei treni verso Auschwitz), non mai al cospetto di chi non lo è – e cioè la maggior parte delle sue conoscenze. Per questo motivo giungerà a negare il fatto pure di fronte al figlio, ma invano.

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compiaciuto:

«Io ce lo sapevo da un pezzo che lui era giudio».

Qui, in un lampo, qualcosa di buffo e di curioso gli si riaffacciò al pensiero, arrestandolo sulla porta e stuzzicandolo, con l’ansia di una comunicazione indifferibile: al punto che, pur nella sua fretta di partire, corse indietro quasi zompando: «A’ mà, te devo dì una cosa», proferì sogguardando Ida con divertimento, «però è riservata. Te la devo dì da solo a solo».

Che cosa mai poteva essere?! Ida non sapeva che diavolo aspettarsi da lui. Se lo portò nella cameretta, richiudendone l’uscio. Lui la trasse in disparte nell’angolo, bollendo d’impazienza strepitosa:

«Lo sai che m’hanno detto, a’ mà?!» «? ...»

«Che tu SEI GIUDIA». «… Chi te l’ha detto!»

«Eh, da mó che ce lo sapevo, a’ mà! Quarcheduno qua de Roma, me l’ha detto. Ma io, chi è, non te lo dico».

«Però non è vero! Non è vero!!»

«… A’ mà!! che stiamo ancora ai tempi de Ponzio Pilato? Che fa, se sei giudia?» Ci pensò un istante, e poi soggiunse:

«Pure Carlo Marx era giudio».

«…..» Ida, senza fiato, tremava come una fettuccia al vento. … «E papà? lui che era?»

«No. Lui no».

Su questo, Ninnarieddu stette un poco a riflettere, tuttavia senza troppa applicazione: «Le femmine», osservò, «nun se vede, quanno so’ giudie. E invece ai maschi je se vede, perché da regazzini je sgusciano la punta dell’uccello».

Allora concluse, nel modo di una constatazione indifferente: «Io, nun so’ giudio. E nemmanco Useppe»19.

Davide Segre comprende la prospettiva di vita e la visione del mondo di Nino, e per certi versi le riconosce simili alle proprie; per questo motivo il figlio di Ida è il primo “estraneo” a venire a conoscenza della sua origine reale, rappresentando la sua amicizia una sorta di viatico nel processo di auto-accettazione del giovane, che alla fine del romanzo non teme più di rivelare la sua identità di fronte a tutti. Anzi, come abbiamo visto, Davide se ne serve per costruire il suo discorso rivolto all’umanità – all’umanità spicciola e distratta racchiusa in un’osteria – affinché tutti si pongano sulla via dell’emancipazione, aprendo gli occhi sul valore intrinseco di ogni vita, al di là delle divisioni e dei sensi di colpa fomentati dal Potere allo scopo di tramandarsi nel tempo.

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