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I discorsi primo-novecenteschi di Giuseppe Ramundo

2. Gli altri personaggi e la Storia: approcci e reazioni

2.3 L’anarchismo ritornante: analogie e differenze ai due capi del romanzo

2.3.1 I discorsi primo-novecenteschi di Giuseppe Ramundo

Il primo anarchico a fare capolino nel romanzo è il padre di Ida. Giuseppe Ramundo è la rappresentazione del fermento eversivo che caratterizza i primissimi decenni del Novecento; i suoi slanci ideologici sono i medesimi che spinsero le classi lavoratrici a movimentare, con alterne fortune, la scena socio-politica italiana dell’età liberale, fino all’avvento del fascismo e al ripristino dell’ordine da parte dei ceti dominanti. Già dall’ultimo scorcio del secolo precedente, il mondo operaio e contadino aveva iniziato a maturare una sempre più scottante consapevolezza critica dell’ingiustizia sociale di cui era vittima, frutto di un opprimente sfruttamento lavorativo e di una sistematica negazione dei diritti civili da parte dei “padroni”. Un ruolo fondamentale in tale presa di coscienza era stato svolto dai teorici del socialismo, intellettuali progressisti che, sollecitati dai nuovi scenari apertisi con la rivoluzione industriale, avevano soffermato l’attenzione sulle classi subalterne e proposto delle soluzioni più o meno radicali ai loro problemi, attirandosi simpatie progressivamente crescenti presso gli strati popolari. Solitamente i lavoratori, analfabeti e abbruttiti dalla miseria, non disponevano dei mezzi indispensabili per comprendere e interpretare da sé le nuove idee: in quei contesti, la cinghia di trasmissione tra l’astrattismo intellettuale e la fatica quotidiana era spesso costituita dalla piccola borghesia, la quale risultava sicuramente più colta e autonoma delle classi umili, ma in fondo ne condivideva la speranza di emancipazione, o quanto meno era consapevole di poterne trarre una qualche forma di vantaggio. Per questi motivi la propaganda socialista o anarchica non di rado proveniva proprio da lì.

Il nostro Giuseppe Ramundo è per l’appunto un esponente di questa piccola borghesia, nella sua qualità di maestro elementare stipendiato dallo Stato. A dispetto dell’istituzione che gli garantisce un lavoro più che dignitoso, egli continua fino a tarda

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età a sostenere il valore degli ideali anarchici, di cui si era perdutamente invaghito in gioventù. A differenza dei lavoratori, però, Giuseppe non ha nulla da guadagnare dall’adempimento di una rivoluzione che sovverta l’ordine esistente; anzi, si potrebbe dire che non disprezza affatto la posizione acquisita, pur lamentandosi talvolta di doversi autolimitare, appunto per il ruolo pubblico di cui è investito, nel suo anelito istintivo a propagandare la causa eversiva. In lui l’adesione all’anarchismo ha un aspetto, per così dire, romantico: è l’attaccamento ostinato ad una fase felice della vita, ad alcune letture rimaste impresse nella memoria, a un senso di rivalsa interiore contro la società tradizionale, che però non trova alcuna via di attuazione nella realtà.

Il padre di Ida si ritrova a fare l’insegnante in seguito ad un incidente occorsogli da bambino, quando un colpo di zappa sulla caviglia lo aveva reso storpio e perciò inadatto ai duri lavori di campagna; per questo motivo i genitori si erano sacrificati per farlo studiare presso un istituto retto da preti, di tanto in tanto ricevendo l’aiuto economico del padrone terriero cui erano sottoposti. Tale esperienza aveva acuito nel giovane Giuseppe una certa ripulsa verso l’autorità e dunque una forma di insofferenza nei confronti delle figure che la rappresentavano nella società del suo tempo, su tutti agrari e clero. A dar man forte a questi sentimenti di ostilità avevano provveduto i volumi scritti da personalità quali Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Errico Malatesta e altri anarchici, scovati in maniera imperscrutabile; tanto che:

[…] su questi [testi] aveva fondato una sua fede ostinata, però sprovveduta, e obbligata a rimanere una sua propria eresia personale. Difatti, professarla gli era negato, perfino fra le mura di casa sua35.

In effetti le tendenze eversive di Giuseppe, per quanto riducibili a idee fantasiose piuttosto sterili, trovano un nemico irriducibile nella moglie Nora e nella sua idea fissa che ogni slancio euforico debba essere represso entro le pareti domestiche, per conservare all’esterno un’impeccabile immagine familiare, il buon nome e la rispettabilità. Ciò induce Giuseppe a trovare una valvola di sfogo nel bere; ed è proprio nella condizione alticcia che si lascia andare a lunghi e appassionati monologhi inerenti alla politica: in preda ad un’agitazione quasi teatrale, durante la loro esposizione Giuseppe si rimprovera con asprezza di essere uno stipendiato dello Stato e di dedicarsi

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all’insegnamento tradizionale piuttosto che alla predicazione dell’anarchia, a suo giudizio l’unica prospettiva utile a sottrarre gli uomini del futuro allo sfruttamento in tempo di pace e di guerra; infine inanella citazioni su citazioni sui temi dell’autorità e della schiavitù, delle libertà da prendersi con la forza, dell’implacabilità della rivoluzione come attacco e distruzione di qualsiasi forma di potere politico ed economico, e nella fattispecie dello Stato liberal-borghese e delle classi proprietarie di cui esso è diretta emanazione. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Giuseppe sostiene la teoria del rifiuto dell’obbedienza da parte dei soldati chiamati alle armi per servire la Patria, ma i suoi discorsi meramente domestici riescono a preoccupare soltanto la piccola Ida, timorosa che qualche decreto emanato dai “Poteri Pubblici” possa oltrepassare i muri e portarle via l’amatissimo padre da un momento all’altro. I veri disfattisti, coloro che davvero vengono arrestati per l’esposizione delle loro idee critiche, stanno altrove, nelle pubbliche piazze o in luoghi di ritrovo sociale; alla fine del conflitto, invece, si trasferiscono nei campi attorno a Cosenza, a fomentare la rivolta contadina contro i latifondisti e l’occupazione delle terre incolte, dopo anni dominati da fame ed epidemie.

Il maestro invece non agisce mai a viso scoperto, e non si smentisce nemmeno quando il pensionamento gli permetterebbe una maggiore libertà nei comportamenti. Dal momento del ritiro, la sua “eresia personale” si esercita in un’osteria frequentata da compagni che la Morante definisce “anarchici della domenica”. Essi formano quasi un circolo carbonaro di stampo ottocentesco, composto però da iniziati che preferiscono intonare canzoni ribelli davanti ad un bicchiere di vino, piuttosto che pianificare la prassi rivoluzionaria tanto invocata. E si accorgono troppo tardi che di fuori la situazione sta mutando velocemente: la reazione avanza, e i vecchi padroni ristabiliscono l’autorità perduta ricorrendo a forze fresche, prelevate dalla gioventù. Alla fine la “rivoluzione” avrà sì come simbolo il nero, e tuttavia non sarà il colore della bandiera dell’anarchia, bensì quello delle camicie indossate dagli aderenti alle squadracce fasciste, abilmente arruolate dagli agrari per attuare la vendetta.

[…] l’avvento della «rivoluzione» fascista […] lo faceva invecchiare, peggio d’una malattia. Vedere questa parodia cupa trionfare al posto dell’altra RIVOLUZIONE da lui sognata (e che, da ultimo, pareva già quasi alle porte) per lui era come masticare ogni giorno una poltiglia disgustosa, che gli voltava lo stomaco. Le terre occupate, che ancora resistevano nel 1922, erano state ritolte ai contadini con brutalità

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definitiva, e restituite ai possidenti soddisfatti. E nelle squadre che rivendicavano i diritti di costoro, c’erano (ecco il peggio) tanti figli di mamma poveri e zingarelli non meno degli altri, e imbestialiti con la propaganda o con le paghe per aggredire dei poveri loro uguali. A Giuseppe sembrava di recitare una commedia in sogno. I personaggi a lui più odiosi della città (ai quali, in anni recenti, la paura aveva fatto riabbassare un poco il capo) adesso andavano in giro provocanti a pancia in fuori, come sovrani reintegrati nel dominio, ossequiati da tutti, fra le mura tappezzate dei loro manifesti …36

Questo fatto costituisce un pesante cruccio negli ultimi anni di vita di Giuseppe, il quale, prima di morire a causa del troppo bere, deve anche sopportare la perdita dei compagni, forse vittime delle denunce di un “fratello” traditore e perciò spediti al confino. Per lui e per le sue fantasie rimaste allo stadio fanciullesco non c’è più tempo; la Storia ha preso una strada radicalmente diversa e la nuova dittatura mussoliniana, ennesima reinvenzione del potere al cospetto di un’emergenza da sanare con mezzi radicali, sembra ammaliare e fare proseliti ovunque, come fosse un dono della Provvidenza.