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Caso Google France vs Louis Vuitton Malletier

Nel documento La responsabilita dei motori di ricerca (pagine 67-72)

Prendendo in esame la tematica della violazione dei diritti della proprietà intellettuale da parte dei motori di ricerca, un caso significativo che merita un’analisi è quello di Google contro la società Louis Vuitton Malletier, titolare del marchio comunitario «Vuitton» e dei marchi nazionali francesi “Louis Vuitton” e “LV”.

Nella fattispecie, il noto motore di ricerca Google venne citato in giudizio per aver concorso nella contraffazione dei marchi registrati dal titolare.

La società Vuitton, nota per il commercio di borse di lusso e altri prodotti di pelletteria, aveva constatato che, inserendo parole-chiave nel motore di ricerca, corrispondenti al marchio di loro titolarità, nella sezione dei “link sponsorizzati”, apparivano alcuni collegamenti verso altri siti web, che offrivano sul mercato imitazioni di prodotti originali.

Per tali motivi la Vuitton, agli inizi del 2003, citò in giudizio Google, al fine di far accertare che quest’ultima, consentendo i collegamenti con i siti che offrivano prodotti non originali, stava arrecando al marchio Vuitton un significativo pregiudizio economico.

Con la sentenza del Tribunale di Parigi, confermata poi dalla sentenza della Corte di Appello, il motore di ricerca Google venne quindi condannato per aver concorso alla contraffazione dei marchi della Vuitton.

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In sede di ricorso per cassazione, la Cour de cassation decise però di sospendere il giudizio e proporre ricorso in via pregiudiziale al giudice dell’Unione europea89.

3.3.1 La decisione della Corte di Giustizia

Con la sentenza90 del 23 maggio 2010 venne posto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di esprimersi in merito ad alcune questioni pregiudiziali. Nella prima questione la Corte di giustizia si interrogava se il servizio di posizionamento e le attività correlate poste in essere dal motore di ricerca integrassero un uso del marchio, ai sensi dell’art. 591 della Direttiva 89/104/CEE

sul marchio d’impresa e dell’art. 992 della Direttiva 40/93/CE sul marchio

89 A. Montanari, Contratto di AdWords e profili di responsabilità. Osservazioni a margine di Corte di giustizia 23 marzo 2010, cause riunite da C-236/08 a C-238/08, in Diritto del commercio internazionale, 2011, p. 524 e ss.

90 Corte di giustizia UE, 23 marzo 2010, nei procedimenti riuniti da C-236/08 a C-238/08, Google France SARL, GoogleInc. contro Louis Vuitton Malletier (C-236/08) - Google France SARL controViaticum SA, Luteciel SARL (C-237/08) - Google France SARL contro Centre national de recherche en relations humainesSARL, Pierre-Alexis Thonet, Bruno Raboin, TigerSARL (C-238/08). 91 L’art. 5, paragrafo 1 della direttiva 89/104: Diritti conferiti dal marchio di impresa», dispone

quanto segue: Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. II titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

b) un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa.

92 Art 9, paragrafo 1 direttiva 49/94/CE, Il marchio comunitario conferisce al suo titolare un

diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare in commercio:

a) un segno identico al marchio comunitario per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

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comunitario e, in caso di risposta affermativa, se il titolare di un marchio ha il diritto di vietarne l’uso.

Le direttive sopra citate, nel caso in cui vi fossero condizioni specifiche, autorizzavano i titolari del marchio a vietare che i terzi potessero fare uso di segni identici o simili al loro marchio per prodotti o servizi equivalenti a quelli per i quali essi sono stati registrati.

La Corte riconobbe che gli inserzionisti, se acquisivano il servizio di posizionamento e se sceglievano tra le parole chiave un simbolo simile o addirittura identico a quello di altri marchi, facevano in effetti uso di questo simbolo nell’ambito delle proprie attività commerciali, proponendo prodotti o servizi identici, anche se circoscritto al contesto specifico del commercio elettronico.

La Corte quindi aggiunse che: si ha uso “per prodotti o servizi” anche nel caso in cui, attraverso il proprio uso del segno identico al marchio come parola chiave, l’inserzionista non miri a presentare i propri prodotti o servizi agli utenti di Internet come un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio, ma, al contrario, intenda indurre in errore gli utenti di Internet sull’origine dei propri prodotti o servizi, lasciando credere loro che gli stessi provengono dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente legata a quest’ultimo93.

Allo stesso modo non si poteva considerare che il prestatore di servizi, offrendo il servizio di posizionamento che consente agli inserzionisti di selezionare, come parole chiave, segni identici ad altri marchi, memorizza tali segni e quando

b) un segno che a motivo della sua identità o somiglianza col marchio comunitario e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio comunitario e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione tra il segno e il marchio;

c) un segno identico o simile al marchio comunitario per prodotti o servizi che non sono simili a quelli per i quali questo è stato registrato, se il marchio comunitario gode di notorietà nella Comunità e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio comunitario o reca pregiudizio agli stessi.

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visualizza a partire da questi ultimi gli annunci dei propri clienti, faccia un «uso» di tali segni94.

La Corte precisò che il motore di ricerca Google, tramite il servizio di posizionamento, permetteva agli inserzionisti l’uso di segni identici o simili a marchi, senza però fare un uso diretto di tali segni.

Per tale ragione il giudice dell’unione europea escluse in capo al motore di ricerca Google, la violazione del diritto di marchio ai sensi dell’art. 5 della Direttiva 89/104 e dell’art. 9 del regolamento n. 40/94.

Nella seconda questione pregiudiziale la Corte di Giustizia si interrogava se il prestatore del servizio di posizionamento a pagamento, potesse essere configurato come fornitore di un servizio della società dell’informazione ai sensi dell’art. 14 della direttiva E-Commerce e, in quel caso, se potesse usufruire delle esenzioni di responsabilità, che lo stesso articolo prevedeva.

In quel caso non sarebbe pertanto stato possibile poter parlare di una responsabilità, se non fosse stato avvisato dal titolare del marchio, che si stava facendo un uso illecito del segno da parte dell’inserzionista.

Come analizzato nel capitolo precedente, la responsabilità degli Internet Service Provider trova fondamento nella sezione 4 della Direttiva 2000/31, allorchè gli art. 12-15, prevedono determinate ipotesi di limitazione di responsabilità per prestatore di servizi.

La Corte, preso atto che il servizio di posizionamento offerto dal motore di ricerca Google è riconducibile alla disciplina dell’art. 14 della Direttiva 2000/31, che tratta della memorizzazione permanente di informazioni fornite da un destinatario del servizio, ha statuito che, perché il provider potesse beneficiare delle esenzioni di responsabilità previste dalla norma, doveva verificarsi il caso che il suo comportamento fosse circoscritto a quello di un prestatore intermedio, ossia come quello di un soggetto in una posizione “neutrale” nel trasmettere i dati.

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Infatti, con riferimento al quarantaduesimo considerando della Direttiva 2000/31, la Corte ha affermato testualmente che: le deroghe di responsabilità previste da tale direttiva riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione sia di ordine «meramente tecnico, automatico e passivo», con la conseguenza che detto prestatore «non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate»95.

Sulla scorta di quanto sopra pertanto, al giudice nazionale spettava quindi il compito di esaminare se il motore di ricerca avesse avuto un ruolo “neutrale” e per farlo doveva tenere conto di due particolari aspetti:

- il primo quello che, nonostante il servizio di posizionamento fornito da Google per gli inserzionisti fosse a pagamento, non poteva avere come effetto l’esenzione delle deroghe in materia di responsabilità previste dalla Direttiva 2000/31/CE; - il secondo quello che la coincidenza della parola chiave selezionata dal motore di ricerca e i termini di ricerca inseriti da un utente non era una condizione sufficiente a provare che Google ne fosse a conoscenza.

In conclusione la Corte di Giustizia rilevò che l’esenzione di responsabilità, così come prescritto dall’art.14 si poteva applicare al motore di ricerca, solo in considerazione del tipo di ruolo di quest’ultimo, ossia se nella trasmissione dei dati aveva assunto una posizione di tipo “attivo” o “passivo”.

La Corte pertanto stabilì che, se il provider avesse avuto un ruolo “neutrale”, allora in quel caso non gli poteva essere ascritta alcuna responsabilità per i dati che aveva memorizzato sulla richiesta dell’inserzionista.

La responsabilità sarebbe emersa soltanto se il provider fosse concretamente venuto a conoscenza dell’illiceità dei dati che venivano inseriti e non avesse

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provveduto tempestivamente alla loro rimozione o almeno si fosse attivato per disabilitarne l’accesso96.

Nel documento La responsabilita dei motori di ricerca (pagine 67-72)

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