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Il cavaliere della valle solitaria Fortini tra solitudine e comunanza Gianni D’Elia

Nel documento Fortini traduttore e la cultura tedesca (pagine 85-87)

Forse la vera eredità di Franco Fortini, nella poesia contemporanea e nella storia contemporanea presente e futura, è qualcosa di così sco- modo che assomiglia alla verità. Ce lo disse ad vocem, in una sera di maggio del 1980: «I vivi che verranno già ci giudicano in noi…». E si tratta di una verità poco praticata: il dissenso. Una verità che Fortini riassume benissimo nell’avvertenza del 1985 alla nuova edizione ac- cresciuta del suo irriverente volume di prose politiche ed epigrammi,

L’ospite ingrato: «Non è un capire vero quello che non vuole e non

sa convertirsi in un fare». L’idolatria attuale della letteratura e della poesia fini a sé stesse e al mercato, sono l’esatto opposto di quella sua

convinzione, e, forse, ancor più, tigna rivoluzionaria, per la quale lo

abbiamo amato e lo rimpiangiamo, oggi che il ripudio di ogni risen- timento morale e politico è l’ideologia dominante sui fogli che una volta chiamavamo borghesi.

È quella verità rivoluzionaria che Fortini cercava dentro e fuori di sé, estranea al progressismo positivista e idealistico, e che Luca Len- zini ha ben sintetizzato nel suo saggio Le parole della promessa, nel Meridiano dei Saggi ed epigrammi di Fortini, stampato nel 2003 da Mondadori: «la perenne ribellione al “così è”». O nell’explicit degli epigrammi a Vittorio Sereni (sempre nell’Ospite ingrato, 136): «vero dio vero uomo vera storia».

Una ricerca civile del vero, e un’insistenza del dubbio. Ci sono pa- gine più emozionanti, per ogni lettore coinvolto come attore sociale, cosmico addirittura, come nel frammento in prosa che precede gli

Epigrammi per Vittorio, il 135, rivolto a un giovane che lo avvicina

alla fine di una lezione, nel tempestoso anno 1977, che ripeterà am- plificati gli «stessi vecchi errori da cui non si riuscì a preservare i suoi fratelli maggiori» del Sessantotto, catturati nell’eterno ricorso della recita ribellista (Gioventù e mercato):

e io sarò finalmente detestato da lui perché non saprò dirgli che cose tronche e disamorate e nemmeno additargli un luogo di azione e amore perché è giu- sto sia così, non dev’essere nessun rapporto personale o nemmeno nessuna individuale passione ad accompagnare un giovane, ma che dico, chiunque, al luogo solitario eppure visibile a tutti che, una volta raggiunto, è luogo di partenza e di ritorno per ogni azione, impresa, iniziativa e che anzi la garantisce; il giovane che mi avvicina, in realtà cerca di avvicinarsi a quel luogo, che non è né interiore né esteriore, non è protetto, è lo spazio da cui ci si può orientare sulle più antiche come sulle più future e remote possibilità degli uomini, è una disposizione che anche nella peggiore miseria e oscurità

permette di riconoscere, in chi l’abbia conosciuta, i propri compagni; e non so dire nient’altro2.

Invece sapeva dire e sapeva raccontare molto, recitare a memoria intere poesie, per ore, eccitando o frustrando i suoi giovani compa- gni, perché oltre alla solitudine indicata come porto della verità da cercare, c’era la comunanza, magari dolce e magari aspra, difficile, come quella con gli amici e rivali di «Officina», il gruppetto degli altri poeti rivoluzionari del secondo Novecento italiano, Pasolini e Roversi soprattutto. E Leonetti, Romanò, Scalia, Volponi. Interscam- bio, valore e cortesia stilnovisti, confronto e anche scontro.

Lo rifacemmo con la rivista «lengua» (1982-1994), e con la loro spinta, con la loro conversazione attiva. Tentammo. E gli amici sono fonte di bellissime poesie, in Fortini, come quella del 1957 che antici- pa la fine di «Officina» (Agli amici, appunto): divisi e uniti da Poesia

ed Errore, Passione e Ideologia, eredi dell’antidualismo di Baudelai-

re: «uno qua, uno là, per la discesa». Tra Spleen e Ideale, Apocalisse e Palingenesi. È anche lì che dobbiamo guardare, in quel coro leopar- diano, nella diatriba di quella utopia combattiva, in quel «realismo ideologico, di pensiero», secondo le parole del 1960 di Pasolini, a chiusura appena avvenuta, o in quel realismo allegorico di Fortini, o nel realismo poematico di Roversi, al di là di ogni soggettivismo dualistico o alternativo, per ritrovare quella comunanza di intenti e di filosofia attiva.

Un coro di marxisti eretici, venato di sincretismo millenarista. In chiusura, c’è un altro testo assai emozionante, sempre del 1977, nel ricchissimo libro incompiuto Un giorno o l’altro, uscito postumo nel 2006 da Quodlibet, che raccoglie editi e inediti dal ’45 agli anni ’80; si intitola Ultimo dell’anno (pp. 513-514), dove Fortini si chiede chi è stato e chi è, a sessant’anni, rispondendosi che è chi è stato, sfu- mando la biografia in racconto delle ragioni incognite: «Non so chi sono ma cerco di capire chi sono stato, ossia in quale rete di storia e di società mi sono trovato a vivere». E risponde alla fine citando il cubano José Martí: «La verità e la tenerezza non passeranno. La verità e la tenerezza, contrapposte e unite». È questo il debito di ri- conoscenza che abbiamo con Fortini, oltre alla gratitudine personale

2 Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano

per il dialogo schietto, le lettere, le telefonate, i consigli, le recensioni, le poesie e i libri con dedica, e perfino una risposta in versi.

Durezza del vero e riguardo dell’attenzione. Intima grazia. Basta rileggere Da una poesia di Noventa, del 1982. Da soli. Verità e tene- rezza che riempiono le poesie di Fortini, a cui torniamo spesso, come si torna a un amico che sprona e che rincuora, da Ragione degli anni a La gronda, da Un’altra attesa a Traducendo Brecht, Il Comunismo, fino alle ultime, tra cui svetta il frammento Ruotare su se stessi:

Quello che vedi è la gioia la credevi persa

sciocco che eri.

In varie foto, il bel Fortini giovane assomiglia a un attore. Nel film Il cavaliere della valle solitaria, titolo originale Shane, del 1953, il grande western morale di George Stevens, con l’ineffabile eroe pi- stolero Alan Ladd, che si schiera in difesa dei contadini aggrediti dall’accumulazione, a un certo punto uno dei coloni risponde a un al- tro, che ha deciso di andarsene fuggendo dai saccheggi e dagli incendi delle fattorie, dopo le ultime minacce del padrone allevatore: «Noi che si resta qui l’avremo vinta, un giorno o l’altro». Verrà ucciso, ma gli altri vinceranno: «Bisognerà decidersi, un giorno o l’altro», come ripete Van Heflin. Piace pensare che Fortini, attento al cinema vero, abbia ripreso anche da lì (oltre che da Giacomo Noventa: «un zorno o l’altro / mi tornarò») il titolo tignoso del suo ultimo zibaldone di pensieri, utili e necessari per chi lotta ancora con le parole per le cose e «le nostre verità» da proteggere.

Quando Davide Dalmas mi ha invitato a questo convegno ho esi- tato a lungo, perché su Fortini non ho – sul piano critico – molto da dire; sicuramente molto meno di quello che è stato detto nel corso dei lavori di oggi e anche di ieri. Ho accettato l’invito, poi, contando di limitarmi a parlare della mia esperienza personale, di Fortini come l’ho conosciuto quando ero – molti anni fa – un giovane esordiente in poesia. Negli anni ’70 – come è stato ricordato – facevo il musicista di professione, ed ero anche – nello stesso tempo – un militante poli- tico. La poesia non era certo in cima ai pensieri né dei musicisti rock (più o meno “impegnati”), né dei militanti politici. Io però avevo una mia “tigna poetica” (per riprendere il termine proposto da Gianni D’Elia), scrivevo versi, e clandestinamente – o giù di lì – mi aggiravo in luoghi abbastanza remoti, molto molto marginali, circoli culturali e scantinati periferici dove si riunivano poche persone appassionate di poesia; andavo lì ad ascoltare e mi sentivo un totale outsider. Non avevo ancora pubblicato niente; stavo scribacchiando da anni qual- cosa di cui non ero molto convinto. Spesso mi è capitato, proprio in questi luoghi cosiddetti “decentrati”, di incontrare Franco Fortini. Era un personaggio noto, prestigioso; se non sbaglio scriveva già sul «Corriere», aveva pubblicato molti libri importanti. Io conoscevo, naturalmente, le sue poesie, i suoi saggi, ed ero davvero sbalordito di trovarlo in questi posti defilati, marginali. Credo che nessun altro poeta, o letterato, di una certa fama, si sarebbe mai degnato di pre- sentarsi lì, tra l’altro non per prendere la parola o per leggere i suoi versi, ma in veste di pubblico, al pari di tutti gli altri. Fortini aveva una fiducia impressionante nel fatto che ci si potesse trovare anche in dieci persone, e che ci fosse comunque del senso che circolava. Poi magari interveniva; e allora parlava come se si fosse trovato davanti

Fortini ad alta voce

Nel documento Fortini traduttore e la cultura tedesca (pagine 85-87)