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Fortini ad alta voce Umberto Fior

Nel documento Fortini traduttore e la cultura tedesca (pagine 87-89)

a un’assemblea di diecimila persone. Ma non faceva comizi, o lezioni: proponeva considerazioni, individuava problemi e contraddizioni… Il suo era davvero un atteggiamento fuori del comune. Coraggiosissi- mo, e soprattutto estraneo a ogni spocchia letteraria. Io non lo avevo ancora incontrato di persona, ed è stato in questo ambito che a un certo punto l’ho contattato, come tanti facevano, e gli ho mandato le mie paginette.

Il bello è che mi ha risposto subito, e oltretutto con una risposta sproporzionatamente elogiativa, che non mi aspettavo (conservo an- cora quelle lettere, che scriveva con la sua bellissima grafia: stringeva tutto il testo in mezzo al foglio, lasciando larghi margini bianchi). Di fronte a questa grande disponibilità io mi sono entusiasmato e natu- ralmente, come a tanti è capitato, di lì a poco sono entrato in conflit- to con lui; perché era quasi inevitabile, come sa chi lo ha conosciuto. Fortini ti faceva dei grandi complimenti, ti incoraggiava, e subito dopo ti trattava malissimo. A un certo punto ho reagito, perché ero molto permaloso, quindi ci siamo un po’ scontrati; dopodiché, lui mi ha telefonato a casa per chiarire. Notate bene che ero un ragazzotto sconosciuto, non contavo niente. Lui ha trovato il mio numero, e mi ha tenuto un’ora al telefono a spiegarmi il perché e il percome delle nostre divergenze, dei nostri contrasti, etc. Io mi chiedevo: «Ma quanto tempo ha da sprecare con me quest’uomo? Non ha di meglio da fare che occuparsi delle mie quattro paginette (tra l’altro inedi- te)?». Questo me lo rendeva veramente ammirevole.

A colpirmi in particolare è stata una cosa che ha riferito in uno degli incontri di cui parlavo (credo che fosse la proiezione di un film sul Mosè

e Aronne di Schönberg, frequentata – vi immaginate – da folle

traboccanti). Nel corso del dibattito, Fortini ha raccontato – non ricordo come c’entrasse – che lui, per mettere alla prova quello che andava scrivendo, leggeva ad alta voce la poesia appena terminata, con un forte accento emiliano-romagnolo, oppure romanesco. L’ho trovato un metodo fantastico: faceva ridere, ma aveva un fondo se- rissimo, che mi sembrava di capire molto bene (come cantante, ho sempre avuto una forte attenzione per gli aspetti vocali del testo, per la pronuncia, per la cadenza e così via). Da allora ho cercato di ripetere anch’io l’esperimento; ma già prima mi piaceva mettere un testo alla prova della vocalità: con un amico ci divertivamo a leggere

Blanchot con la voce di Totò; in concerto, mi divertivo a leggere dei saggi eruditissimi passando attraverso tutte le inflessioni regionali, dal piemontese al veneto al sardo.

Qualche anno dopo, ho scoperto questo quadernetto (mostra il

libro), La poesia ad alta voce, edizioni Barbablù, uscito nel 1985,

che ripropone un intervento di Fortini all’Università di Siena, a pro- posito dei problemi dell’esecuzione pubblica della poesia. Nessuno in Italia, che mi risulti, se n’è mai occupato, o almeno non con un tale approfondimento. Le questioni che nascono dalla dizione, dalla recitazione in pubblico della poesia sono sempre state accantonate come marginali, insignificanti. Ho letto il saggio di Fortini, per me di grandissimo interesse; l’ho studiato, in seguito ho anche scritto a mia volta sull’argomento. Ma vorrei concludere parlando della co-

pertina di questo libretto [la esibisce al pubblico]. Ve la descrivo: il

disegno raffigura un Pierrot, anzi il personaggio che nella tradizione del circo si chiama Clown Bianco. Il Clown Bianco è quello che ha un cappellino a pan di zucchero, la faccia infarinata, le labbra a cuore, la lacrimuccia nera che gli pende da un occhio, e di solito suona il violino o il mandolino e fa la serenata, l’entrata patetica, immedia- tamente interrotta dall’irruzione del clown che fa ridere, quello che convenzionalmente si chiama Augusto. L’Augusto – calzoni troppo larghi, scarpe scalcagnate, naso rosso – arriva col suo trombone, e comincia a spernacchiare il Clown Bianco. Questa è la gag di base. Di questo piccolo bellissimo disegno – che è di Fortini – non si fa parola nel libretto, non se ne parla proprio. In realtà, secondo me, è una obliqua allusione al rapporto che c’è, nella dizione pubblica della poesia, tra il testo e il corpo dell’autore. Il testo è il Clown Bianco, il corpo dell’autore è l’Augusto, è il Comico nel senso più profondo del termine. È la corporalità ingiustificata, invadente e oscena, se vo- gliamo, che in ogni lettura si presenta. Ognuno di noi, quando recita le sue poesie in pubblico, è sia il Clown Bianco sia l’Augusto. Anche se non lo vuole, anche se vuole essere solo serio, serissimo, sublime. Fortini aveva una fortissima consapevolezza di questo; era un bravis- simo dicitore; l’ho sentito varie volte recitare i suoi versi in pubblico. Rispetto agli altri poeti italiani che mi è capitato di ascoltare era for- midabile; aveva un accento toscano ma non fiorentino, poteva recita- re come uno speaker televisivo, come un attore drammatico, o mor- morare come Mallarmé, e sempre aveva l’aria di dire: “Io fo come mi

È difficile dire quale sia stata l’eredità che ho ricevuto da Franco Fortini. E ancora di più darne un resoconto oggettivo e veritiero. Pos- so però testimoniare un rapporto discontinuo, controverso e intenso. Ma prima di iniziare vi leggerò una poesia, tra le sue più celebri, cara a molti di noi e spero anche a voi che ci ascoltate. Non molte poesie di Fortini hanno circolato in questo convegno frequentato da giovani che non l’hanno mai conosciuto e chissà quanto letto. S’intitola Tra-

ducendo Brecht e qui ne riporto soltanto l’ultimo verso: «La poesia

/ non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi». E per l’emozione che ancora oggi mi provoca è paragonabile a una scoraggiante riflessione contenuta in un memorabile saggio critico scritto verso la fine degli anni Cinquanta e poi pubblicato con il titolo Le poesie italiane di

questi anni. «Scrivere e leggere versi ha perduto gran parte del carat-

tere sacrale che aveva nel periodo anteguerra. E, per quanto perman- ga il dislivello fra il numero patologicamente elevato di volumetti di versi e quello dei lettori, è certo che non poche di quelle poesie deb- bono essere considerate ormai comunicazioni “prosastiche”».

Prima che il poeta, io conobbi il saggista. Nel 1969 lessi in se- conda edizione Verifica dei poteri, un libro difficile, spinoso, chiuso a riccio ma denso di argomentazioni alle quali aderivo con passione pur senza capirle del tutto. Un libro che aveva tutti i requisiti per rappresentare il prologo di un lungo apprendistato fortiniano e che mi precipitò in insanabili contraddizioni. Mi ero appena laureata con una tesi sugli scritti letterari di Carlo Cattaneo che avevo proposto, sicura di un rifiuto, a Walter Binni, arrivato a Roma da Firenze, fa- vorito dalla sua giusta fama di leopardista, ma dovrei dire anche di leopardiano doc. Binni era un maestro che si fidava dei suoi allievi, o almeno di qualcuno di loro. E forse grazie anche all’amicizia con

Due lettere inedite di Franco Fortini

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