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Ceccuti, Un editore del risorgimento cit., pp.467-495.

2 GLI ANNI DELL’INCERTEZZA (1851-1857) 2.1 Seppellirsi in condotta?

C. Ceccuti, Un editore del risorgimento cit., pp.467-495.

115 Carteggi di Cesare Guasti, a cura di F. De Feo cit., pp. 285-286.lettera di C. Livi a C. Guasti, Prato

22 maggio 1853.

116 Scriveva infatti all’editore: «Se Ella si trova in vena di stampare, io avrei da suggerirle cosa che

non potrebbe a meno di incontrare il favore del pubblico: i Saggi dell’Accademia del Cimento, di cui non abbiamo di edizioni moderne che quella in formato grande della Galileiana. […] Io ho pensato anche a una scelta delle cose più intelligibili e piacevoli del Galileo: anzi ho appuntato tutti

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continuò a richiedere all’editore un’ulteriore copia del volume di lettere già edite per poterne preparare la bozza, non fu mai stampato e, evidentemente, Livi passò oltre. L’anno successivo il Le Monnier avrebbe lasciato la proprietà della tipografia e, probabilmente, il progetto cadde nel dimenticatoio. Le opere di Galileo furono proposte, sempre col concorso del Guasti, anche all’ex collaboratore di LeMonnier, Gaspero Barbèra, per la sua Biblioteca Maggiore. Il Guasti non riteneva infatti adeguata alla fatica la divulgativa Biblioteca Diamante, della quale si sarebbe accontentato Livi, «fatta per gli uomini che non leggono e per le donne che non san leggere»117, ma anche questo progetto non fu mai

realizzato.

Del resto, anche considerate come fonte di guadagno, le opere a stampa non potevano certo considerarsi un affare per un autore come il nostro. Se inizialmente Livi aveva pensato di poter essere retribuito con 500 £ a volume, la contrattazione di Guasti non riuscì a strappare che 50 francesconi a volume – corrispondenti a 333 £ toscane circa - con l’impegno per due tomi e 12 copie gratuite di ciascuno, vincolandolo all’obbligo di non pretendere una retribuzione maggiore per un eventuale terzo volume118. Le opere vennero

stampate senza le incisioni e le figure delle quali avrebbe voluto corredarle l’autore per risparmiare sull’edizione. La retribuzione fu di fatto quasi interamente scambiata con i volumi e gli abbonamenti a periodici e giornali che Livi, di volta in volta, stipulava con il tipografo.

Quella di Livi può quindi considerarsi, fatta eccezione per il pregio che una pubblicazione avrebbe aggiunto ai suoi titoli, un’operazione patriottica, dettata da sinceri sentimenti verso la riscoperta delle radici del sapere nazionale per ritrovare la genesi di quel metodo sperimentale tanto invocato, attribuendolo alla scuola galileiana e alla sua continuazione presso l’Accademia del Cimento e inserendosi perfettamente nella vulgata filosofico- medica risorgimentale suggellata dai più noti professionisti della penisola. L’operazione di Livi era rivolta soprattutto alla medina pratica, ma passava, come è evidente, per l’esaltazione dei sistemi filosofici, peraltro mai profondamente indagati, che avevano

gli squarci che sarebbero da scegliersi». BNCF, Carteggi, Le Monnier, lettera n. 119, C. Livi a F. Le Monnier, Siena 15 marzo 1863.

117 Carteggi di Cesare Guasti, a cura di F. De Feo cit., p. 152, lettera di C. Guasti a C. Livi, Firenze 8

maggio 1862. Il piemontese Gaspero Barbera, dopo essere stato una colonna portante dell’impresa di Felice Le Monnier come suo prezioso collaboratore, fondò la propria casa editrice nel 1854. Vd. C. Vasoli, Un editore fiorentino: Gaspero Barbèra, in Editori a Firenze nel secondo Ottocento. Atti del

Convegno 13-15 novembre 1981, a cura di I. Porciani, Firenze, Olschki, 1983, pp. 21-41. La collezione

dei Classici Diamante ebbe, malgrado lo sprezzante giudizio del Guasti, un notevole successo, rendendo accessibili i classici italiani a un folto pubblico. Il Barbèra inoltre, si dedicò nel corso degli anni Sessanta alla pubblicazione di diversi testi a carattere scientifico, mostrando verso questo genere un’attenzione superiore rispetto a Le Monnier.

118 Il contratto è riportato in diverse lettere indirizzate a Le Monnier, 3 gennaio 1856, 1 aprile 1858,

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sorretto la rivoluzione scientifica di Galileo. L’esaltazione della medicina nazionale veniva di fatto a coincidere con quella della medicina toscana: tutti i medici dei quali Livi intendeva scrivere fecero parte della cerchia fiorentina, se non per nascita, almeno per un periodo della loro vita. L’intenzione risulta evidente nel discorso preliminare steso per il primo volume. Qui Livi dichiarava apertamente che «quando lo scibile umano abbisognò d’essere riedificato dalle fondamenta, fu sempre il senno italico che prestogli man forte». Capofila della lunga tradizione era anche per lui Pitagora di Samo, mentre venti secoli dopo, quando la «mala signoria aristotelica» della scuola scolastica imperava «furono italiani uomini che impresero e capitanarono quel grandioso movimento della logica umana»119. Riecheggiando le deduzioni di De Renzi e quelle di Antonio Rosmini, non

lasciava spazio al senno di Bacone, al quale perfino gli inglesi, secondo un topos che trovava giustificazione nel celebre riconoscimento da parte di David Hume, negarono una supremazia su Galileo120. I soli francesi non si rassegnavano a cedere il primato scientifico

all’Italia, opponendo la filosofia cartesiana, intrisa di metafisica, a quella galileiana, costantemente svilita. Si tratta di una svalutazione dei due personaggi esteri che richiama elementi già presenti nella mitologia galileiana settecentesca, che vennero portati avanti nel corso dell’Ottocento e in epoca post-risorgimentale. Lo stesso Puccinotti aveva ammesso che la filosofia baconiana, collegata immancabilmente al pensiero del toscano Galileo, l’avesse fatto conoscere al resto d’Europa. Questa critica aspra è al contrario particolarmente evidente nel discorso col quale Pasquale Villari aprì nel 1864 le celebrazioni pisane del terzo centenario della nascita del genio toscano, sostenendo che Bacone fosse incorso in errori grossolani, scadendo nel sensismo. Bacone credeva ancora all’essenza delle sostanze e delle forze vitali, rimanendo un uomo del Medioevo, mentre Galileo non cercava essenze ma leggi.

Non solo: Livi poneva esplicitamente la Toscana del Rinascimento e dell’Umanesimo alla testa del rinnovamento, poiché fu in grado di accogliere ingegni provenienti dall’estero e fornire ad essi la libertà di pensiero e i mezzi per potersi esprimere, sfornando quel genio che per primo aveva cominciato lo studio dei fatti e dei particolari «in un secolo in cui le menti voleano pascersi ad ogni costo del maraviglioso, di favole e di parole!» Qual era la dote principale di Leonardo Da Vinci? Essere un uomo che aveva insegnato «come dalla investigazione minuta empirica sapesse levarsi sempre alle leggi prime d’ogni scienza […] non per eccellenza solo di naturale intuito, sì bene per lungo e faticoso discorso di

119 Opuscoli di storia naturale di Francesco Redi. Con un discorso e note di Carlo Livi, Firenze, Le

Monnier, 1858, p. IV.

120 David Hume aveva infatti rivalutato l’opera di Galileo rispetto a quella di Bacone in un passo

della sua History of England che sarebbe stato immancabilmente citato da vari autori italiani. A. Battistini, «L’Italia s’è desta» cit., p. 17.

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mente»121. Ed ecco che nel secolo in cui ancora imperava la filosofia arabica, intriso di

fantasmi e magie «solamente i cultori delle scienze fisiche e matematiche, come più accosti alla natura sensibile o meno soggetti alle opinioni speculative, seppero e vollero addentrarsi nella ricerca del vero e del reale: primi fra questi i medici». Fra questi venivano rammentati Fracastoro, Girolamo Cardano, il napoletano Giovanbattista Porta e il più misurato, ma non meno importante, ingegno del toscano Andrea Cesalpino. A quest’ultimo non solo si doveva la prima classificazione delle piante della quale si era giovato Linneo due secoli dopo, ma anche la scoperta della circolazione del sangue attribuita all’inglese Harvey e che fu un primo passo fondamentale verso il ripensamento del sistema galenico. L’anatomia, che in una prima redazione del discorso preliminare era stata affossata da Livi per sottolineare come le persecuzioni sacerdotali avessero impedito l’avanzamento degli studi - un errore storiografico prontamente corretto dal più obiettivo e decisamente più filo-cattolico maestro Puccinotti122 - aveva anch’essa compiuto decisivi

passi in avanti. Fra gli anatomisti del Cinquecento annoverava infatti Iacopo Berengario, il Carpi e Andrea Vesalio che aveva dichiarato guerra alla medicina galenica; infine il «principe degli anatomici del secolo», Gabriele Falloppio. Le scoperte si erano susseguite con il lavoro degli esploratori naturalisti che, sulla scorta di Colombo, girarono il mondo, la costruzione di orti botanici e musei naturali in ogni citta, mentre nei tre centri della sapienza italiana, Bologna, Padova e Pisa si produceva conoscenza innovativa. Così, se «l’erudizione avea informato il decimoquinto secolo; l’osservazione incarnava il sedicesimo». Rimaneva indubbio, secondo Livi, che il secolo delle scoperte anatomiche fosse tuttavia una di quelle epoche di passaggio individuate da Puccinotti, durante la quale «certe capitali dottrine, come quella delle quattro qualità elementari, certe superstizioni e ciurmerie duravano a tener il campo e far siepe, falsando il raziocinio e i ritrovati dell’osservazione».123 I giovani volenterosi ascoltavano i dotti e lasciavano «vecchi e bisunti

volumi», purtroppo imperava ancora «il pecorame de’ vecchi medici ciurmatori, devoti a Raze, Avicenna e Galeno»124. Il XVI secolo era stato capace di produrre una storpiatura

come quella di Paracelso che, dopo aver dato fuoco alle cattedre degli scolastici, «congregò

121 Opuscoli di storia naturale cit., p. XII.

122 F. Puccinotti, Lettere scientifiche cit., pp. 308-309. Puccinotti, nella lettera inviata a Livi il 5 marzo

1857, commentando ciò che non aveva apprezzato nella bozza del discorso, scriveva all’allievo: «Il primo articolo che non mi è piaciuto è quello dove voi attribuite alle persecuzioni sacerdotali il vuoto scientifico che supponete in anatomia, specialmente fondandovi sulle accuse fatte a Vesalio e a Berengario di aver notomizzato i vivi. Codesto vuoto non esiste. Dal Mondino fino a tutto il secolo XVI, si lavorò sempre in anatomia».

123 Opuscoli naturali cit., p. XIX. 124 Ibidem.

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a sé quante stregonerie, quante diavolerie, quante cabale e quanti mostri seppe evocare ne’ secoli più bui la geomazia, l’astrologia e la chiromanzia»125.

Il Seicento fu invece il secolo che aprì gli intelletti scientifici al vero. Al Cinquecento era infatti mancato il suo genio riformatore: «mancava uno di quell’ intelletti, che spingendo il sapere comune più avanti che fosse possibile, lasciasse da indi in là sicura e aperta la via a’ grandi progredimenti. Questo intelletto divino comparve, e si nomò Galileo!»126.

Purtroppo, non tutti i medici seguirono la strada aperta dal sommo maestro, continuando a bearsi nella loro vanagloria. Ma i maestri non tardarono ad arrivare anche in medicina e su tutti spiccava «un intelletto potente con istupendo ardimento» che «pensò ad imporre anche alla medicina il magistero geometrico e matematico, non solo come suprema legge di moderazione e governo del pensiero, ma anche come principio direttivo e divinatore nella inchiesta del vero.» Si trattava dello iatromeccanico napoletano Alfonso Borelli che, secondo Livi aveva tratto dalla propria terra nativa la sapienza pitagorica, mentre poi aveva conquistato educazione e onore in Toscana127.

Livi aveva tuttavia scelto di occuparsi del letterato e biologo aretino Francesco Redi, primo medico dei duchi Ferdinando II e Cosimo III, una delle colonne portanti dell’accademia galileiana. Redi, che essendo medico granducale rinunciò ai viaggi, lavorò quasi sempre a Firenze seguendo gli spostamenti stagionali della corte in Toscana. Pur avendo contribuito con i suoi studi sugli insetti alla confutazione della generazione spontanea, confermandosi fra i biologi più acuti dell’epoca, in qualità di medico non si era soffermato a elaborare nessuna opera sistematica. Eppure, i suoi consulti medici, nella classica forma di lettera, erano conosciuti ovunque, sia per il pregio letterario che per gli schietti consigli sulle cure da osservare. Secondo Livi, Redi fu in grado di «tirare la medicina sull’unico e vero suo pernio della pratica semplicità, a riconciliare la natura con un’arte che si credeva onniveggente e onnipossente, ad innestare l’antica sapienza co’ nuovi trovati

125 Ivi, p. XXII. 126 Ivi, p. XVI.

127 Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) aveva effettivamente trascorso parte della vita in Toscana,

dal 1656 al 1667, titolare di una cattedra di matematica presso l’ateneo Pisano e aveva collaborato con l’Accademia del Cimento fiorentina. Si era però formato a Roma, sotto la guida del galileiano Benedetto Castelli e insieme al suo circolo di allievi, fra i quali Torricelli, insegnò matematica presso l’Università di Messina almeno dal 1839. Dopo l’allontanamento dalla Toscana tornò nuovamente a Messina per rimanervi fino alla morte. Fra le sue opere più note ricorderò qui soltanto il De moto

animalium, che portava a compimento le sue teorie sul meccanicismo, partendo dalla concezione

che la vita fosse «una serie coordinata di fenomeni motori, rappresentabili in formule matematiche». L’opera trattava quindi dei moti esterni all’animale e di quelli interni all’organismo. È essenziale infine ricordare che in biologia Borelli fu uno dei più strenui sostenitori della teoria atomistica o corpuscolare. Cfr. la ricchissima voce di U. Baldini, G. A. Borelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 12, 1971 e Id., Gli studi su Giovanni Alfonso Borelli, in La scuola

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dell’osservazione»128. L’esaltazione del Redi empirista, che grazie alle ampie possibilità

messe a sua disposizione dalla Corte Granducale ebbe l’opportunità di svolgere innumerevoli osservazioni e ricerche di laboratorio, è un filo rosso classico nella letteratura, anche storica, che lo riguarda129. La sperimentazione e l’osservazione sono

dunque gli aspetti maggiormente esaltati nel primo dei volumi di Livi. Una sperimentazione che in Redi cercava in ogni modo di distanziarsi dalla speculazione filosofica, portando avanti il motto dell’Accademia e la prudenza utilizzata all’interno di essa. La glorificazione dell’esperimento e dell’osservazione era infatti funzionale per mettersi al riparo da critiche e atteggiamenti inquisitoriali da parte della Chiesa Cattolica. La mancanza di prese di posizione filosofiche da parte di Redi, gli permise di evitare scontri diretti con le autorità religiose e di conciliare, se non di confutare apertamente, perfino le vecchie teorie aristotelico-tomistiche; si trattava di un atteggiamento del tutto differente da quello di un Borelli, il cui progetto ontologico fu di ben più ampio respiro. Mancanza di genio intellettuale o scelta consapevole? Per Livi pare prevalere la prima spiegazione mentre, a ben guardare, quella di Redi fu una presa di posizione che lo accomunava a quella parte di scienziati che continuarono a gravitare intorno alla corte medicea130. Livi

sosteneva infatti che gli intelletti speculativi in medicina si differenziassero in due tipi: il primo composto da quelli «più arditi che forti, più ricchi d’immaginativa che d’intelletto, incuranti e spregiatori anzi della sensata esperienza, prendono le mosse a filosofare della

128 Opuscoli naturali cit., p. XXVIII.

129 Cfr. in proposito i saggi di W. Bernardi, Teoria e pratica della sperimentazione nei protocolli

sperimentali rediani e di A. Bonciani, Esitazioni metodologiche di un empirista radicale, in Francesco Redi. Un protagonista della scienza moderna. Documenti, sperimentazioni immagini, a cura di W.

Bernardi e L. Guerrini, Firenze, Olschki, 1997, pp. 13-30 e 31-45. Entrambi i saggi problematizzano il puntuale metodo sperimentale di Redi, sicuramente uno strenuo osservatore. Nel primo si prendono in considerazione i contatti fra Redi e numerosi personaggi che alla Corte Medicea fornivano materiale per le sperimentazioni di Redi, sia come cavie che come aiutanti, sottolineando come il biologo attingesse spesso alla sapienza “popolare” dei propri collaboratori; nel secondo saggio viene messo in luce che la grande quantità di materiali messi a disposizione di Redi, scienziato di Corte, dai granduchi toscani, fosse al tempo stesso una ricchezza e un limite poiché difficilmente uscì dal proprio laboratorio per osservare i fenomeni nella realtà naturale.

130 Di questo aspetto della “politica” conciliatoria e prudente utilizzata da Redi nel gestire le fila

della comunità galileiana si occupa S. Gómez López, Redi, Arbitro fra i galileiani, in Francesco Redi.

Un protagonista della scienza moderna, a cura di W. Bernardi e L. Guerrini cit., pp. 129-139. Un

aspetto rilevato anche da Baldini oppone in un certo senso l’impostazione macro e microfiosiologica di Borelli, dalla quale derivarono la scuola iatromeccanica o iatromatematica che passò a Marcello Malpighi e poi allo stesso Lorenzo Bellini e che mirava a collegare la meccanica ai dati anatomo- fisiologici, a quella di Redi. Redi e Viviani non coltivarono mai aspetti di fisiologia generale con importanti implicazioni filosofiche, nel tentativo di svincolare le scienze fisiche dalle metafisiche, antiche o moderne che fossero e portare avanti la tradizione metodologica di Galileo. Si trattò di due atteggiamenti diversi che trovavano la loro matrice comune nella critica al galenismo. U. Baldini, La scuola galileiana cit., pp. 426-431.

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natura non dalla natura medesima, ma da’ loro cervelli, e vanno per spazi immaginari che non hanno confine se non nel vuoto». Il secondo tipo era composto da «coloro, i quali potenti di ingegno sintetico, ma dotti anche ed esperti della scienza de’ fatti, sanno da quelli levarsi a certe leggi che li governano». Se la scuola toscana aveva visto fra le proprie fila il Borelli, considerato fra questi ultimi, non vide mai medici del primo tipo. Da Borelli, considerato il fondatore della scuola iatromeccanica, il miglior prodotto della biologia e della medicina seicentesche, un sistema aperto che si proponeva di studiare e avvalersi della fisica, della chimica, della botanica, della notomia, della fisiologia, si arrivava così direttamente al maestro Puccinotti, a cui era dedicato il secondo volume, il quale, riportando in auge il pitagorismo, aveva posto la matematica non come principio sovrano della scienza medica, ma come concetto mediatore tra il fatto e la ragione, tra il fenomeno e il tipo o legge ideale, novello Pitagora «disposatore della scuola platonica al peripato». La Corte Medicea, vituperata altrove per le vicende politiche che avevano portato alla fine della gloriosa Repubblica Fiorentina, veniva nei due volumi, soprattutto nel secondo, esaltata come centro di cultura e sapere che aveva portato avanti, nonostante i propri limiti, la tradizione del “genio” fiorentino. Se la vita civile fiorentina si era spenta insieme alla repubblica, altrettanto non era avvenuto con quella scientifica: «ogni verità per vera che sia ha bisogno di un certo piedistallo, perché gli uomini anche di lontano lo veggano e lo accorrano. Firenze appunto e la medicea corte erano cotesto piedistallo in que’ tempi», scriveva Livi. Sottolineava poi che «l’autorità, la potenza e ricchezza e liberalità medicea» avevano permesso che gli scienziati fiorentini si recassero come ambasciatori in tutto il mondo a raccogliere nozioni e materiali che arricchissero le scienze fisiche e i musei di Firenze. Ed era proprio Redi che, effettivamente, teneva da Firenze le fila di questa «associazione medica».

Nel secondo volume, quello dedicato ai Consulti e agli opuscoli definiti “minori”, quindi imperfetti, che Livi era stato costretto da Le Monnier a inserire nell’edizione per allungare la mole dell’opera, il filo rosso che legava Redi ai medici dell’Ottocento passava soprattutto per la rivalutazione della natura benefica e del paradigma della medicina semplice propugnato con forza dalla medicina Settecentesca contro la diffusione dell’alchimia e delle pozioni medicamentose ritenute improbabili e, soprattutto, contro il dogmatismo della scuola aristotelico-galenica131. Era per quel suo «semplice e soave modo di medicare»,

«mirabilmente amico a natura, quello studio ingenuo del vero, senza giri di frase o coperchierie di una verbosa e vana dottrina, quella coscienza netta e quella dolcezza e benignità di modi che raggentiliva quasi la medicina e sino i rimedi e i mali medesimi» che Livi ammirava il Redi dei consulti. Si trattava infatti di doti che i contemporanei

131 Su questo aspetto caratterizzante della medicina illuministica cfr. E. Brambilla, La medicina del

Settecento, in Storia d’Italia, Annali VII, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta cit., pp. 5-147,

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avrebbero dovuto introiettare perché andavano a vantaggio dei malati «usi finallora ad avere le orecchie intronate di paroloni paurosi ed oscuri, e gli stomachi intrugliati de’ più pazzi beveroni»132. La semplicità e colloquialità con la quale Redi sembrava effettivamente

rivolgersi ai pazienti nei propri consulti epistolari a distanza rimandava a un intento curativo sincero, sebbene inserito nella formula epistolare del consulto a distanza che venne utilizzato da altri medici coevi al Redi, o a lui di poco posteriori, in bella forma con intento divulgativo133. Per Livi, Redi non era certamente «di que’ tali che, anche scrivendo

una lettera, vedono sempre di là dal tavolino mezza posterità intesa a bocca aperta ad udirli»134. Redi non era dunque soltanto uno scienziato impegnato nella speculazione ma

un medico dotato di capacità e sottigliezza psicologica nel rapporto col paziente ed esaltava proprio quella utilità pratica della medicina alla quale intendeva far riferimento

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