aquiliano. Il punto si complica però a voler considerare il passaggio mediano che in
ambito contrattuale ha aperto le vie all’incidenza del sistema economico sul sistema
giuridico, ossia la dimostrata sovrapposizione della funzione economica dello scambio
alla funzione giuridica del risarcimento, in ambito extracontrattuale tale passaggio non è
logicamente pensabile e già questo dovrebbe indurre alla cautela nell’esportazione dei
risultati raggiunti in ambito contrattuale, ma ciò che più di altro sconsiglia tale
operazione risiede nell’effetto pratico che tale passaggio produce nella determinazione
del limite al risarcimento del lucro cessante contrattuale, che non può estendersi a
quanto “non prevedibile” per il debitore al momento del sorgere dell’obbligazione. In
ambito extracontrattuale questo limite alla risarcibilità del lucro cessante diviene
chiaramente più sfumato dal non ancorarsi ad alcunché di predeterminato ed appropriato
appare perciò il timore espresso nella relazione alla “prima fase” dei lavori per il codice
poggiato sulla constatazione che nella risarcibilità del lucro cessante «la pratica ha dato
luogo non di rado ad esagerazioni, che il giudice fino ad oggi non ha potuto evitare»
499,
497
Così, Pacifico, Il danno nelle obbligazioni, cit., 136.
498
Capitolo 2, paragrafo 1.3.
499
Codice civile, Libro delle obbligazioni, Relazione del Guardasigilli alla parte prima del progetto
ministeriale, cit., 16. Il frammento, come già riportato nel primo paragrafo del presente capitolo,
riconduceva le esagerazione all’incertezza del lucro cessante e riteneva che il rischio di tali esagerazioni fosse comune alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Su quest’ultimo punto è bene però
120
per evitare queste esagerazioni – aggiungiamo qui – depotenziate in ambito contrattuale
grazie all’art.1225, si è proceduto all’inserimento del secondo comma dell’art. 2056. Se
pertanto si vuole insistere con una descrizione – di certo fondata – del lucro cessante
risarcibile come vicenda propria del capitalismo, non possono non valorizzarsi le
peculiarità del sistema di responsabilità in cui tale danno va ad inquadrarsi, ed in tal
senso appare orientato il riferimento alla staticità della tutela aquiliana
500compiuto dalla
dottrina riportata in apertura
501. La staticità in sé, però, non giustifica alcuna riduzione
equitativa del lucro cessante
502a meno di non voler considerare la responsabilità
aquiliana “statica, ma non troppo” laddove quel “non troppo” diviene un lucro cessante
“risarcibile, ma non troppo”. Il punto critico della ricostruzione, indipendentemente da
quanto quest’ultima sintesi può considerarsi corretta, è il difficile passaggio dalla
generalizzazione “i beni sono…” allo specifico concreto caso singolo in cui il bene non
si presenta con “un’attitudine alla produzione” ma si presenta inserito, o non inserito, in
un determinato contesto volto all’incremento del patrimonio (e si può anticipare fin
d’ora che esistono beni, ontologicamente produttivi, la cui dimensione dinamico-
fruttifera viene attualizzata nel valore di scambio del bene stesso) e, dunque, nel caso
concreto, un bene non può “un po’” produrre un lucro, ma può produrlo o non produrlo
e ci sembra che la giustificazione di una riduzione equitativa nel caso in cui tale lucro si
sarebbe prodotto operata tramite la generalizzazione appena citata, può essere letta – e
qui usciamo dal seminato della dottrina proposta – come un alleggerimento della
condizione del danneggiante a stretto ridosso dell’incidenza statistica, conoscibile ex
segnalare che, come si è visto, l’attuale art. 1225, fu inserito dall’assemblea legislativa che ebbe successivamente ad occuparsi della materia e pertanto, come a breve sarà ripetuto nel testo, in ambito contrattuale tali esagerazioni trovarono un ottimo argine nel 1225.
500
Sul tema della “staticità” della tutela aquiliana può essere interessante rilevare come nel nucleo originario della lex Aquilia (M.F. Cursi, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto
privato, Napoli, 2010, 26 ss.), ossia quello che poi diventerà il primo dei suoi tre capitoli, il risarcimento
veniva accordato solo in caso di lesione di beni produttivi di valore economico: schiavi e quadrupedi, da ciò emerge una responsabilità aquiliana che nasce come tutela di fattori produttivi, eppure la quantificazione non era proiettata verso l’incremento patrimoniale che tali fattori avrebbero determinato – un calcolo forse troppo astratto per i parametri dell’epoca – ma era determinato sul valore di mercato di tali beni, o meglio il maggior valore che la cosa avesse ricevuto nel corso dell’anno. Cfr. Valditara,
Damnum iniuria datum, cit., 42-43.
501
Va oltre a ciò, pur partendo da una considerazione in parte analoga, chi ritiene che il lucro cessante «non acquisisce effettiva capacità operativa per i fini della responsabilità extracontrattuale» poiché il mancato guadagno «deve operare per indicare di volta in volta la mancata attuazione di valori monetari inseriti in operazioni di scambio», Messinetti, Danno giuridico, cit., 491.
502
Così sembra di poter desumere anche da Mazzamuto, Il danno da perdita di una ragionevole
aspettativa patrimoniale, cit. 77 il quale pur aderendo alle premesse formulate da Castronovo giustifica il
secondo comma dell’art. 2056 non come quest’ultimo poiché «la maggiore cautela del legislatore [insita nel risarcire in maniera equitativa il lucro cessante aquiliano] deriva a sua volta dal dato empirico della minore frequenza con cui il lucro cessante si produce nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e, ove viceversa occorra, nella sua minore ampiezza rispetto all’identica posta in sede contrattuale».
121