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Cfr Z ARRI , Dalla profezia alla disciplina, p 215; e C REYTENS , La Riforma dei monasteri femminili, p.

Il governo dei monaster

4 Cfr Z ARRI , Dalla profezia alla disciplina, p 215; e C REYTENS , La Riforma dei monasteri femminili, p.

attitudini, costumi e tradizioni che altrove avevano raggiunto il loro culmine un secolo prima»5.

Tipica di luoghi e tempi caratterizzati da una certa instabilità, come poteva essere la diocesi oggetto del presente studio nel XIX secolo, questa permanenza del passato nel presente si configurerebbe anche come una forma di resistenza inconsapevole da parte delle monache nei confronti della secolarizzazione che avanza. La «bufera rivoluzionaria», d’altronde, aveva concorso al rafforzarsi della volontà di più strettamente riannodarsi al proprio ieri, per quanto lontano, respingendo un oggi dalle caratteristiche troppo diverse e ancora confuse6.

Pertanto, dopo la parentesi napoleonica – durante la quale si era verificato, inevitabilmente, un allentamento della vigilanza sui monasteri e un’ulteriore diffusione degli abusi alla disciplina post-tridentina, nelle comunità sfuggite alle soppressioni –, una nuova opera di disciplinamento dovette essere intrapresa e portata avanti per tutto l’Ottocento, in un continuo sforzo – per dirla con le parole del vescovo Andrea Lucibello – volto a «scuotere la mondana polvere» e a cercare di “rieducare” le monache, guidandole pazientemente al raggiungimento di «quell’apice di perfezzione religiosa, a cui con fervore aspirate, e che Noi tanto bramiamo di veder’adempita»7.

Anche Giovanni Lunardi ha segnalato tale stato di cose, notando la persistenza di alcune «ombre» all’interno dei monasteri – malgrado i generali miglioramenti apportati dall’azione del Concilio – e l’infiltrarsi per giunta, nel corso del XVIII secolo, di «un certo costume mondano» tra le monache e il lento progredire del decadimento, che raggiunse il suo apice durante il secolo seguente8. Una situazione da cui la diocesi in questione non risulta certo indenne.

Con loro grande rammarico, infatti, i vescovi sorani continuavano a riscontrare, in occasione delle periodiche visite ai conventi sottoposti alla propria giurisdizione, i

5A. BURKARDT, «Il Convento stregato». Il caso di Maria Renata Singer alla luce delle recenti indagini

storiografiche, in Aufklärung cattolica ed età delle riforme. Giovanni Battista Graser nella cultura europea del Settecento, a cura di S. Luzzi, Rovereto, Accademia roveretana degli Agiati, 2004, p. 111-

131. Il concetto di “contemporaneità del non contemporaneo” è stato formulato dai filosofi tedeschi Ernst Bloch e Reinhardt Koselleck. Cfr. P.ANDERSON, Storia d’Europa: l’Europa oggi, Torino, Einaudi, 1993,

p. 863-864.

6 G.PENCO, Spiritualità monastica. Aspetti e momenti, Bresseo di Teolo (PD), Edizioni Scritti Monastici,

1988, p. 364.

7 ASMC, Visite pastorali, Vol. 8, Copia della Santa Visita dell’anno 1820.

8 G.LUNARDI, Benedettine, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I, Roma, Paoline, 1974, col. 1222-

medesimi “abusi” messi in luce dai loro predecessori nei secoli passati: assenza di vita comunitaria, accesso ai parlatori di persone non strettamente congiunte alle suore, apertura indiscriminata della porta della clausura, violazione del silenzio nelle ore prestabilite; pertanto, si vedevano costretti a dare continue disposizioni alle religiose, nel tentativo di ricondurle all’osservanza9.

In aggiunta, un nuovo decreto De Sanctimonialibus (in parte esplicitamente ricalcato sull’omonimo decreto emanato dal vescovo Matteo Gagliani nella prima metà del XVII secolo) fu promulgato nella sessione III del Sinodo diocesano del 1828: in esso si ribadì nuovamente il dovere di attenersi con «solertia» a quanto fissato nel noto decreto tridentino, troppo sovente disatteso fino ad allora10.

Si dovette quindi rammentare a ciascuna religiosa di essere «castam, obedientem, pauperramque», e di “custodire” la «regularis Clausura», rimarcando il fatto che: «januae tam interiores quam exteriores maxima custodiantur diligentia; nec aperiantur» e «nemo sub poena excommunicationis absque nostra, vel nostri Vicarii Generalis expressa licentia audeat ad Monasteria accedere pro colloquendo ad Crates cum ipsis Monialibus, Novitiis, Conversis, et Educandis, exceptis Consanguineis in primo, et secundo gradu»; per di più «nec pueri, nec puellae cujuscumque sint aetatis introducantur in Monasterium Monialium»; e anche nel caso di confessori e medici, che con licenza dovessero accedere alla clausura, «non introducantur, nisi associati a duabus Monialibus, quae, quoad fieri potest, ex senioribus deputentur». Infine, si prescrisse che la «vita comunis quoad fieri potest omnino servetur, praesertim in Mensa quae non careat spirituali lectione, nec in ea omittatur lectio unius ex Capitulis Regulae et Constitutionis»11.

I decreti sinodali costituiscono generalmente l’apice dell’attività pastorale, la risposta a una situazione della quale si era già preso atto, soprattutto attraverso le ricognizioni ai monasteri, e per la quale essi avrebbero dovuto costituire un rimedio. Eppure, anche dopo il Sinodo, l’emanazione di normative da parte dei vescovi non si arrestò, ma proseguì fino alle soglie del XX secolo: molte volte ciò si risolse in una

9 ASDS, Visite pastorali, B. 48-72, Atti delle visite dei vescovi Agostino Colaianni, Andrea Lucibello,

Giuseppe Mazzetti, Giuseppe Maria Montieri, Paolo De Niquesa, Ignazio Persico e Raffaele Sirolli, 1798-1896.

10 ASDS, Sinodi diocesani, Vol. 4, Sinodo del vescovo Andrea Lucibello, 1828, p. 154-161. 11 Ibidem.

ratifica di disposizioni date in precedenza; quasi sempre, però, il ricorso a simili misure era determinato dal continuo riscontro di una scarsa disciplina nelle monache e solo in pochi casi si trattò di interventi puramente precauzionali, atti alla conservazione di un ordine che troppo spesso, invece, non c’era.

Mary Laven ha sostenuto che «il reiterarsi dei disordini» è indice del «fallimento» dei mezzi con cui la riforma tridentina fu messa in atto12: non si può negare, infatti, che non si raggiunse mai un successo pieno e definitivo, mentre le norme continuavano ad essere largamente contravvenute, sovente adottate solo esteriormente, ma nella pratica seguite per lo più con alcuna aderenza e ben poca convinzione. Questo perché i monasteri, arroccati in difesa delle proprie autonomie e delle proprie consuetudini, avevano assunto un atteggiamento tutt’altro che passivo, anzi si erano opposti all’attività riformatrice, come a ogni altra ingerenza esterna, vivendola come un’imposizione inaccettabile e pregiudicante il loro tradizionale modo di vivere.

Probabilmente, però, una delle ragioni principali, per cui non vi fu mai un completo adeguamento alla regolamentazione ecclesiastica, risiede non solo in una inadeguatezza dei mezzi impiegati o nella resistenza che le monache seppero loro opporre – coadiuvate in ciò dalle loro stesse famiglie di origine – ma anche nella consapevolezza posseduta, tanto dai laici quanto da buona parte del clero, che molte donne non erano entrate in convento per devozione ma su iniziativa dei propri familiari13.

Come si poteva ricorrere, allora, al pugno di ferro, con una popolazione monastica femminile innegabilmente composta – non del tutto, bensì in considerevole parte – da fanciulle prive di autentica vocazione religiosa? Come non avvertire l’esigenza di mitigare le misure di rigore con un po’ di mitezza? Con simili presupposti, era normale che alla «rigidità normativa» corrispondesse «un’ampia trasgressione entro certi limiti tollerata e strutturale»14.

Insomma, non è tanto una questione di ostinazione o di «cattiva volontà delle monache», come ha giustamente detto Raimond Creytens, oppure di mancanza di zelo

12 M.LAVEN, Monache. Vivere in convento nell’età della Controriforma, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 36. 13 E.S.VAN KASSEL, Vergini e madri tra cielo e terra. Le cristiane nella prima età moderna, in Storia

delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis e A. Farge,

Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 179.

in chi la riforma doveva applicarla: la verità è che quelle direttive causavano «veri e propri problemi d’ordine umano, sociale, economico-finanziario e anche politico», di cui tutte le parti coinvolte si rendevano perfettamente conto, finendo per esserne inevitabilmente condizionate nel loro agire15.

Non si poteva ignorare che la clausura stessa, benché considerata il presupposto fondamentale dello stato monacale, l’unica condizione in grado di assicurare la perfetta conservazione della virtù femminile, si traduceva praticamente in un’autentica prigionia per tutte coloro che avevano scelto di prendere il velo per “costrizione”. E nel XIX secolo i casi di monacazioni forzate, per quanto in diminuzione, erano ancora abbastanza frequenti, a dimostrazione del fatto che la politica di controllo delle vocazioni, escogitata dalla Chiesa, poteva essere facilmente elusa e i conventi proseguire a essere impiegati dalla nobiltà cittadina come «ridotto di quelle che maritar non puonsi»16.

Risulta evidente, allora, quanto fosse opportuno fare ricorso a una certa flessibilità: le libertà – per quanto parziali – di cui godevano le professe avevano sempre rappresentato degli accorgimenti attraverso i quali poter rendere più tollerabile l’imposizione della vita monastica; per cui, malgrado l’urgenza di interventi moralizzatori, volti a impedire potenziali o effettivi scandali pregiudicanti l’onore delle persone e delle istituzioni interessate, quelle libertà, in molti casi, sono state preferibilmente e con molta elasticità serbate17.

Così, per esempio, se alcune donne del luogo si accostavano al monastero di S. Andrea Apostolo, senza le debite autorizzazioni, si riprovava l’episodio, si rammentava l’esistenza di un veto, ma non risulta si sia mai giunti a infliggere realmente le minacciate punizioni. All’indomani del richiamo all’ordine, quelle donne proseguivano a fare visita alle claustrali, magari adoperando semplicemente maggiore moderazione e accortezza, persuase com’erano – tanto esse quanto le suore – di non essere comunque responsabili di alcuna grave pecca.

Presumibilmente, in questo caso, non si voleva – o non si poteva – spezzare una rete di relazioni e solidarietà tra donne, sulla quale a un certo punto si preferì chiudere un occhio pur continuando a biasimarla, costituendo un’infrazione alla clausura, ma ben

15 CREYTENS, La Riforma dei monasteri femminili, p. 71.

16 ZARRI, Recinti, p. 43 e ss. Cfr. inoltreZARRI MEDIOLI VISMARA CHIAPPA, De monialibus, p. 687 e ss. 17 ZARRI, Recinti, p. 72-73.

sapendo che si trattava di un’abitudine tutto sommato “innocente”, non troppo pregiudizievole per il pubblico decoro e che non avrebbe perciò comportato conseguenze pericolose per la reputazione del pio luogo. All’autorità episcopale non restò allora altro da fare che rassegnarsi e constatare come «Sanctimoniales tamen in S. Andrea civitatis Arpini cum feminis extraneis quem admodum in antecessum non ostantibus meis dispositionibus sine licentia colloqui pergunt»18.

Certamente l’onore restava un capitale sociale di fondamentale importanza e la sua salvaguardia, cui erano demandate tanto le istituzioni civili che ecclesiastiche, un dovere da cui non poter assolutamente prescindere. Tuttavia, non ci si poteva ridurre a un esercizio di potere troppo soffocante od opprimente; piuttosto, conveniva adottare un atteggiamento lungimirante e talvolta persino indulgente, se necessario: insomma, bisognava essere pronti a rimediare alle violazioni più compromettenti ma, al tempo stesso, attenti al mantenimento di certi “privilegi” goduti dalle monache, specie quando questi privilegi potevano presentare un utile tornaconto.

Si pensi al “traffico” di generi commestibili (dolci di vario tipo, principalmente ciambelle, pasta, pane ma anche grano, farina, polli) che i monasteri della diocesi intrattenevano con la gente del luogo: sebbene generalmente biasimato e ripetutamente proibito dai vescovi, che lo consideravano un pericoloso mercimonio in cui la virtù delle religiose rischiava di macchiarsi, restava innegabilmente una fonte di profitto e come tale in varia misura tollerato.

Senza contare che tali donativi potevano avere un’importante funzione “diplomatica”:

Quasi tutte le comunità tradizionalmente provvedono infatti alla preparazione di determinate specialità da corrispondere spesso in segno di riconoscenza, ma anche come evidente captatio benevolentiae della variegata schiera di ecclesiastici e personaggi che ruotano attorno al monastero. Si tratta essenzialmente di dolciumi e di cibi particolari che ciascuna casa religiosa regala, secondo consuetudine, in determinate circostanze dell’anno19.

18 ASV, Congregazione del Concilio, Relationes Dioecesium, B. 67b, Aquino-Sora-Pontecorvo, Relazione

del vescovo Giuseppe Maria Montieri, 26 luglio 1858. L’usanza persistette e venne segnalata anche dal successore di monsignor Montieri. Cfr. ASDS, Visite ad limina apostolorum, B. 1, fasc. 4, Relazione del vescovo Paolo De Niquesa, 24 novembre 1875.

Così, nel 1779, le cappuccinelle del monastero di Gesù e Maria insorsero contro alcuni decreti emanati per loro dal vescovo Giuseppe Maria Sisto y Britto, in particolare contro la proibizione di preparare ciambelle, pasticci o altri alimenti «per gl’esteri»: le religiose si giustificarono asserendo che ciò capitava raramente e solo per persone verso cui avevano «gran obblicazione» – persone che erano comunque solite “contraccambiarle” in qualche modo – e chiedevano pertanto la rimozione del veto. Monsignor Britto, in seguito alle loro decise proteste, «per vieppiù quietare le loro coscienze, e togliere ogni angoscia spirituale», si risolse allora ad assumere una posizione meno intransigente e a consentire l’usanza; tuttavia, precisò che si praticasse con i soli congiunti e «coll’obbligo però alli parenti sudetti di dover dare al Monastero le legna necessarie, e tutt’altro, che ne occorrerà, acciò il luogo non resti danneggiato», impedendo in tal modo che altri personaggi, ivi compresi alcuni membri del clero, profittassero delle suore20.

E ancora il vescovo Andrea Lucibello, a seguito della sua visita del 1820 al monastero di S. Chiara, proibì alle cistercensi di continuare gli scambi di generi alimentari, trovandovi «il male di perdita di tempo, di distrazioni, di mancanze di regola, e di dispendio del pio luogo»; ma ammettendo un’eccezione: «resterà alla conoscenza della Badessa la vera necessità, e la vera convenienza, onde potersi la Religiosa prestare in rare circostanze a qualche vero bisogno della propria famiglia, o di altri per eseguire lavori di pasta»21. Mentre, nel 1832, seguitandosi l’usanza, monsignor Lucibello si limitò a raccomandare alle cistercensi di astenersi «dal lavorare o far lavorare delle paste per uso estraneo dal Luogo», perlomeno in occasione delle maggiori solennità previste dal calendario liturgico, onde evitare «quel dissipamento interno che male fa all’istituto di perfezione»22.

Quasi sempre, insomma, la ricerca di un compromesso garantiva la stabilità e l’ordine e scongiurava compromettenti fenomeni di ribellione da parte delle suore e degli stessi cittadini interessati; per di più, meglio disponeva tanto le une quanto gli altri nei confronti dell’autorità, facilitandone di conseguenza la lenta ma assidua opera

20 ASDS, Visite pastorali, B. 44, Atti della visita del vescovo Giuseppe Maria Sisto y Britto, 3-11 marzo

1779.

21 ASMC, Statuti e regole, B. 3, Riforma della regola, s. d. [post 1820].

di disciplinamento. L’altra faccia della medaglia era naturalmente il rischio di vedere perpetrate, nonostante tutto, abitudini biasimate.

Un’usanza radicata e riprovata come quella delle celle, ad esempio, persisteva tanto all’indomani del Concilio di Trento che ben oltre quella data, fino in pieno Ottocento; una persistenza tale da far parlare Elisa Novi Chavarria di «resa incondizionata» delle autorità ecclesiastiche, le quali finirono per accettarne l’uso «in nome della consuetudine e della quiete della vita monastica»23.

Come si è già avuto modo di vedere, la cella è, per definizione, «un microcosmo tendenzialmente autosufficiente»: un ambiente proprio, all’interno del monastero, dove la suora poteva dormire, consumare i pasti, dedicarsi a lavori di maglia o di cucito, leggere o scrivere, ricevere le sue consorelle; talvolta la arredava a suo piacimento – più o meno riccamente, a seconda delle possibilità – e in qualche caso aveva l’opportunità di trasmetterla in eredità alle generazioni future24.

Eliminare questi alloggi privati avrebbe comportato interventi architettonici notevoli, che non sempre era possibile realizzare (per questioni economiche o per il rischio di provocare danni strutturali all’assetto degli edifici), ed è probabilmente anche per questa ragione, oltre che per il rispetto di una consuetudine o della quies di una comunità, che le autorità ecclesiastiche si risolsero a mantenerle.

Si optò allora per la promulgazione di norme che ne regolamentassero almeno l’uso: richiami al voto di povertà e alla pratica della vita comunitaria; proibizione di qualunque abuso, con la minaccia di castighi; ingiunzioni alle suore a non entrare nelle stanze delle altre, ma a ritirarsi ciascuna nella propria, esclusivamente per dormire; nel caso del monastero di Gesù e Maria, si ricorse perfino all’istituzione di monache «discrete», incaricate di vigilare la notte per i corridoi e riportare ai superiori gli eventuali «sconcerti» riscontrati25.

Tuttavia, per quanto “normalizzato”, l’uso delle celle continuava a garantire il mantenimento di una certa vita particolare; senza contare che le norme, con cui le autorità immaginavano di poter contenere gli eccessi, potevano essere facilmente disattese. In definitiva, «le occasioni in cui le monache conducevano attività di tipo

23 E.NOVI CHAVARRIA, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei

monasteri napoletani (secoli XVI-XVII), Milano, Angeli, 2001, p. 122.

24 ZARRI, Recinti, p. 84 e ss.

comune erano dunque prevalentemente momenti ricreativi o cerimonie di carattere pubblico, ma la vita ordinaria aveva come ambito privilegiato la cella»26.

Malgrado l’ideale della vita in comune non sia essenziale alla vita consacrata, essendo possibile per ciascun individuo perseguire la perfezione mediante altre forme di vita (come quella eremitica), e malgrado il “relativismo” di tale concetto (che può assumere valenze diverse a seconda della tipologia di comunità religiosa cui si applica o delle situazioni contingenti), il Concilio di Trento ne sancì per la prima volta l’obbligatorietà nel 1563 – come abbiamo visto –, in particolar modo per le monache di clausura, fissandone i tre punti cardinali:

1) comune ordine del giorno; 2) uguaglianza e povertà di tutti riguardo al vitto, abito e arredamento dell’abitazione, evitando tutto il superfluo, ma essendo, allo stesso tempo, assicurati del necessario; 3) rinuncia del singolo religioso a qualsiasi bene proprio; uso, invece, povero e dipendente dei beni della comunità27.

I monasteri si uniformarono a quanto stabilito a Trento ma, anche in questo caso, a dispetto dei controlli, vigeva una certa dose di trasgressione; tanto che, ancora nel XIX secolo, la vita in comune era ben lungi dall’essere la norma nei conventi italiani e Pio IX, nel breve Multiplices inter, emanato il 10 giugno 1851, doveva ribadirne nuovamente l’assoluta necessità e importanza, proibendone ogni violazione28.

Di fatto, però, le numerose eccezioni erano in larga parte tollerate; anche nella diocesi di Sora, Aquino e Pontecorvo dove, pur ribadendo quanto fosse “desiderabile” l’introduzione di tale modus vivendi tra le famiglie religiose, i vescovi optavano in linea di massima per un atteggiamento piuttosto permissivo.

Nella convinzione, basata sugli scarsi risultati ottenuti, che la troppa indulgenza avesse compromesso l’opera di disciplinamento delle suore, il vescovo Giuseppe Maria Montieri preferì invece ricorrere a tutta la sua autorità per imporre la vita comunitaria ai monasteri sotto la sua giurisdizione, ottenendo però anch’egli esiti incerti. Infatti, solo le cistercensi di S. Chiara, a differenza delle altre comunità della

26 ZARRI, Recinti, p. 96.

27 H.-M.STAMM, Vita comune. Dal concilio di Trento a oggi, in Dizionario degli istituti di perfezione, X,

Roma, Paoline, 2003, col. 325-328. Cfr. inoltre G. ROCCA, Vita comune, in Dizionario degli istituti di perfezione, X, Roma, Paoline, 2003, col. 270-274.

diocesi, mostrarono di accogliere «prontamente, e spontaneamente» l’esortazione del loro pastore: il 4 novembre 1851, quasi all’unanimità, deliberarono l’adozione della nuova forma di vita; dopo un periodo di prova, Montieri fece redigere uno Statuto di vita comune da praticarsi nel Monastero di S. Chiara in Sora, da lui stesso approvato il 30 ottobre 1852, con la raccomandazione alle consorelle di rileggerlo all’inizio di ogni mese, affinché si imprimesse meglio nelle loro menti e non ne venisse mai meno l’osservanza29.

Lo Statuto stabiliva quale doveva essere l’arredamento (frugale e privo di qualunque cosa superflua) delle “abitazioni” di ciascuna religiosa, come pure l’abbigliamento (sobrio e scevro da qualunque vanità) e forniva un elenco preciso dei capi e degli oggetti a disposizione di ogni suora, perché non vi fossero disparità tra loro; inoltre, fissava le ore di lavoro da svolgere in comune, imponendo di dedicarsi esclusivamente a lavori “donneschi” (come maglia, ricamo o cucito), e disponeva le quantità e le qualità di cibi che il monastero doveva somministrare nella mensa comune30.

Tuttavia, non molto tempo dopo, le cistercensi rivolsero delle istanze alla Congregazione dei vescovi e regolari per ottenere il permesso di tornare alla vita particolare, «adducendo per motivo il grande disesto economico» in cui versava l’istituto31: è stata riscontrata, in effetti, l’esistenza di un «nesso inscindibile» tra la mancanza di mezzi di una comunità religiosa e l’assenza di vita comunitaria all’interno della stessa poiché, qualora le entrate non fossero bastate al sostentamento delle professe, queste ultime avrebbero dovuto necessariamente «provvedere al proprio mantenimento con il lavoro e le sovvenzioni familiari»; anche se «al tempo stesso il sistema privatistico contribuisce ad impoverire il “comune”»32.

Montieri, prevedendo i rischi, aveva stabilito che nessuna monaca, dal momento

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