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II.1. Salvaguardia dell’onore e conflitti di potere – II.2. “Un’affollata prigione con

ampio giardino” – II.3. Tentativi di evasione

Prima di approfondire il discorso sull’opera di disciplinamento, ripresa durante la restaurazione nel tentativo di ristabilire l’ordine precedente alla cesura napoleonica, è bene soffermarsi a osservare più da vicino i monasteri femminili e cercare di capire come si svolgesse la vita quotidiana al loro interno e cosa effettivamente esigesse un intervento fattivo dei superiori.

Sempre in bilico tra la salvaguardia del proprio onore (capitale sociale di fondamentale importanza) e le lotte di potere con le autorità ecclesiastiche locali – come ci dimostra l’analisi di un caso particolare – gli istituti religiosi femminili si configuravano prevalentemente, ancora in pieno Ottocento, come ricettacoli di non maritate, con tutte le conseguenze che ne derivavano.

Prigioni cui doversi adattare o da cui provare a evadere, per coloro che vi erano state inviate contro la propria volontà, oppure luoghi di meditazione e ascesi, per chi avesse scelto spontaneamente di consacrarsi a Dio; in ogni modo, luoghi privilegiati di un’élite tanto sociale che spirituale, ma non esente da una certa conflittualità intestina.

II.1. Salvaguardia dell’onore e conflitti di potere

Un presunto episodio scandaloso, verificatosi nella prima metà del XIX secolo nel monastero di S. Chiara a Sora, ci offre uno spaccato della diocesi di Sora, Aquino e Pontecorvo e di uno dei suoi più illustri istituti claustrali in un travagliato momento storico; un episodio, benché circoscritto, comunque indicativo delle dinamiche sociali in cui le comunità religiose femminili erano inscritte.

A testimonianza del fatto sono rimaste solamente due denunce: l'una, datata 21 aprile 1836, diretta dalla badessa del monastero di S. Chiara, Maria Francesca Tronconi, all'abate di Montecassino, don Celestino Gonzaga da Napoli; l'altra, anonima, datata 26 aprile 1836, indirizzata al nunzio apostolico, monsignor Gabriele Ferretti1.

Le denunce sono molto pesanti: in esse si accusa il canonico Basilio Fortuna, membro del Capitolo della Cattedrale di S. Maria Assunta a Sora e confessore ordinario delle monache di S. Chiara, di aver abusato di tre religiose in confessionale e di averle messe incinte; una di loro, una tale Iacobelli, sembra essere già prossima al parto – come asserisce la badessa con comprensibile «orrore» – per cui bisogna assolutamente intervenire per porre «riparo ad un terribilissimo guaio e sconcerto grande accaduto in questo monastero»2.

1 ASV, Archivio della Nunziatura Apostolica di Napoli, Scat. 44, Risultato falso un fatto scandaloso nel

Monastero delle Benedettine di Sora, 1836.

In realtà l’ordine di appartenenza della comunità religiosa di Sora risulta essere quello cistercense dal XVI secolo circa. Cfr. ASDS, Libro Verde, p. 35. Eppure la stessa badessa Tronconi, nella sua denuncia, specifica che l’ordine di appartenenza della sua comunità è quello benedettino, per cui si potrebbe ipotizzare che: a) la notizia riportata sul Libro Verde è errata e la comunità apparteneva in realtà all’ordine benedettino sin dal XVI secolo; b) la comunità è passata dall’ordine cistercense al benedettino in un’epoca successiva, ma non vi sono testimonianze al riguardo; c) dal momento che le cistercensi seguivano comunque la regola di s. Benedetto, vi era probabilmente da parte delle religiose stesse l’abitudine a definirsi anche come benedettine nel senso, appunto, di seguaci di s. Benedetto; e a conferma di quest'ultima ipotesi, si può riscontrare che anche in altri documenti le suore venivano denominate con molta ambivalenza cistercensi o benedettine.

2 ASV, Archivio della Nunziatura Apostolica di Napoli, Scat. 44, Risultato falso un fatto scandaloso nel

Monastero delle Benedettine di Sora, Denuncia della badessa Tronconi, 21 aprile 1836.

Di questa suora soltanto, prossima al parto, viene fornito semplicemente il cognome: «Iacobelli». Nel 1836, nel monastero di S. Chiara, risultavano esserci due religiose coriste con questo cognome: Maria Filomena Iacobelli e Maria Crocifissa Iacobelli, molto probabilmente imparentate tra loro e originarie di Casalvieri, un piccolo paese della diocesi. Cfr. ASMC, Monache, B.5, fasc. 1, Elenco delle coriste, 1836. La badessa Tronconi si riferisce evidentemente a una delle due nella sua denuncia. Non è stato purtroppo possibile identificare le altre religiose coinvolte.

Nonostante le indagini condotte, non sono stati reperiti verbali di interrogatori, referti medici, relazioni né lettere del nunzio o di altri delegati a indagare sul caso, insomma alcuno dei documenti che avrebbe dovuto normalmente produrre la macchina investigativa messa in moto dalle due denunce. Il caso fu semplicemente archiviato come «falso», ma non ci è dato sapere in quale maniera si giunse alla sentenza. È possibile che la documentazione sia stata distrutta una volta appurato che il misfatto non era realmente accaduto, conservando solamente le denunce scritte, come voleva la prassi; o, più probabilmente, si procedette a un semplice rapporto verbale sull’accaduto, da riportare alle autorità ecclesiastiche competenti.

Ma davvero non vi era stata alcuna sollicitatio ad turpia da parte del confessore? O non si trattò piuttosto di un tentativo di occultare un fatto scandaloso, che avrebbe screditato non solo il buon nome del monastero, ma anche quello delle autorità, tanto ecclesiastiche che civili, preposte a vegliare sulla salvaguardia di tale buon nome? E se davvero l’increscioso episodio in realtà non si era mai verificato, a che pro suscitare tanto clamore per nulla e rischiare in tal modo il pubblico ludibrio? Danneggiare la reputazione di un membro del Capitolo e, conseguentemente, anche quella di tutti i suoi confratelli, anche a rischio di veder compromessa persino la comunità di religiose, quali motivazioni, quali interessi poteva nascondere?

L’onore restava un valore fondamentale per la società ottocentesca e la sua difesa, specialmente nel caso delle donne, un dovere da cui non poter assolutamente prescindere, in quanto «veicolo dell’onore di famiglie, gruppi, istituzioni»3: una donna disonorata era motivo di discredito per i suoi congiunti e per tutti coloro cui veniva demandato il compito di “custodirla”, poiché era l’emblema imbarazzante del fallimento dei tutori della sua buona condotta e ne chiamava direttamente in causa le corresponsabilità.

«Mobili nel corpo e irrequiete nell’anima, le donne vanno dunque custodite». Nel corso dei secoli, e ancora nel XIX secolo, è questa la parola d’ordine: «custodia»; che

3 GUIDI, L’onore in pericolo, p. 42. Tale concezione dell’onore metteva al primo posto l’integrità fisica

della donna, per cui il controllo sociale esercitato sulle donne si esplicava prevalentemente come «controllo sul corpo»: ZARRI, Recinti, p. 22 e ss. Sul fondamentale valore che la purezza femminile

rivestiva ancora agli occhi della società ottocentesca e l’assoluta necessità di salvaguardare questa virtù, si vedano anche: M.DE GIORGIO, Il modello cattolico, in Storia delle donne. L’Ottocento, a cura di

G. Fraisse e M. Perrot, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 155-191; e A.GROPPI, Una gestione collettiva di equilibri e materiali. La reclusione delle donne nella Roma dell’Ottocento, in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante, M. Palazzi e G. Pomata,

«sta ad indicare tutto ciò che può e deve essere fatto per educare le donne ai buoni costumi e per salvare la loro anima: reprimere, sorvegliare, rinchiudere, ma anche proteggere, preservare, curare». E sono le autorità maschili, tanto civili quanto ecclesiastiche, ad essere chiamate «a governare e a custodire le donne, le quali non devono far altro che favorire questa custodia praticando tutta la gamma delle virtù della sottomissione»4.

La tutela dell’onore femminile si realizza quindi «come controllo “dall’alto”, messo in atto da autorità statali e religiose volte a conformare i comportamenti morali e sociali della popolazione», ma anche come «controllo “dal basso” di gruppi familiari, sociali e comunitari, che cercano di regolare e definire, attraverso pratiche di autogestione o di cogestione, propri standards di comportamento fruttiferi rispetto a esigenze, o strategie, di esistenza o di sopravvivenza»5.

Se effettivamente nel monastero di S. Chiara si era verificato un abuso in actu sacramentali e tre monache erano rimaste gravide, l’onore di quelle religiose, della loro comunità monastica, delle rispettive famiglie d’origine e degli ecclesiastici loro superiori, era in pericolo di venire gravemente compromesso. E se, come affermava l’anonimo accusatore del confessore, lo scandalo si era ormai «reso quasi pubblico per questa Città»6, diventava allora indispensabile intervenire al più presto per porre un pronto rimedio o almeno per contenere e limitare il più possibile i danni7.

La Chiesa aveva elaborato nel corso dei secoli una vasta e dettagliata procedura da adottare nei casi di sollecitazione, procedura che aveva trovato una sistemazione definitiva proprio nel secolo precedente nella Costituzione Sacramentum Poenitentiae del 1 giugno 17418.

4 C. CASAGRANDE, La donna custodita, in Storia delle donne. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch-Zuber,

Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 88-128.

5 GROPPI, Una gestione collettiva, p. 131.

6 ASV, Archivio della Nunziatura Apostolica di Napoli, Scat. 44, Risultato falso un fatto scandaloso nel

Monastero delle Benedettine di Sora, Denuncia anonima, 26 aprile 1836.

7«Quando l’onore delle casate e della città è già compromesso da uno scandalo pubblico», allora diventa

indispensabile intervenire: ZARRI, Recinti, p. 73.

8 P. PALAZZINI, Sollecitazione, in Enciclopedia cattolica, XI, Firenze, Sansoni, 1953, col. 940-943. A

proposito della sollicitatio, si vedano anchePROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 508-542; G.ROMEO, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell'Italia della Controriforma. A proposito di due casi modenesi del primo Seicento, Napoli, Le Lettere, 1998 (Le Vie della Storia, 38), p. 163-197; e, dello

Questo crimine era divenuto formalmente di competenza dell’Inquisizione con un decreto del 10 luglio 1614, in seguito al preoccupante aumento dei casi9. Tuttavia, le difficoltà e i contrasti connessi alla trattazione di una questione tanto delicata e scottante, unitamente alla progressiva femminilizzazione delle pratiche religiose, resero estremamente più complicata l’opera repressiva del Sant’Ufficio; anzi, «i sacerdoti che volevano ottenere piaceri proibiti attraverso la confessione sembra che potessero continuare a farlo con una certa impunità»10. Nondimeno, particolarmente nel corso del XVIII e del XIX secolo, si cercò di intervenire con pugno di ferro contro i sollecitatori.

Secondo quanto stabilito da papa Benedetto XIV nella Costituzione Sacramentum Poenitentiae, le vittime di abusi in confessionale, come tutti coloro che fossero venuti a conoscenza del fatto, erano obbligati a denunciare il colpevole, vista la gravità del reato e il pericolo che potesse essere reiterato11. Vi era tuttavia una certa ripugnanza nello sporgere denunce di questo tipo, per il timore di incorrere nel discredito, per cui capitava sovente che le vittime non segnalassero affatto l’accaduto o si risolvessero a farlo solo dopo che era trascorso diverso tempo12.

Con la Costituzione si era tentato di inculcare in modo definitivo il dovere della denuncia, ma venivano comunque contemplate delle scusanti per non aver adempiuto a tale obbligo e ciò è indicativo di un atteggiamento comprensivo da parte delle autorità, verso donne che altrimenti avrebbero visto compromesso il loro onore, unico capitale sociale di cui potevano disporre13.

9 A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondatori, 2006, p. 616. A

coronamento del decreto, nel 1622, la Costituzione Universi dominici gregis di Gregorio XV «obbligò gli inquisitori e i vescovi di tutto il mondo cattolico a punire i responsabili di adescamento in confessione in modo molto severo», nel tentativo di arginare le infauste e inattese conseguenze di una frequentazione sempre più assidua del confessionale da parte delle donne, all’indomani della Controriforma: G.ROMEO, L’Inquisizione, p. 74-75.

10 DEL COL, L’Inquisizione in Italia, p. 617. Cfr. anche ROMEO, L’Inquisizione, p. 77.

11 Dal momento in cui si viene a conoscenza di una sollicitatio ad turpia si ha un mese di tempo per

denunciare il colpevole, altrimenti si incorre nella scomunica nemini reservata. La presentazione di una denuncia oltre gli anzidetti termini viene giustificata solo in motivati casi di impossibilità o di impedimento del denunciante. Cfr. PALAZZINI, Sollecitazione, col. 941.

12 «Non erano poche le volte in cui il confessore sollecitante rimaneva impunito o più spesso non

denunciato»: DEL COL, L’Inquisizione in Italia, p. 617. Prosperi nota come il rifiuto da parte delle

vittime a denunziare era spesso e volentieri tollerato dalle autorità, le quali riconoscevano le enormi difficoltà incontrate dalle donne nel dover rivelare abusi subiti, per il disonore che ne sarebbe derivato anzitutto per loro stesse: cfr. PROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 520 e ss.

Anche nel caso in questione, probabilmente, la paura e la vergogna avevano spinto le tre monache a tacere; ma la gravidanza, rendendo infine visibile a tutti l’infamia che avevano creduto di poter celare, le costrinse invece a rivelare il misfatto alla loro superiora e a un’altra persona – verosimilmente un sacerdote – che non è stato possibile identificare, i quali da questo momento avevano l’obbligo di sporgere denuncia per loro conto. Il grave pericolo di infamia e il forte disagio delle vittime, nei confronti del personaggio di cui avevano subito gli abusi, avrebbe giustificato il ritardo con cui le lettere d'accusa erano state inoltrate.

Sebbene gli esposti siano stati fatti per lettera, cioè in forma semplice ossia extragiudiziale e perciò non «sufficiente per soddisfare all'obbligo della denuncia, né per procedere contro il presunto reo», in questi casi le autorità competenti erano comunque autorizzate a intraprendere delle indagini e la denuncia giudiziale poteva essere rinviata a un secondo momento, dopo che la veridicità delle accuse era stata appurata14.

Una volta avviata l’inchiesta, bisognava procedere in modo da tutelare le donne coinvolte e colpire i responsabili, ma allo stesso tempo si doveva evitare di «ledere l’immagine del clero» e di «incrinare la fiducia nella confessione»15, e questo in un momento storico in cui tale pratica sacramentale veniva da più parti messa in discussione, proprio per i “rischi” che comportavano i legami instaurati tra donne e sacerdoti in confessionale. Nei primi decenni dell’Ottocento si sviluppò, infatti, un ampio dibattito intorno alla valenza della confessione, per via della profonda influenza che il prete era in grado di esercitare sulla donna: secondo Jules Michelet, autore del testo Le pretre, la femme et la famille (pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1845), il confessore ha la signoria sull’animo della donna, dopodiché non gli resta che il corpo; un potere tale da minacciare la vita familiare borghese e il rapporto tra moglie e marito16.

14 PALAZZINI, Sollecitazione, col. 942. La denuncia giudiziale deve essere fatta in forma scritta o a voce,

al Sant’Ufficio o al vescovo o a un loro delegato, e deve indicare con precisione: generalità del denunciante e del denunciato, modalità, tempo e luogo del misfatto.

15 PROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 526.

16 Cfr. E. SAURER, Donne e preti. Colloqui in confessione agli inizi dell’Ottocento, in Ragnatele di

rapporti, p. 253-281. Su Michelet e le sue riflessioni sul rapporto tra confessori e donne, cfr. A.OLIVIERI, L'atelier di Jules Michelet: storia, tempo e immaginazione. Un saggio di metodologia, Milano, Unicopli,

2001. A proposito della «crise de la pratique de la confession» si veda anche P.BOUTRY, Réflexions sur la confession au XIXe siècle: autour d’une lettre de soeur Marie-Zoé au curé d’Ars (1858), in Pratiques de la

Operare sine strepito ac figura iudicii poteva allora rivelarsi la strategia vincente: tutto – dall'interrogatorio dei denuncianti e dell’accusato all'emanazione della sentenza e delle pene da comminarsi – avrebbe dovuto svolgersi nella segretezza più assoluta17.

Ipotizzando che il canonico Basilio Fortuna si fosse realmente macchiato di questo crimine, si provvide molto probabilmente a risolvere il caso entro il “foro interno”, ossia in ambito non contenzioso, bensì privato18, evitando un processo pubblico che altrimenti avrebbe suscitato eccessivo scalpore – tre suore incinte del loro confessore ordinario! – e si sarebbe infine rivelato lesivo dell'onore di quanti erano coinvolti nella faccenda. Dunque, le tre religiose furono plausibilmente fatte partorire in gran segreto, magari con la complicità di qualche medico o levatrice compiacente, e i loro figli – se nati vivi – forse affidati a qualche orfanotrofio, con tutta la discrezione che il caso esigeva19; mentre si presero i dovuti provvedimenti contro il canonico, comminandogli una punizione che non avesse pubblica risonanza, ma costituisse nondimeno un giusto ed efficace castigo.

Chi abusava del sacramento della penitenza poteva incorrere in un’ampia gamma di pene, comprendenti la sospensione dalle proprie funzioni, la privazione di tutti i benefici e dignità o, nei casi più gravi, la degradazione; ma se il reo ammetteva la

Confession. Des Pères du désert à Vatican II. Quinze études d’histoire, a cura del Groupe de la Bressière,

Parigi, Cerf, 1983, p. 225-238.

17 Cfr. PALAZZINI, Sollecitazione, col. 942; e PROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 538. Le regole

imponevano il massimo di segretezza e di attenzione, poiché era in gioco l’onore delle famiglie e quello del clero, entrambi fortemente arroccati in difesa del loro prestigio e della loro reputazione.

18 Il foro interno, altrimenti detto “della coscienza”, o “privato” o forum Dei, abbraccia le relazioni

private del cristiano con Dio e a tali relazioni si riferisce essenzialmente la giurisdizione esercitata entro tale foro. Tra il XVIII e il XIX secolo si tende però a distinguere il foro interno in sacramentale o penitenziale ed extrasacramentale o della coscienza, intendendo con ciò la possibilità di esercitare la giurisdizione entro il sacramento della penitenza o anche al di fuori di esso. Il fine era in ogni caso quello di far affiorare “spontaneamente” l’ammissione di colpa e il pentimento nel presunto reo. Cfr. J. FERNÀNDEZ, Foro interno e foro esterno, in Dizionario degli istituti di perfezione, IV, Roma, Paoline,

1977, p. 146-155. Si veda in proposito anche PROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 476-484.

19 L’infanticidio o l’abbandono di figli illegittimi sembrano essere state praticate con una certa

frequenza fin dall’antichità. Si veda in proposito J. BOSWELL, L’abbandono dei bambini in Europa occidentale, Milano, Rizzoli, 1991, che al presente costituisce ancora uno dei pochi studi complessivi

sull’argomento.

Per quanto riguarda specificatamente la condizione degli orfani nella zona in questione, è possibile trovare qualche cenno in LABORATORIO DIDATTICO DELLA STORIA, Forme assistenziali a Sora nei secc. XVIII-XX, Sora (FR), Corsi, 2005, p. 79 e ss. In ogni caso, l’apertura di nuovi orfanotrofi nel corso del

XIX secolo (tra cui quello diretto dalle suore Stimmatine a Sora nel 1858) potrebbe essere indicativa di un fenomeno sociale che non accennava a diminuire. Cfr. supra, p. 216-217.

propria colpa e mostrava sincero pentimento, veniva trattato con meno rigore e, una volta assolto dalle censure, poteva essere gradatamente riabilitato20. Se quindi don Basilio aveva confessato coram Deo quanto commesso e si era umiliato al cospetto delle autorità, poteva essere stato solo provvisoriamente sospeso e quindi riammesso alle sue funzioni dopo aver fatto ammenda. Del resto, risulta che egli abbia ricoperto la carica di canonico penitenziere del Capitolo della Cattedrale sino al 1848, ma non si è conservata alcuna documentazione attestante l’epoca della sua nomina21.

Inoltre, un’attenuante alla colpa del canonico, ragionevole motivo di una riduzione della pena, poteva provenire dal pregiudizio circa la “pericolosità” insita nel sesso femminile, da presunte provocazioni di cui avrebbe potuto essere stato vittima lo stesso sacerdote e che avrebbero comportato delle sanzioni anche per le tre monache “tentatrici”22.

In effetti, una delle probabili religiose violentate non figura tra le coriste riunitesi nel 1839 per l’elezione della nuova badessa, ma ricompare poi negli elenchi delle votanti per le successive elezioni23; né risultano domande di esclaustazione da parte della suora in questione per quegli anni, ragion per cui doveva essere sempre rimasta nel monastero: è dunque possibile che questa religiosa, per aver “istigato” in qualche modo don Basilio, fosse stata temporaneamente sospesa o privata della voce attiva e passiva o rinchiusa in carcere, come prevedeva la regola nei casi di condotta immorale24. Ma che la sua assenza alle elezioni del 1839 fosse la conseguenza di una

20 PALAZZINI, Sollecitazione, col. 941. Romeo registra un progressivo «ammorbidimento delle pene»

comminate ai sollecitatori a partire dal Seicento, a fronte di un ampliamento del numero di «delitti ritenuti meritevoli della pena capitale»: Cfr. ROMEO, L’Inquisizione, p. 81. La relativa “bonarietà” con

cui venivano trattati i sacerdoti è probabilmente da ricollegare alla volontà di tenerne celati i misfatti e di non danneggiarne la pubblica fama.

21 G.SQUILLA, La Cattedrale di Sora dal 1100 al 1961, Veroli (FR), Abbazia di Casamari, 1961, p. 118. 22 Cfr. PROSPERI, Tribunali della coscienza, p. 525

23 Si tratta di suor Maria Crocifissa Iacobelli che, pur presente tra le coriste che all’inizio del 1836

elessero suor Maria Francesca Tronconi alla carica di badessa, non presenziò poi alle elezioni del 1839, in cui la Tronconi fu riconfermata per il triennio successivo di badessato. Cfr. ASMC, Monache, B.5,

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