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Alle origini dello Scisma: il rapporto ambiguo e conflittuale fra papa e cardinali

Per comprendere un evento devastante come il Grande Scisma d’Occidente occorre analizzare con attenzione alcuni aspetti essenziali della Chiesa cattolica del Trecento: uno di essi è certamente l’istituzione del cardinalato, che nacque, crebbe e si definì nei secoli in funzione di uno strettissimo rapporto con il papato, parallelamente all’avvio, al consolidamento e al successo della politica ierocratica perseguita dalla Sede Apostolica. Lo sviluppo del Sacro Collegio cardinalizio fu infatti un processo estremamente lungo e complesso, il cui punto di partenza può essere considerato il cruciale secolo XI e il cui punto di arrivo, almeno per quanto concerne le finalità della presente ricerca, consiste appunto negli eventi del 1378. Secondo Edith Pasztor, il terminus a quo di tale processo deve essere considerato l’anno 1057, data di una lettera di Pier Damiani in cui viene fornita la prima menzione del cardinalato e della sua funzione, che in sostanza consisteva nel garantire la prosecuzione della riforma della Chiesa.1 Una seconda fase ebbe inizio nel 1179, quando il Concilio Ecumenico Lateranense II abolì la distinzione fra cardinali vescovi, preti e diaconi in sede di elezione papale: fondamento di tale atto fu «il riconoscimento anche formale dell’esistenza del Collegio da parte dell’episcopato universale, riunito in concilio», almeno in funzione della sua più importante prerogativa, cioè appunto scegliere il successore di Pietro, contro il quale si attestava l’impossibilità di ricorrere a un’autorità superiore.2 Infine, una terza fase cominciò nel 1352, anno di promulgazione della prima capitulatio electoralis, e terminò con il cruciale conclave dell’8 aprile 1378: il contesto politico e culturale di queste ultime due tappe fu la realtà del papato avignonese.3

La Pasztor osserva inoltre che a questi sviluppi corrispose un importante mutamento delle concezioni ecclesiologiche, specialmente in merito al principio del primato di Pietro: se infatti nella prima fase soltanto il papa era considerato il soggetto detentore dei poteri primaziali, coadiuvato dai cardinali nelle attività di governo della Chiesa, nel periodo

1

Cfr. E. PASZTOR, Funzione politico-culturale di una struttura della Chiesa: il cardinalato, in Aspetti culturali

della società italiana nel periodo del papato avignonese, Atti del XIX convegno tudertino, 15-18 ottobre 1978,

pp. 197-226. Cit. pp. 202-203. Cfr. anche A. LANDI, Le radici del conciliarismo, Torino, Claudiana Editrice, 2001, pp. 95-96.

2

Cfr. PASZTOR, Funzione politico-culturale cit., pp. 202-203.

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avignonese questi ultimi vennero a loro volta associati al primato stesso, con tangibili ricadute sul potere del Sacro Collegio, che raggiunse livelli decisamente superiori rispetto al passato.4

Anche Brian Tierney considera l’XI secolo, l’età della riforma, come il momento in cui il cardinalato iniziò ad avere un ‘peso’ politico speciale e del tutto nuovo, mentre in precedenza la stessa parola ‘cardinale’ non aveva un significato particolarmente prestigioso («The title merely referred to their incardinated status in the performance of liturgical functions in the five great basilicas»).5 Infatti il movimento riformatore, nel riaffermare l’autorità del papa su tutta la Chiesa, trasformò il Sacro Collegio in un organismo permanente costituito dai più fidati consiglieri del successore di Pietro: in particolare Leone IX vi cooptò alcuni fra i più significativi esponenti del movimento stesso, con il preciso intento di riunire le loro forze in funzione dello scopo comune.6 Il nuovo ruolo dei cardinali nell’ambito della Chiesa romana fu quindi sancito dal decreto sull’elezione del pontefice emanato nel 1059 da Niccolò II, e messo alla prova dalla lotta intrapresa dal papato contro Enrico IV e il suo antipapa Clemente III: infatti, osserva Tierney, nel corso dello scisma ventennale che si produsse, sia Clemente sia i papi riformatori (Gregorio VII, Vittore III e Urbano II) accrebbero l’autorità dei rispettivi Collegi.

Dunque Tierney e la Pasztor collegano assai strettamente lo sviluppo del Collegio e la politica centralizzatrice della Sede apostolica, alla quale esso doveva assicurare la necessaria continuità nel tempo, superando ostacoli contingenti quali la morte dei singoli pontefici e la perdita di appoggi politici: in sintesi, per entrambi con l’XI secolo ebbe inizio il processo che trasformò il Sacro Collegio nel più importante strumento della centralizzazione romana, e al tempo stesso nella più rilevante minaccia all’autorità personale del papa. Questo inedito ruolo cruciale del cardinalato tuttavia necessitava di un adeguato riconoscimento a livello ecclesiologico e giuridico, e infatti la giovane giurisprudenza canonistica del XII secolo non poté non prendere in considerazione tale questione, iniziando ad attribuire collettivamente a papa e cardinali il ruolo di guida e vertice della Chiesa cattolica. Più precisamente, Tierney rileva l’ambiguità che già nel XII secolo andò progressivamente emergendo fra la legge canonica e la semplice, ma ineludibile, realtà delle cose: mentre infatti la prima attribuiva con chiarezza ai cardinali il solo diritto (e potere) di eleggere il pontefice romano, la seconda imponeva invece la necessità di guidare e amministrare quotidianamente un’istituzione universale, che stava lentamente assumendo una superiorità gerarchica sulle Chiese d’Europa.

4 Cfr. ibidem. 5

Cfr. B. TIERNEY, Foundations of the Conciliar Theory. The Contribution of the Medieval Canonists from

Gratian to the Great Schism, Leiden, Brill, 1998, p.63. Cfr. anche A. PARAVICINI BAGLIANI, Il trono di Pietro, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 51-53.

Era inoltre necessario garantire la continuità di tale guida nei delicati periodi che intercorrevano fra la morte di un pontefice e l’elezione del suo successore, e pertanto il potere concretamente esercitato dai cardinali ebbe un notevole incremento:

In the twelfth century the consistory finally replaced the old Church government – the administration of papal justice and finance, questions of faith, the affairs of papal fiefs, important disciplinary matters, and all those causae arduae concerning bishops and dioceses that were by law reserved to the Apostolic See.

The cardinals gradually acquired a right of subscription to papal decrees, and laws were often issued with the formula, de consilio fratrum nostrorum, but the precise legal significance of these usages remained obscure, and neither the texts of Gratian’s Decretum nor his dicta gave any satisfactory answer to the fundamental question raised by the schismatic cardinals in 1084. Did the cardinals participate as of right in the authority divinely conferred on the Apostolic See or were they, for all their dignity and prestige, in essence mere agents of the Pope?7

I decretisti svilupparono allora importanti riflessioni sulle funzioni espletate dai cardinali durante i periodi di vacanza della sede apostolica: la più importante di esse consisteva naturalmente nell’elezione del nuovo vescovo di Roma, dal momento che quest’ultima costituiva l’unico diritto riconosciuto chiaramente ai cardinali dal Decretum.8 Tuttavia essi non posero altrettanto impegno nel definire in maniera esatta il rapporto di forze fra papa e cardinali nella quotidianità dell’azione di governo della Chiesa, ossia non chiarirono cosa fosse in potere dei cardinali fare senza o contro il consenso del papa, oppure in quali situazioni e modalità fosse loro lecito opporsi alle iniziative dello stesso pontefice. Certamente, nota Tierney, essi definivano abitualmente la Chiesa romana nei termini di papa et cardinales, e ciò sembrerebbe indicare che riconoscevano a livello ‘costituzionale’ la partecipazione dei cardinali all’autorità esercitata dalla Sede Apostolica, ma pure questo riconoscimento non si tradusse mai nell’emanazione di regole e giudizi precisi.9 Ad esempio, Uguccione dichiarò che le norme papali avrebbero dovuto essere discusse dal Concistoro prima della loro emanazione, ma non chiarì se riteneva che questo passaggio fosse necessario e obbligatorio per conferire validità ad esse.10 L’unica eccezione a questo orientamento generale fu la Glossa palatina, decisamente più favorevole ai cardinali e alle loro prerogative.11

6

Cfr. TIERNEY, Foundations cit., p.63.

7 T

IERNEY, Foundations cit., pp. 64-65. Cfr. anche PARAVICINI BAGLIANI, Il trono cit., pp. 54-56.

8 Cfr. T

IERNEY, Foundations cit., p. 65.

9 Cfr. ibid., pp. 73-74. 10

Cfr. ibidem.

11

Successivamente i decretalisti, ossia i canonisti del XIII secolo, elaborarono nelle loro opere un riconoscimento formale altrettanto forte del ruolo primario dei cardinali, considerati non solo nella loro veste di elettori, ma anche come parte integrante del caput della Chiesa universale insieme al papa. Tuttavia le loro riflessioni risultarono a loro volta viziate da una forte ambiguità di fondo, pur con le debite differenze personali e generazionali, poiché essi, così come i loro predecessori, non giunsero mai a definire concretamente i limiti del potere del papa nei confronti dei cardinali, e viceversa le reali possibilità di questi ultimi di contrastare tale potere: il loro contributo si espresse sotto forma di discussioni astratte sulle limitazioni teoriche all’autorità del successore di Pietro, ma essi non chiarirono quale istituzione avrebbe dovuto controllarne il rispetto nella pratica.12 La loro opera, sostiene Tierney, fu invece molto più significativa in merito all’analisi giuridica della struttura e dell’amministrazione delle corporazioni ecclesiastiche: ciò avrebbe in seguito determinato lo sviluppo di concezioni più precisamente critiche nei confronti della plenitudo potestatis papale, anche al di là delle intenzioni degli stessi decretalisti.13

Nelle riflessioni di questi ultimi, infatti, il diritto corporativo costituì essenzialmente lo strumento per chiarire e disciplinare in maniera più esatta i rapporti di potere fra vescovo e canonici in ambito diocesano, con un deciso rafforzamento dei diritti e del controllo dei secondi in rapporto al primo:

In general one may sum up the development of canonistic corporation doctrine during the thirteenth century as a gradual extension and systematization of the rights of the members of a corporation in relation to its head. By the middle of the century it was established that consent of the canons was necessary for actions touching their interests, and anything affecting the well-being of the whole corporation was held to concern them. By the end of the century the canons had acquired extensive judicial and administrative authority during an episcopal vacancy. And even when the bishop did act ex

officio on behalf of the whole church his position could be described as that of a proctor, exercising a

derivative authority with clearly defined limitations.14

D’altronde questa evoluzione raggiunse le sue estreme conseguenze nel pensiero di Enrico da Susa, cardinale vescovo di Ostia e a sua volta decretalista. Egli applicò tali riflessioni dottrinali precisamente all’ambito dei rapporti di potere fra papa e cardinali, sostenendo che si poteva estendere alla Chiesa di Roma la concezione corporativa, secondo cui l’organizzazione gerarchica di una società non era incompatibile con un certo grado di

12 Cfr. ibid., p. 89. 13 Cfr. ibidem. 14 Ibid., p. 120.

partecipazione dei suoi membri all’attività di governo, per l’appunto in modalità analoghe a quelle delle corporazioni dell’epoca.15

Pertanto si può concludere che il cardinale Ostiense avesse elaborato una concezione istituzionale della Chiesa, e dei rapporti di potere al suo vertice, fortemente innovativa e potenzialmente rivoluzionaria, una concezione che si collegava alle riflessioni e alle argomentazioni degli altri decretalisti, ma che d’altronde era molto più audace di queste, perché finalmente affrontava e risolveva l’ambiguità di fondo da esse lasciata intatta. Ciò d’altra parte significa che, secondo Tierney, l’Ostiense era sostanzialmente isolato nell’ambito della giurisprudenza canonistica del suo tempo, e se ne potrebbe dedurre che Agostino Paravicini Bagliani abbia compiuto un’eccessiva semplificazione affermando che Enrico da Susa «esprime l’opinio communis dei decretalisti».16

Le concezioni dell’Ostiense sembrano dunque essere state più nette ed avanzate rispetto a quelle degli altri decretalisti, soprattutto se si considera che nel secolo XIII il papato riuscì complessivamente a realizzare con successo la sua politica ierocratica, e che parallelamente espresse rivendicazioni ufficiali di carattere teocratico, proclamandosi fonte del potere temporale e del potere spirituale allo stesso tempo.17 I canonisti assunsero generalmente un orientamento favorevole al riconoscimento della plenitudo potestatis papale, sottolineandone l’universalità e la corrispondente sottomissione delle Chiese locali. Tuttavia, secondo Tierney, anche escludendo l’Ostiense nelle loro opere esistevano diversi elementi che indicavano invece la possibilità di fissare dei limiti a tale accentramento, almeno in relazione ad alcuni principi fondamentali:

There was the doctrine that a Pope could not legitimately act against the general well-being of the Church, and that, at least in case of heresy, he could be deposed by the Church. There was the canonistic teaching that the very rights which were the ultimate roots of all ecclesiastical authority – dominion of church property and ability to maintain the faith with certain truth – rested, not with the Pope nor with any exalted group of prelates, but with the whole congregatio fidelium. There was, above all, the fact that the Papacy was itself an elective office and so invited the same sort of analysis that the canonists had applied to the elected heads of other corporations.18

Naturalmente il prestigio e le incombenze amministrative dei membri del Sacro Collegio aumentarono in proporzione a tali successi della Chiesa di Roma, ma dal punto di

15 Cfr. ibid., pp. 139-140. 16 P

ARAVICINI BAGLIANI, Il trono cit., p. 57.

17 Cfr. F

UBINI, Conciliarismo, regalismo cit., p. 135. Cfr. ancheD. MAFFEI, La Donazione di Costantino nei

giuristi medievali, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 46-48 e 74-82.

18

vista giuridico si deve ribadire che il XIII secolo non vide l’eliminazione di quell’ambiguità che, come si è osservato, esisteva in nuce nei rapporti fra papato e cardinalato. Occorre anzi menzionare due norme, risalenti rispettivamente ai pontificati di Gregorio X e di Bonifacio VIII, che condizionarono pesantemente i margini di libertà d’azione fino ad allora riconosciuti ai cardinali nei periodi di vacanza della Sede Apostolica. Il canone Ubi periculum maius, promulgato dal II Concilio di Lione (presieduto dallo stesso Gregorio nel 1274), prevedeva infatti regole molto chiare, e soprattutto molto restrittive per i cardinali, in ordine all’elezione del pontefice romano: i membri del Sacro Collegio avevano l’obbligo di chiudersi nel ‘conclave’, disinteressandosi di qualunque altro affare che non fosse l’elezione stessa, esclusi i casi di necessità inderogabile e di estremo pericolo.19 Successivamente, Bonifacio VIII emanò un decreto di condanna dei cardinali appartenenti alla famiglia dei Colonna, e lo rafforzò inserendovi una clausola che ne sanciva l’irrevocabilità da parte del Sacro Collegio in caso di vacanza della Sede Apostolica.20

In seguito tali restrizioni vennero accentuate da Clemente V con la sua decretale Ne Romani, che fu vista dai canonisti del XIV secolo come un’evidente negazione di ogni pretesa di legittimità delle rivendicazioni dell’Ostiense.21 Si può dunque osservare che all’inizio del Trecento la condizione giuridica e istituzionale dei membri del Sacro Collegio era complessivamente peggiorata rispetto all’epoca di Enrico da Susa: i loro poteri durante i periodi di vacatio erano stati notevolmente ristretti da queste successive statuizioni pontificie, mentre permaneva una forte ambiguità in merito ai diritti e alle competenze che essi detenevano nella quotidianità del loro rapporto con i papi. Del resto anche i più importanti fra gli stessi canonisti, Guido da Baysio, Giovanni di Andrea e Giovanni da Legnano, non ebbero il modo o la volontà di sanare tale difetto: nelle loro opere infatti essi continuarono ad affermare la plenitudo potestatis del pontefice romano, ma al tempo stesso mantennero inalterato il concetto dell’identificazione della Chiesa con l’universitas fidelium nel suo complesso, irriducibile ipso facto alla sola Chiesa di Roma, costituita da papa e cardinali.22 Prerovsky porta come esempio di questa ambiguità lo stesso Guido da Baysio, detto ‘l’Arcidiacono’: nei suoi scritti egli teorizzava l’origine divina del potere del papa, che pertanto non aveva necessità dell’assistenza dei cardinali nella sua azione di governo; eppure

19 Cfr. ibid., pp. 165-166. Cfr. anche P

ARAVICINI BAGLIANI, Il trono cit., pp. 60-61, e LANDI, Le radici cit., pp. 159-161.

20 Cfr. T

IERNEY, Foundations cit., pp. 165-166.

21

Cfr. ibid., p. 190.

22

non mancava di definire ‘senatori’ i membri del Sacro Collegio, accordando loro il massimo rispetto e ribadendone l’estrema vicinanza al pontefice.23

Dunque, secondo Prerovsky e Tierney, in ultima analisi una delle cause di questa perdurante ambiguità era l’insanabile contraddizione fra le aspirazioni dei canonisti, essenzialmente orientati a difendere lo status quo e la preminenza assoluta del potere del papa, e la concezione fondamentalmente corporativa della Chiesa che era alla base del loro stesso pensiero.24 Infatti tale concezione era ormai divenuta patrimonio comune della giurisprudenza del XIV secolo, «for during the fourteenth century the idea of the congregatio fidelium as a corporate entity in the juristic sense came to be more and more taken for granted».25 Ciò spiega perché i cardinali venissero definiti con i termini più deferenti e fosse loro concesso quasi tutto, anche una comparazione del loro status con quello dei membri delle corporazioni, purché ciò non si traducesse per loro in un effettivo potere alternativo a quello del papa. In termini generali i canonisti accettavano l’assunto secondo cui il Sacro Collegio, insieme al pontefice, costituiva un’entità paragonabile a una corporazione, come del resto si riconosceva per i vescovi e i capitoli dei canonici; eppure questa analogia non si traduceva in specifici diritti dei cardinali in ambito amministrativo e giurisdizionale, semplicemente perché a detta dei canonisti in simili casi la legge disponeva diversamente rispetto alle altre Chiese, per quanto gli stessi Guido da Baysio e Giovanni di Andrea, osserva Tierney, facessero uso della suddetta analogia a seconda delle convenienze.26

Si può dunque asserire che nel XIV secolo il rapporto fra papato e cardinalato fosse caratterizzato da una sostanziale impasse, che impediva qualsiasi ulteriore evoluzione verso la definitiva prevalenza di una delle due istituzioni sull’altra, come ha ben sintetizzato Sandro Carocci:

Il ruolo effettivo spettante ai cardinali, il loro livello di subordinazione al papa e la possibilità di limitarne la pienezza dei poteri tramite la partecipazione collegiale agli affari della Chiesa non vennero mai definiti con sistematicità, restando oggetto di una continua tensione fra le aspirazioni del collegio cardinalizio a una sorta di diarchia con il potere pontificio e le riaffermazioni della discrezionalità papale al riguardo27.

23 Cfr. P

REROVSKY, L’elezione cit., pp. 79-80.

24 Cfr. T

IERNEY, Foundations cit., p. 180.

25 Cfr. ibid., p. 184. 26

Cfr. ibid., pp. 191-192.

27

All’interno di un quadro giuridico-istituzionale così ambiguo, si delineò durante il periodo avignonese un processo politico e sociale nuovo, che avrebbe avuto forti ripercussioni sia sui rapporti del Sacro Collegio con il regno di Francia, sia sugli avvenimenti che determinarono lo Scisma. Intendo con ciò lo sviluppo di un nuovo tipo di nepotismo, contrassegnato da una peculiarità che è stata ravvisata e descritta dalla Pasztor. La studiosa osserva infatti che il tratto caratteristico del cardinalato trecentesco fu la formazione di gruppi forti e compatti su base regionale, che assumevano la maggioranza a seconda dei pontefici eletti in quel periodo: Clemente V favorì i guasconi, il suo successore Giovanni XXII incrementò il numero dei cardinali caorsini, e infine gli ultimi tre papi avignonesi garantirono l’accesso e la permanenza nel Sacro Collegio a una forte rappresentanza della regione di Limoges.28 In questo modo, trattandosi di esponenti di famiglie legate fra loro da interessi e parentela, e provenienti dalla stessa realtà geografica (ma anche sociale, economica e politica), diminuiva il margine di incertezza e di discontinuità fra un pontificato e l’altro, nonché fra le rispettive linee di azione politica, e si surrogava quanto nei regni veniva ottenuto con la successione ereditaria: ne è prova il fatto che sia Clemente VI sia Gregorio XI appartenevano alla famiglia dei Roger.29 Parallelamente la Pasztor nota che i limosini, il gruppo complessivamente più forte all’interno del Sacro Collegio, non vollero o non poterono acquisire un’analoga forza alla corte di Francia, né del resto vi riuscirono gli altri gruppi di volta in volta egemoni.30

Studi più recenti hanno inoltre sottolineato le differenze esistenti tra il nepotismo praticato dal cardinalato avignonese e quello romano del XIII secolo. Sandro Carocci ha

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