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Parte seconda:

CAPITOLO 5: I RACCONTI DELLE ESPERIENZE

5.6. La restituzione delle interviste

5.6.1. Ci sono anch’io!

Durante le interviste ogni ragazzo aveva un proprio modo di raccontarsi. Tale modalità è stata influenzata sicuramente dalla personalità e dalle capacità intellettive ed espressive, ma è stata condizionata anche dalla mia capacità di mettere l’intervistato nelle condizioni di esprimersi senza paura di sbagliare o di essere giudicato. Anche la posizione penale individuale ha avuto un peso. Chi aveva concluso il percorso penale positivamente, infatti parlava con il tono di “chi è riuscito”, che può dare consigli perché ha vissuto una determinata situazione e l’ha superata, anche se cercava un’alleanza e condivisione con me, utilizzando il plurale o l’espressione “tutti pensano così”. Riguardo ai ragazzi che non avevo conosciuto prima, se da una parte c’è stata la mia fatica di cercare e contattare persone a me estranee, dall’altra l’incontro è stato più semplice: entrambi ci siamo sentiti più spontanei nel comunicare. Infine, per i ragazzi con procedimenti penali in corso e di cui mi ero occupata come assistente sociale sicuramente è stato più difficile raccontarsi. In fondo lo è stato anche per me: anch’io ho avuto la sensazione di forzare quando chiedevo di situazioni che, in qualche modo, avevo affrontato in un altro contesto. Penso che, durante queste interviste, il mio ruolo di assistente sociale non sia mai venuto meno. Forse anch’io mi avvicinavo all’incontro con un’opinione già formata sulla situazione, sulle dinamiche attorno al giovane e, in un certo senso, ritenevo di conoscere già queste persone e le loro storie.

Un altro aspetto incontrato è stato quello legato al fatto che un ragazzo, a mio avviso, ha sentito il bisogno di raccontare episodi non veritieri. Tenendo fede all’approccio da me adottato non mi sono soffermata particolarmente all’oggettiva fondatezza di quanto riportato, ma ho cercato di cogliere le motivazioni e/o vissuti che hanno spinto il giovane a presentare un’immagine di sé come persona capace, in grado di fare qualcosa di importante:

I: io avevo 12 anni, no 13 anni, piscina Olimpia, sa dov’è?...stava annegando una, stava annegando una persona di origine Cina, Giappone, allora 5 metri sotto acqua, io stavo giocando a calcio, io sono un attimo sceso giù che faceva troppo caldo quel giorno faccio “mi dò una rinfrescata, vado a mangiare”…e la gente resta là a guardare tutti, i bambini, gli altri a giocare a calcio e il

bagnino non l’ha visto perchè era dietro la palma, subito l’ho visto, mi son tuffato, l’ho preso, l’ho alzato, e ho iniziato a fare il massaggio cardiaco, e arrivato là il bagnino cioè un mio amico più piccolo è andato a chiamarlo e gli ha detto “guardi, guardi”, è venuto correndo il bagnino, bocca a bocca, massaggio cardiaco anche lui, portato via con l’elicottero, l’hanno portato a Castelfranco, vado per vedere se stava bene, si è rimasto una settimana in coma. Poi convocato dal maresciallo e mi ha detto “come hai fatto a fargli il massaggio cardiaco così bene?” Perché se non c’ero io lui moriva e gli ho detto, no che sembrava una battuta “io mi son guardato da piccolo baywatch” “sai che se glielo facevi sbagliato moriva?” gli faccio “ero in un momento di panico e io non sapevo cosa fare, il bagnino, cioè neanche urlare, la prima cosa che mi è passata per la mente” e lui mi fa “hai fatto bene, perché non vai a fare il militare a 17 anni?”[…]

(intervista n. 6, tunisino, 15 anni)

In realtà, da questo incontro sono uscita con un senso d’amarezza, con la sensazione che quel minore vivesse una situazione di profonda solitudine.

Un altro incontro particolare è stato quello con un ragazzo che, oltre avere parlato a lungo, in fase conclusiva ha voluto anche trattare la questione dei reati, anche se non richiesto. Dal racconto ho avuto l’impressione di una falsa sicurezza, ma anche di una certa incertezza, quando ad esempio mi ha parlato dei suoi piercings e chiesto la mia opinione in merito. A questa modalità alternava un atteggiamento provocatorio evidenziando in modo molto marcato il suo lato trasgressivo. Sembrava quasi aspettasse una mia reazione.

In realtà non so se questi ragazzi abbiano avuto una diagnosi di qualche patologia oppure avessero semplicemente delle personalità non ordinarie. Non è, comunque, mio interesse attribuire un’etichetta a questi giovani: quello che ho tentato di fare è stato cercare di conoscere il contesto all’interno del quale vivevano e di cogliere il significato del racconto, al di là di un possibile disturbo psicologico.

Agendo in questo modo, ho percepito come un filo conduttore nelle diverse interviste, una richiesta di riconoscimento, nel senso ampio che questo termine può avere. I ragazzi non hanno fatto questa richiesta in modo esplicito, ma è quello che è passato nei vari incontri: il desiderio di essere visti come persone in grado di fare qualcosa, il bisogno di sentire di avere anche delle qualità. Il provocare, quindi, è una modalità per avere un riscontro del proprio valore, è una richiesta d’ascolto, d’attenzione e d’accettazione per come si è. Questa chiave di lettura mi ha accompagnato, in seguito, anche negli incontri con gli operatori. D’altra parte già alcuni autori sostengono che:

gli adolescenti coinvolti in atti di vandalismo sono anche poco coinvolti nell’attività scolastica, che tendono ad abbandonare. Per alcuni adolescenti queste spiegazioni sono insufficienti, perché le loro azioni sono connotate

dall’esigenze di mettere in mostra se stessi, di sperimentare sensazioni forti. Nella delicata fase in cui il ragazzo cerca la propria identità, la propria individuazione, il gesto incivile può avere il valore simbolico di lasciare il segno; oppure, può essere spiegato come il tentativo di spostamento verso l’esterno di un’aggressività che si vorrebbe inconsciamente rivolgere al proprio corpo. Spesso le azioni vandaliche sono rivolte contro le scuole, l’istituzione in cui i giovani trascorrono tante ore della giornata e tanti anni della loro vita, che dovrebbe dare delle regole e che rappresenta, in adolescenza, una struttura che facilita la separazione dalla propria famiglia per favorire l’indipendenza. Talvolta, quindi, l’attacco alla scuola è visto anche come un modo di ribellarsi all’autorità e di attaccare, anche indirettamente, la famiglia. In fase preadolescenziale e adolescenziale, il ragazzo inizia generalmente la sua “carriera” rubando soldi dal portafoglio dei genitori: l’azione potrebbe essere giustificata dal reale bisogno di quei soldi, anche se poi il loro utilizzo non può essere spiegato ai genitori, poiché in genere il denaro viene usato in sale giochi, magari quando non si entra a scuola la mattina, o per comprarsi sigarette, spinelli o altri tipi di droga. Queste stesse motivazioni spesso continuano ad sussistere anche in seguito, quando il furto si sposta all’esterno delle mura domestiche. Un’altra motivazione, certamente più inconscia, potrebbe essere legata all’opposizione del ragazzo alla propria dipendenza dalle figure genitoriali, spinta molto forte in questa fase, caratterizzata proprio dalla ricerca di autonomia soprattutto dai genitori. I motivi per cui si ruba, in genere, non sono correlati al bisogno, ma al fronteggiare una sensazione di vuoto e noia, per avere qualcosa in più, per apparire più belli agli occhi dei compagni o anche come riti di iniziazione per entrare a far parte di una gang183.

Compiere dei reati e trasgredire alle regole, pertanto, è un modo per far sentire la propria presenza. È un modo per essere protagonisti, non importa se con azioni positive o negative, l’importante è essere notati. Anche all’inizio degli incontri alcuni ragazzi hanno chiesto “ma dove va a finire questa intervista?” oppure “vado in televisione?”, non erano preoccupati che i loro nominativi potessero venire riportati, a volte mi hanno addirittura rassicurata dicendomi che potevo riportare i loro nomi, a volte sembravano delusi nel non venire citati in modo esplicito.

Altre volte compiere dei reati o atti antisociali può essere un modo per esprimere dei bisogni che non riescono ad esporre in maniera diversa, a causa di difficoltà personali o per le situazioni complesse in cui si vive.

Altre volte ancora è un modo per essere accettato, è un modo di stare assieme agli altri e sentire di non essere solo.

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